La galleria Giovanni SARTI anche quest’anno parteciperà alla Biennale des Antiquaires, che si svolgerà al Grand Palais di Parigi dall’11 al 17 settembre 2017. Ecco qualche anticipazione delle opere che porterà nel suo stand (D 11), quattro secoli di storia dell’arte tra fondi oro fiorentini, pittura genovese del Cinquecento e mobili del XVIII secolo.
Quest’Ascensione è una tipica opera di Neri di Bicci, l’ultimo erede della famosa e prolifica dinastia di artisti fiorentini fondata dal capostipite Lorenzo di Bicci (ca. 1350-1427). Per rappresentare l’ultimo avvenimento della vita terrena di Gesù Cristo, che ebbe luogo quaranta giorni dopo la sua risurrezione, Neri di Bicci ha posizionato gli Apostoli e la Vergine intorno ad uno sperone roccioso su cui, si sofferma a descrivere l’impronta dei piedi lasciata da Cristo dopo essere assurto al cielo per ricongiungersi fisicamente al Padre. Lo stile energico che caratterizza la composizione è sintomatico dell’ultima produzione di Neri di Bicci attorno alla seconda metà degli anni Settanta: le gote febbricitanti ed arrossate, segnati da rughe profondamente marcate ; il taglio netto degli occhi, che incupisce lo sguardo ; tessute con stoffe pesanti dai colori accesi, qui definite per mezzo di solchi netti e profondi, che formano a volte delle grosse increspature ad imbuto tipiche nel lessico dell’artista o piegoline guizzanti intrise di luce che donano un effetto cangiante e quasi metallico ai panneggi. Nonostante la presenza di forme e modelli consolidati, caratteristi dell’ultima fase della sua arte, emerge nel complesso la volontà del pittore di rivolgere timidamente uno sguardo ammiccante a soluzioni più moderne e contemporanee in linea con quanto si stava sperimentando a Firenze in quegli anni. Non si è tuttavia allontanato da questa vena tradizionale, a cui, nel tempo, ha imprigionato la sua fantasiosa e stravagante visione del mondo.
Come la maggior parte delle ultime creazioni di Giovanni e delle prime di Luca, questa Sacra Famiglia recentemente identificato è frutto di una collaborazione tra padre e figlio, le cui mani possono essere individuate in differenti sezioni della composizione. Mentre la Madonna ed il Bambino sono dipinti con quella maniera michelangiolesca che contraddistingue le opere meglio conservate di Giovanni, come la pala d’altare della Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo a Taggia, la figura di San Giuseppe a sinistra, e specialmente quella del giovane San Giovanni Battista a destra, mostrano uno scorcio più audace e compiuto, ed un trattamento pittorico più sfumato. Queste caratteristiche corrispondono allo stile di Luca attorno al 1550, ovvero alla fase in cui egli andava temperando le stravaganze giovanili ed elaborando un più maturo trattamento delle forme. Questo dipinto incarna un momento di transizione critico nello sviluppo della pittura Genovese del cinquecento: il passaggio dalla sua prima fase, fortemente influenzata dalle opere dei forestieri romani (tra cui spicca Perin del Vaga), all’affermazione di una delle maggiori scuole regionali nella seconda metà del secolo.
Il personaggio è riconoscibile dai due attributi che lo connotano: l’ascia da guerra, ed il vaso su cui appoggia la mano. Si tratta del celebre vaso di Soissons, simbolo dell’alleanza tra il clero cattolico e Clodoveo. Questa bella immagine del Re barbaro è sicuramente inusuale nell’Italia barocca. Verosimilmente, questa scelta iconografica è dovuta ad un committente di nazionalità francese presente a Roma nei primi decenni del seicento; gli elementi stilistici portano infatti a individuare l’autore del dipinto in Orazio Riminaldi, pittore pisano: oltreché il cromatismo, un po’ lucente, dalle tonalità abbassate e fonde, c’é la corrispondenza stilistica del volto di Clodoveo, con i rialzi di luce, attraverso pennellate di biacca, sul dorso del naso e sulle palpebre, che rendono densa e lumescente la pelle. Orazio Riminaldi deve avere realizzato questo Clodoveo negli anni maturi della sua permanenza romana, in prossimità cioè della metà del terzo decennio, viste le vicinanze che l’opera già mostra con Simon Vouet, pittore al quale il pisano si accostò in quegli anni.
La ricchezza della decorazione di questo comò, in legni chiari e avorio, e la forma particolare dei piedi a voluta, sono caratteristiche dello stile di Pietro Piffetti, di gran lunga il più importante ebanista italiano del XVIII secolo, nonché uno dei più rinomati in Europa. Le numerose placche in avorio sono incise con grande maestria. Al centro del piano d’appoggio si trova un pannello istoriato con dei personaggi vestiti di larghi panni immersi in un paesaggio; in primo piano è raffigurata una piccola scena di caccia. L’artista ha qui abilmente sfruttato le venature del legno per formare un motivo a forma di stella o di fiore. Il fronte del mobile è sinuoso, con un leggero rigonfiamento al centro; ciascuno dei cassetti è decorato con bordure e volute in legno chiaro, arricchite di steli fogliati in avorio su cui sbocciano candidi fiori. Questo comò fa coppia con quello già nella collezione del marchese di Bath a Longleat (Wiltshire).
Galerie G. SARTI
Biennale des Antiquaires – Grand Palais, Parigi
11-17 settembre 2017
Stand – D 11
www.biennale-paris.com