Miart è, come ben sappiamo, una fiera e anche quest’anno non ha messo a dieta la sua natura, invitando 185 gallerie a partecipare. In quanto fiera non ci aspettiamo certo una cura estrema nell’allestimento o, tantomeno, dell’approfondimento critico legato alle opere in esposizione. Dall’altra parte non si può nemmeno negare che entrambi gli aspetti, per quanto non richiesti, rappresentino un inevitabile valore aggiunto alla messa in scena di qualsiasi manifestazione fieristica. A maggior ragione a Milano, dove la fiera mira ad una continua crescita, ad attirare sempre più collezionisti ed interessati, e conserva quindi una particolare necessità di stupire. Anche, perché no, attraverso un’attenzione particolare alla valorizzazione della proposta, esaltata da una resa teatrale ma studiata, ricercata nel suo somigliare spontaneo (anche se inevitabilmente limitato) ad una mostra.
In questa direzione l’edizione 2019 brilla lampi di raffinatezza e approfondimento nel mezzo dei corridoi bianchi a rischio ridondanza, spezzati da stand che si differenziano a colpo d’occhio. Soprattutto se lo sguardo è attirato da colori brillanti ma, prima di soffermarsi sull’opera, scivola distratto sulla targhetta che recita David Hockney. Piena attenzione ad un nome insolito a queste latitudini ma che, anche grazie ai record in asta, si è definitivamente conquistato un ruolo nel catalogo ideale di ogni appassionato d’arte. Perciò si è già entusiasti entrando nello spazio di Lelong, Parigi, che all’artista pop britannico dedica l’intero stand. Una monografica che non porta a Milano solo i colori piatti ma brillanti che tutti associamo ad Hockney, ma soprattutto il mezzo bizzarro-avanguardista con cui ha realizzato le opere: l’ipad. Il risultato si discosta dalla resa dell’acrilico e della pittura ad olio cari all’artista, ma conserva le scene e le figure realistiche e improbabili allo stesso tempo, l’impatto cromatico, la ripetitività dei soggetti trasfigurati.
Dalla figurazione caricata all’astrazione carica, di forza e energia, della Galleria dello Scudo. Sette incontri ravvicinati tra i colpi di colore di Emilio Vedova che avvolgono due sculture di Spagnulo. Se è difficile comprendere i risvolti delle tensioni cromatiche dell’artista veneziano, di certo non possiamo ignorare il ratto emotivo con cui veniamo coinvolti nell’eterna dialettica bianco-nero, dal brusio del verde, dallo scrosciare del blu, dai lampi di giallo e da quel divampare rosso, sempre più raro sul mercato. Incontro che sa di esposizione, di dedica romantica ad un artista di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita.
Critico impatto anche con le fotografie iperrealiste di Paul McCarthy, vivisezione analitica di bambole contorte e misteriosi oggetti d’uso, protagonisti su un vivace sfondo monocromo acceso. Forte dissonanza quindi nello stand di Hauser & Wirth, la cui fama e importanza sono confermate da un solo show che non delude le attese per il debutto della leading gallery a Milano. Un ambiente straniante ricreato grazie alla serie degli anni novanta ’90 PROPO, accompagnata da due sculture in resina altrettanto disturbanti, sezionate e ricomposte, a porre artificialità dove regnerebbe il naturale.
Impossibile non citare lo scavo archeologico riprodotto da Evgeny Antufiev per la Galleria Z2O Sara Zanin. Pareti marroni-gialle da tomba egizia a distinguere lo stand e ad immergerlo in un contesto ulteriore, punto isolato – non solo cromaticamente – dal resto della fiera. Un ambiente unico e ideato su misura, scenario perfetto delle ceramiche e dei bronzi collocati simmetricamente e volti a condurre sguardo ed interesse verso l’illusorio abside centrale.
Da apprezzare inoltre l’elegante armonia degli spazi di Thaddaeus Ropac e Tucci Russo. Entrambi aprono con una scultura di Tony Cragg, delineando un’approccio consolidato ma non scontato alla fiera. Se la prima sceglie poi di affidarsi a due imponenti tele di Vedova e Baselitz (tra poco protagonisti di due importanti mostre collaterali alla Biennale di Venezia), la seconda galleria si affida all’arte concettuale italiana. Un Corpo di pietra – Rami di Penone si integra perfettamente allo stucco veneziano della parete appositamente realizzata, mentre tre Fake Flag di Thomas Schütte brillano sopra alle sovrapposizioni di lastre in plexigas di Paolini, con due splendide clessidre incrociate al centro.
Lo ha ripetuto spesso Andrea Rabottini, direttore di miart per il terzo anno, che questa è una fiera e non una mostra. Ma se una fiera sceglie come motto “hold everything dear” (riprendendo le parole di Gareth Evans, curatore della White Chapel di Londra), non possiamo ignorare come questa “attenzione” a cui ci si ispira si stia rivolgendo sempre più, anno dopo anno, ad una cura degli spazi che diventano ambienti, ad una presentazione delle mostre che diventa esposizione.