Il curatore si fa da parte. L’arte presenta se stessa. La pittura palesa i suoi ultimi accadimenti sul suolo italico. Dove? Nel profondo centro (storico) d’Italia: la perla (fuori da qualsiasi “centro” contemporaneo) medievale Todi. Chi? Massimo Mattioli -“curatore non demiurgo e in disparte”- o meglio, essendo in piena atmosfera mondiale: selezionatore. Di cosa? Delle ultime ricerche della pratica pittorica in Italia, sulla scia (anche) di questa ennesima ripresa del mezzo sul mercato contemporaneo (problemi ciclici di moda e mercato, perché non c’è mai “ritorno”, “morte”, “figurazione”, “astrazione” e così via, c’è se mai qualità o meno). Comunque, fare il punto. E farlo bene, con cognizione di causa. La volontà (netta ma non categorica sulla scelta degli attori in campo) di constatare il buono stato di salute della pittura nostrana, attraverso un ventaglio di ricerche importanti troppo spesso non adeguatamente valorizzate e riconosciute dal sistema del contemporaneo. Tracciare, come recita il titolo, i “Nuovi scenari della pittura italiana”. Partendo dalle gloriose “misure” del passato. Da Piero. Piero della Francesca. Delinearne una visione globale assumendo come libro e luce guida il De Prospectiva Pingendi del maestro di Sansepolcro (ad appena un centinaio di chilometri da qua del resto). E lo vediamo Mattioli tra le millenarie pietre bianche calcaree di Palazzo del Popolo e Palazzo del Vignola, le due sedi espositive, a vagare col trattato quattrocentesco sotto braccio, a ripetere compulsivamente tra sè e sè: “Disegno, commensuratio, colorare”, “Disegno, commensuratio, colorare”, “Disegno, commensuratio, colorare”. Innumerevoli volte, come un mantra. Una triade, un mantra. Quello di Piero come dovere dell’artista prima di attendere all’opera. Quello di Massimo per concepire la mostra, e scegliere opere e artisti che ricalcassero e calassero quegli aurei principi nell’opera. Pittori di oggi che non scampassero all’approccio alla pittura di Piero (e di Massimo): il “disegno”, cioè come dipingere le singole figure, la “commensuratio”, ovvero come disporle nello spazio, e il “colorare”, come colorarle. Risultato: sedici artisti (ovviamente italiani) per una cinquantina di opere, dal 22 aprile al primo luglio. Uno scenario per forza di cose (di mezzi, di risorse, di spazi) parziale, ma che dipinge un’eccellente visione delle ultime tendenze italiane attraverso un gruppo eterogeneo di artisti under 50 (a parte l’eccezione Verlato con 52 il range di anni va dai 33 ai 50). Una miscela composita, quasi anarchica, alla quale Mattioli tesse dialoghi e corrispondenze (alcune spettacolari, vedi il dittico Verlato-Samorì, o sempre Samorì coi suoi eterni sfregi con l’epopee simboliste misticheggianti di Braida), pur sempre sgomitando con palazzi storici splendidi quanto scomodi da gestire e addomesticare dal punto di vista allestitivo. Tremila metri quadrati di spazi dove si susseguono atmosfere surrealiste, naturaliste, fiabesche, barocche, minimali, impressioniste. Ci sono le geometrie all’apparenza gelate di Chiesi, invece velate di un sottile intimismo romantico, e i sapori pastorali acidi dal gusto espressionita nordico di Buccella, che quasi vomita le sue figure colandole piegate su se stesse in un seducente trittico. Ci sono le nebulose della Lambroni, i fumi cartacei di Cannistrà, le partiture post picassiane della Mei e quelle post naturaliste di Bardino. Ci sono le prospettive di Pontrelli, le geometrie di Neri e le illusioni di Adamo. C’è la menzione d’onore al già citato Thomas Braida, capace di cogliere l’imperativo di Piero fissandolo nell’onirico di un solitario mitologico Narciso o nello squisito e squillante caos di Clangori. Ci sono i suggestivi dittici-confronti (visti gli echi e i formati) prima citati: la lucidità metallica in bilico tra modelli italiani e contaminazioni prepotentemente americane di Nicola Verlato, accanto a uno degli apici di quella super-pittura che vede in Samorì uno dei suoi più alti demiurghi, un dipinto che scuoia se stesso. Una super-pittura, che -parafrasando Mattioli- si rinnega per poi riprendersi a un livello più avanzato, diretta conseguenza del portare agli estremi le possibilità della stessa. Carattere che accomuna (o perlomeno dovrebbe accomunare) gli artisti selezionati “cresciuti con una specie di individualismo forzato”, come scrive in catalogo Mattioli. Quello stesso catalogo che li prende tutti assieme e li mette sotto vuoto. E li conserva.