Cosa accomuna due pittori così distanti come Emilio Vedova e Jacopo Tintoretto?
Innanzitutto Venezia, la città nata sul vuoto. L’instabile liquidità su cui poggiano le fondamenta della città lagunare è stata patria di entrambi i pittori. Jacopo Tintoretto e Emilio Vedova, in tempi diversi, hanno percorse le sue strade, i suoi saliscendi, i suoi ponti, le sue luci trasfigurate, si sono immersi nel suo misterioso reggersi sul nulla. L’integrarsi di legno, pietra, palafitte, terra, rive, sponde deve essersi intrecciato in modo particolare nella mente dei due artisti e, con le dovute differenze, in maniera analoga. Il luogo dove questa sincronia artistica si è verificata è indubbiamente la Scuola di San Rocco, affrescata in modo superbo da Tintoretto. Le testimonianze riferiscono di come il giovane studente Emilio passasse molto tempo in compagnia delle opere del vecchio maestro manierista. Anche se non era l’aspetto manieristico ad interessare il ragazzo, ma la forza segreta del suo gesto pittorico. Negli affreschi il tema del contrasto scivola nelle linee tese di uno stile funzionale estremamente vivacizzato dal continuo conflitto tra le parti. Una stessa energia scaturita della perpetua lotta cromatica e gestuale attraversa i Dischi di Vedova, ultimi superstiti di un acceso scontro tra colori.
La Crocefissione del Tintoretto guarda dritto alla corporeità del Cristo, solleva in maniera decisa l’interrogativo teologico attorno alla sua natura e ne sottolinea tragicamente il dramma. Il contrasto è marcato nettamente da uno scambio continuo di chiaroscuri che si intrecciano tanto da impigliarsi. Come le frustrate di colore che Vedova scaglia sulla tela; come i bozzetti che il pittore realizzava tra il 1930 e il 1940. Ben prima di dedicarsi assiduamente all’informale, nel Cristo nell’orto (1937) e nel Cristo Caduto l’artista sperimentò l’approccio tintorettiano senza rimanerne imprigionato, ma anzi trasportandone lo spirito nella sua opera più matura. Una volta apertosi all’informale la poetica del contrasto e della lacerazione, dell’incontro violento e della divisione irreversibile, rimasero un’indimenticata eredità di ciò che da Tintoretto aveva appreso. Il peso ingombrante delle figure del maestro cinquecentesco gravano sulla pittura di Vedova inferocendone la pennellata. Ma non solo: nel Senza titolo del 1996/97 due pali, come una croce scomposta, trafiggono violentemente la superficie del quadro circolare. Una sorta di crocefisso inusuale che propaga tutta la sofferenza della materia ferita, della carne squarciata.
Dalla corporeità gravosa alla sua regolazione nello spazio:
Tintoretto viole trasportare sulla tela dei solidi, in tutta la loro solidità. Risultato: una calca. Quei corpi impenetrabili si urtano senza mescolarsi. Il modello è la ganga: è il luogo come invalicabile prigione.
J.P. Sartre, Tintoretto o il sequestrato di Venezia
I personaggi di Tintoretto si scontrano accalcandosi gli uni sugli altri, si arrampicano alla ricerca di una posizione e ognuno, a suo modo, ne conquista una importante. Tanto che questo genera una rottura della prospettiva unilaterale e frantuma lo sguardo in svariati punti di vista tutti differenti e tutti altrettanto validi. Vedova sosteneva infatti che le opere dell’antico maestro potessero essere fatte roteare completamente ma allo stesso tempo mantenere la propria integrità e un valido centro d’osservazione. Un eco di tale versatilità non si può non rintracciare nei Dischi, perfetta sublimazione di questo approccio dinamico e di continua adattabilità dell’opera.
Vedova si muove però ancora oltre, eliminando qualsiasi riferimento centrale e lasciando le redini dell’osservazione in mano al caos. Immaginandoci all’improvviso catapultati all’interno di una sua opera ci troveremmo in balia si un confronto tra linee contorte e magmatiche scie di colore. L’anarchia ponderata di forme distrutte e di segni convulsi riecheggiano i corpi tumultuosi di Tintoretto nella loro totale idealizzazione. Le masse finiscono definitivamente per scontrarsi e sovrapporsi, portando all’estremo la lotta per emergere iniziata nelle opere del maestro. Una corrispondenza suggerita che si fa ancora più netta quando si guarda ai bozzetti di Tintoretto (come quello per Vulcano e Venere, caricati di linee scure e tensioni distribuite).
Nelle trame vorticose dei due artisti si rintraccia un silenzioso desiderio comune di ricostruire la labirintica architettura di Venezia, lasciando fluttuare nelle composizioni ombre spettrali e incroci sinistri, frementi linee convergenti e nervose traiettorie divergenti, un instabile piacere di galleggiare sul vuoto.
*Emilio Vedova, Senza titolo