Contropelo, la personale di Ivana Spinelli, curata da Claudio Musso, presso GALLERIAPIÙ a Bologna. Una ricerca sui segni della società Gilanica, l’incontro con un libro che ne rivela i significati: Il linguaggio della dea.
Due ragazzi si muovono nella stanza, una ragazza si corica su una sorta di divanetto, rimane ferma per un po’ di tempo, un ragazzo sposta una piccola scala, movimenti lenti che rimettono in discussione gli equilibri dello spazio.
Contropelo, la personale di Ivana Spinelli, curata da Claudio Musso, alla Gallleriapiù di Bologna. Segni, tratti lineari che si compongono a lisca di pesce, a triangolo, in semplici verticali, onde per indicare qualcosa di vasto, forse il mare.
Ivana Spinelli incontra un libro, Il linguaggio della dea di Marija Gimbutas, archeologa e linguista lituana. Una ricerca sui segni della società Gilanica diffusa nel neolitico in tutta l’Antica Europa, una cultura egualitaria e pacifica sopravvissuta per più di 3500 anni. Spinelli assorbe, ispeziona il linguaggio, senza poterlo maneggiare con sicurezza, probabilmente tradendolo. Se ne appropria perché ne comprende la duttilità iconografica e scultorea. La galleria viene diffusa di segnali, pagine su cui vengono riportati simboli alfabetici, taccuini che ossessivamente vengono occupati dall’antica scrittura, come per abituare la mano ad un nuovo gesto, per capire senza apprendere del tutto. E poi piccole sculture che simulano zig zag, rette, triangoli: il linguaggio diventa oggetto, si fa materia che si può spostare, aggregare. Oggetti, sacche in stoffa appese alla parete, sacche che riportano simboli, sacche che contengono altri residui: foglie, rami, nature morte. Panche soffici appoggiate a gambe alfabetiche, una piccola scala sorretta da una gamba in legno graffiata da un gatto. Spinelli recupera un linguaggio sprofondato nella storia, lo recupera trasformandolo in scultura, anzi in contenitore, in oggetti generosi e capaci di accogliere.
Ma cos’è che viene realmente custodito?
Cosa sono i rami, le foglie che queste sacche, queste scatole in legno, proteggono o trasportano?
Ripartiamo dall’inizio, dall’uso di una lingua che perde la sua funzione primaria e ritorna ad essere forma. Pezzi che vengono riscritti, incisi, che vengono raccolti in taccuini, libri, fogli di carta. Una lingua che pur non potendo più parlare e assolvere al proprio uso, viene custodita e replicata, in un gesto protettivo, forse ecologico. La lingua si trasforma in oggetto, diventando corpo autonomo, a sua volta ospitale e ospitante. Le foglie, i rami recisi, non sono altro che salme, come lo era la lingua stessa diventata ora scultura. La lingua è morta e rispetta i sui simili, li riconosce e li preserva dall’oblio. Credo che Spinelli abbia messo in atto un meccanismo di salvaguardia reciproca, la morte è qualcosa di apparente e soprattutto marginale.
Alla parete è appena una pianta secca, rami lunghi che Spinelli non ha voluto abbandonare, di cui non ha voluto disfarsi. Una struttura verticale a cui è appoggiato un filo a piombo di pelo rosa, una verticalità che, anche in questo caso, simula un segno, un simbolo alfabetico. Una sovrapposizione di due oggetti inutili, che stanno vicini, si proteggono e alimentano vicendevolmente.
Spinelli innesca un meccanismo di difesa, di protezione, accudisce quei segni che riemergono dall’inconscio, nature morte, foglie secche, li rende autonomi e capaci di far fronte alle perturbazioni della storia.
La mostra sarà visitabile fino al 28 marzo
GALLERIAPIÙ, via del Porto, 48 a/b
Orari: martedì e mercoledì 14.30 – 19.30, giovedì e venerdì 12.00 – 19.30, sabato 11 – 19