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Arte italiana a New York

MORANDI “IN”. ITALIA “OUT”
Dal successo del pittore bolognese a New York agli insuccessi nazionali
 

Giorgio Morandi ha conquistato gli americani. Una bella notizia che arriva in un momento critico per la cultura del nostro Paese. Le più importanti associazioni di musei esprimono forti preoccupazioni sul futuro dell’arte in Italia. Tagliati i fondi alla cultura. I musei affidati ad un super manager senza competenza nel settore. Tutto ciò mentre le strutture museali registrano un calo netto di visitatori ed incassi. Non ci resta, ancora una volta, che guardare all’estero per trovare risultati positivi. La mostra dedicata al maestro bolognese fino al 14 dicembre al Metropolitan Museum di New York, e che arriverà al Mambo il prossimo 22 gennaio, è stata accolta con favore dal pubblico e dalla critica. Lo hanno visitano in media 1800 persone al giorno ed 83 giornalisti hanno recensito l’evento su quotidiani e media nazionali. Le cifre sono state rese note in una video conferenza che ha messo in collegamento l’Istituto di Cultura Italiana di New York e la sede bolognese di Unindustria, sponsor al 50% del recupero di casa Morandi la cui apertura (la parte edilizia è stata recuperata per mettere in risalto i segni che il pittore lasciò sulle pareti) dovrà coincidere con l’inaugurazione della mostra a Bologna.

Se il successo del pittore a New York riesce ancora a riempirci d’orgoglio nazionale, sapere che “nessun profeta lo è in patria” lascia però un largo spazio all’amarezza. A Bologna infatti, come nel miglior costume nazionale, si litiga per i soliti ritardi.

«A cinquanta giorni dall’apertura della mostra di Morandi – ha dichiarato a fine novembre Bruno Filetti, il presidente della Camera di Commercio bolognese, puntando il dito contro l’amministrazione – nessuno sa ancora niente di questo grande appuntamento». A suo giudizio la città è in ritardo, tanto che occorre darsi una mossa e mettersi a correre. Per l’assessore alla cultura, Angelo Guglielmi, non è sua responsabilità sveltire il passo. E’ la città, lamenta, a non essere ancora pronta né consapevole di questa grande iniziativa culturale.

«Quando io parlavo di realizzare un’esposizione di Morandi, tutti a Bologna cadevano dalle nuvole e mi obbiettavano: ma scusi, non c’è già un museo?» confessa l’assessore non perdendo occasione per autocelebrare la sua “messianica” operazione.

«E invece io cos’ ho fatto? Ho staccato quest’icona e l’ho portata fuori. L’ho strappata alla croce per portarla tra gli uomini».

Operazione quanto mai riuscita considerato lo spessore artistico del pittore che, come ha ricordato Fabrizio D’Amico su La Repubblica, non ha mai varcato i confini italiani se non una sola volta, in età avanzata. E’ riuscito a persuadere New Yorkdi non essere solo un grande artista di un tempo trascorso, ma un seme vivo e capace di orientare nuove generazioni. Lo scoglio c’era. Morandi si presentava infatti alla platea statunitense armato – usando le parole di D’Amico – soltanto della sua “forma”:

“Del suo intento di sottrarre al flusso dell’esistenza i suoi sempre eguali pretesti figurali, e di investirli di composizione, di luce e d’ ombra, di colori accordati o squillanti. Linee e colori su una superficie: questo è stata per secoli la pittura, tetragona ad ogni altro assillo”. Oggi, a quanto pare, l’arte è un’altra cosa, e quella sua “forma”, quel sottrarre il mondo con i suoi clamori dal suo sguardo per rendercelo diverso, distante, chiuso in sé, è una parola desueta. Ma ce l’ha fatta. Anzi, ce l’hanno fatto. La pittura italiana e Morandi. Secondo gli organizzatori, la rassegna è stata la terza esposizione con il più alto numero di visitatori per giorni di permanenza nel museo. Al primo posto tra le mostre italiane al Met.

Passando dalla grande Mela alla povera Italia nascono le preoccupazioni. Aumenta il presentimento che i numeri statunitensi difficilmente troveranno conferma a casa nostra. Il Corriere della sera, il 12 dicembre, ha titolato nel suo “Focus” sulla cultura in recessione: “La crisi è entrata nei musei. Primo calo dopo 12 anni”. Nel primo semestre c’è stato un calo del -3,65% nelle 50 principali istituzioni museali italiane che mai, dal ’96, avevano perso così tanto appeal. Calano incassi e visitatori. E lo Stato che fa? Taglia i fondi ed elimina l’attenzione per il contemporaneo – denuncia l’Amaci – come voce dall’organigramma ministeriale. Il crocifisso in legno attribuito a Michelangelo, acquistato nei giorni scorsi dallo Stato Italiano e presentato il 12 dicembre all’ambasciata italiana pressola Santa Sede, appare quasi come un simbolico presagio. A quella croce stanno inchiodando il futuro della nostra cultura. 

Senza nemmeno andar troppo lontani, è utile sapere che anche a fronte di un numero davvero esorbitante di visitatori, come quelli del Louvre o del Centre Pompidou in Francia, la quota di autofinanziamento (risorse autonome provenienti appunto da biglietti, bookshop, merchandising etc.) non rende affatto autosufficienti queste strutture, se non per una quota molto ridotta che va da 25% al 35%. Lo Stato francese garantisce al Louvre un budget annuale di oltre 100 milioni di euro e 2.000 dipendenti. Al Pompidou di oltre 70 milioni e 1.000 dipendenti. Cifre davvero da capogiro per noi. Per rifuggire dagli insuccessi nazionali la chiave rimane, come il sogno Morandi ha dimostrato, guardare all’estero. Non solo come facile via di fuga, ma per cercare più validi modelli politici e culturali. Lo esige il nostro immenso patrimonio artistico.

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