La prima partecipazione dell’Arabia Saudita e del Libano alla Biennale d’Architettura, conferma l’interesse crescente per la disciplina che si prova nella regione mediorientale. Se gli Emirati Arabi si confermano fra le realtà più avanzate, l’Egitto paga ancora i dissesti della dittatura, e il Libano cerca faticosamente di ricostruire l’identità nazionale. Fino al 25 novembre 2018. www.labiennale.org
Venezia. Il Medio Oriente si conferma una regione controversa, fra avanguardie e residui di medievalismo, memorie di guerra e sguardi al futuro. All’interno del complesso panorama regionale, abbiamo selezionato quattro Padiglione di altrettanti Paesi, significativi per la loro valenza simbolica, o l’ampio respiro tecnico dei progetti presentati Dagli Emirati Arabi al Libano, passando per l’Arabia Saudita e l’Egitto, quattro differenti esperienze raccontano la vitalità di un’area eterogenea, dove a Paesi economicamente sviluppati se ne affiancano altri ancora afflitti dalla povertà, e con le ombre di guerre passate che ancora si stendono sui popoli. Fra le aree indubbiamente più progredite, al centro dell’economia mondiale e terreno fertile per investimenti stranieri, gli Emirati Arabi Uniti possono contare su ingenti risorse da destinare all’architettura, e negli ultimi trent’anni hanno ridisegnato il volto delle loro città. Dove, accanto a edifici appariscenti, monumentali, eccessivamente sfarzosi, si è sviluppata anche un’architettura “a misura d’uomo”, che accoglie la vita quotidiana all’ombra dei grattacieli in vetrocemento sedi, ad esempio, di banche o grandi alberghi. All’interno di una pianificazione edilizia nazionale – voluta già da Sheikh Zayed bin Sultan Al Nahyan, fondatore degli Emirati -, sono stati concepiti edifici e spazi a disposizione del cittadino, sviluppati parallelamente, e in armonia, con i “quartieri alti”. Quartieri residenziali, grandi aree verdi, edifici pubblici, aree di gioco all’aperto per bambini e ragazzi; spazio libero razionalmente organizzato e distribuito, patrimonio della cittadinanza.
Assai più drammatico l’approccio del popolo libanese verso le aree non urbanizzate. In un Paese ancora alla ricerca di un assetto definitivo, che si sta faticosamente lasciando alle spalle l’esperienza della guerra e dell’instabilità politica, sta nascendo la consapevolezza del buon uso del territorio, luogo da abitare, ma anche custode della memoria e dell’identità di un popolo. Una riflessione sull’architettura attraverso l’assenza dell’architettura stessa; fra il 1956 e il 1975, il Libano conobbe il primo miracolo economico, interrotto dalla guerra e ripreso in parte negli anni Novanta, interrotto di nuovo nel 2004 e ricominciato dieci anni dopo. Anni intensi e drammatici insieme, che hanno visto l’espansione vorticosa delle città, che videro aumentare gli abitanti e la superficie edificata. Negli anni della guerra civile, con le città costantemente sottoposte a intensi bombardamenti, le aree “vergini” delle campagne divennero rifugi per migliaia di profughi, così come intere aree costiere o montane. Villaggi di poche centinaia di anime, ne contarono in breve tempo svariate migliaia, e l’espansione incontrollata, dettata dall’emergenza, non si è più arrestata, generando agglomerati urbani caotici, improvvisati, il cui unico fattore di unione è dato dall’appartenenza etnica o religiosa. In un’ottica di diminuire il consumo di suolo, di attenzione alla salvaguardia dell’ecosistema e del legame spirituale con la propria terra, il Padiglione curato da Hala Younes si sviluppa come un reportage fotografico e una mappatura del paesaggio naturale e dell’incontro, spesso conflittuale, con l’espansione urbana. Un lungo lavoro di ricerca nato per fare il punto della situazione e avviare un ripensamento edilizio, nell’ottica di preservare quanto resta della valle di Nahr Beirut.
Il Padiglione dell’Arabia Saudita, alla sua prima partecipazione a Venezia, conferma le contraddizioni di un Paese sospeso fra il Medioevo e il futuro; si sta sviluppando un ambizioso piano di riorganizzazione di quelle aree periferiche nate a seguito della rapida espansione delle sue città, che ha preso avvio circa quattro decenni fa. Una crescita forsennata, senza una direzione dall’alto, che ha portato a un’eccessiva frammentazione e dispersione del tessuto periferico, con larghi spazi vuoti fra un agglomerato e l’altro, un inefficiente utilizzo del territorio e irrazionalità delle vie di collegamento. L’impresa a cui si sta lavorando in Arabia Saudita – documentata dal Padiglione curato da Jawaher Al-Sudairy è quella di riportare lo sviluppo all’interno delle città, attraverso piani di rinnovamento e riqualificazione dei centri, e convertire gli “interstizi” non utilizzati in aree pubbliche a destinazione culturale, sociale, ricreativa, incoraggiando la mobilità attraverso la realizzazione di estese reti di trasporti pubblici. Un piano legato al concetto di architettura come strumento critico che insiste sull’idea di cultura, di comunità, di economia; questo nell’ottica della creazione di una buona pratica dell’abitare che spinga al rispetto dell’ambiente naturale e all’adozione di stili di vita a basso impatto, soprattutto nell’interesse delle future generazioni cui tramandare anche il patrimonio edilizio.
Sottile e poetico il Padiglione Egitto, incentrato sulla riqualificazione degli spazi commerciali spontanei, sovente abusivi, che sorgono nelle varie città del Paese. L’istallazione (accompagnata da numerose fotografie “sul campo”) intende evocare i suk, che trasformano lo spazio da “libero” ad “acquisito”, anche se in maniera informale; baracche a perdita d’occhio, adibite a negozi di ogni genere di merci, disseminate senza ordine nelle zone più impensate delle città; tali mercatini improvvisati sono la proverbiale punta dell’iceberg dei gravi problemi urbanistici che affliggono le città egiziane, sovrappopolate e sprovviste di piani regolatori, con migliaia di abitanti costretti a vivere in maniera precaria, in attendamenti o persino nei cimiteri. Una realtà verso cui la dittatura militare non ha mai dimostrato interesse. Focalizzandosi su queste problematiche, il Padiglione Egitto curato da Islam El Mashtooly, Mouaz Abouzaid e Cristiano Luchetti, riporta all’attenzione internazionale le difficili condizioni di vita di milioni di individui, e richiama l’architettura al suo dovere morale di contribuire a far sì che ogni essere umano possa avere una vita dignitosa.