La solitudine dei grandi. Quando l’isolamento può diventare una opportunità. Da Giacomo Leopardi a Steve Jobs, da Walt Disney a Vittorio Alfieri, da van Gogh a Picasso.
Al numero civico 2066 sulla Crist Drive di Los Altos, nella contea di Santa Clara, California, c’è una casa a un piano solo tinta di bianco con la serranda abbassata del garage. Lì dentro, nel 1976, Steve Jobs e Steve Wozniak si dividevano tra quel locale angusto, dove c’era giusto lo spazio per una di quelle grandi Ford con il tettuccio apribile, e la stanza da letto dei genitori, per realizzare il primo computer Mac.
Era una vita in quarantena. Uscivano solo per andare in un negozio a comprare del materiale e a cercare di vendere le loro invenzioni. Si facevano dare una mano dai figli dei vicini e dalla sorellastra Patricia, che tutti chiamavano Patti. Perché la quarantena non è una invenzione dei giorni nostri e della emergenza coronavirus. In base a ricerche e studi effettuati durante l’ultimo isolamento in Cina e nei tempi passati per la Sars, gli scienziati sarebbero giunti alla conclusione che lunghi periodi di segregazione solitaria possono portare a disturbi emotivi, depressione, stress, sbalzi negativi di umore, irritabilità, insonnia e altri sintomi psicologici derivanti da stress post-traumatico. Eppure, come sottolinea Gianluca Castelnuovo, professore di Psicologia Clinica all’Università Cattolica di Milano, questo periodo di radicale cambiamento dello stile di vita quotidiano può anche diventare una opportunità.
E la storia di molti personaggi famosi sta lì a dimostrarlo. Perché c’è anche chi ha fatto dell’isolamento una scelta più o meno obbligata. Il garage di Steve Jobs è diventato un monumento con le visite guidate dei turisti, anche se il suo socio Woznak ha detto che si è molto esagerato creandone una leggenda. Però, in quella casa è nata Apple. Per partire, Steve aveva venduto il suo furgone e il suo socio la sua calcolatrice scientifica. Il primo computer che produssero era una cosa quasi ridicola, che mancava di tutto, in pratica: non aveva schermo, non aveva mobile. Ma funzionava. E loro continuarono a insistere senza quasi mai uscire da quel buco. Cinquanta modelli provarono. Nel garage fu sancito il patto per fondare Apple. E nel salotto di casa ricevevano i primi investitori, come Chuck Paddle di Commodore e Don Valentino di Sequoia Capital.
Oggi davanti a questa villetta bianca sulla Crist Drive, ogni mattina si forma una composta e silenziosa fila di persone che rendono omaggio al mito di Steve. Ma anche Bill Gates, il fondatore di Microsoft, ha fatto la sua quarantena. Lui, Paul Allen e altri due hackers della scuola privata di Lakeside, a Nord di Seattle, nello Stato di Washington, quando avevano appena 13 anni, nel 1968, rimasero chiusi in una stanza giorno e notte per un tempo infinito, scrivendo programmi, leggendo testi e qualsiasi cosa potesse essere utile all’approfondimento dell’informatica: saltavano le lezioni, non studiavano niente e se ne stavano sempre rinserrati lì dentro, a cercare un modo per applicare le loro conoscenze sui computer del mondo reale. La scuola chiamò persino i suoi genitori, il padre William H., noto avvocato, e la mamma Mary Maxwell, docente all’università, minacciando di sospenderlo.
Oggi, Bill Gates è stato per molti anni l’uomo più ricco del mondo, secondo la classifica stilata da Forbes, superato ultimamente solo da Jeff Bezos, fondatore du Amazon. Larry Page e Sergej Brin, invece sono al dodicesimo e al tredicesimo posto in questa lista di Paperoni. E anche loro sono partiti da una quarantena, e da un garage di Menco Park, alle porte di San Francisco, dove hanno inventato Google quando erano solo due studenti di Standford. In un garage di Milwaukee i ventenni William Harley e Arthur Davidson disegnarono il primo prototipo di motocicletta motorizzata. Quella che è diventata l’Harley Davidson di Jack Nicholson e Peter Fonda, i due hippie di Easy Rider in viaggio sulle strade sperdute dell’America profonda che sta perdendo la sua identità nella guerra al Vietnam. Dall’isolamento del garage di Milwaukee al suo esatto opposto: la ricerca della libertà.
Anche Walt Disney iniziò a disegnare i suoi cartoni animati in un garage di Los Angeles. E’ come se il genio avesse bisogno dell’isolamento per affermarsi e allargare i suoi confini. Alan Turing, che è stato di sicuro un genio, fu invece costretto alla quarantena. Lo richiedeva soprattutto la segretezza del suo progetto. Lavorò per tutta la seconda guerra mondiale, chiuso fra le mura di Betchley Park con i suoi compagni, per decifrare i codici usati nelle comunicazioni tedesche, progettando una macchina chiamata Colossus, lontana antesignana del computer.
La verità è che la solitudine ha accompagnato la nostra storia e anche la nostra grandezza. Soprattutto nell’arte. Mozart amava comporre musica da solo. Demostene si rasò metà della testa per costringersi a non uscire di casa, bloccandosi nella sua stanza a provare i discorsi. Vittorio Alfieri si faceva legare alla sedia dal suo domestico per essere obbligato a studiare. La quarantena è fisica e spirituale. Giacomo Leopardi, che è il più grande cantore della solitudine, convinto com’era che questa condizione rafforzasse la poesia, ha lasciato scritto la cosa più vera e più semplice: «La solitudine è come una lente di ingrandimento. Se sei solo e stai bene, stai benissimo. Se sei solo e stai male, stai malissimo». E non c’è niente di più vero.
Per questo l’arte e la scienza devono molto all’allontanamento dal mondo. La psicologa Giovanna Maria Nastasi spiega che «l’isolamento voluto e ricercato facilita la creatività perché permette di entrare in contatto con i propri sentimenti più intimi. Questo è l’uso costruttivo della solitudine che fa l’artista». Pablo Picasso diceva: «Senza una gran solitudine nessun serio lavoro è possibile». E van Gogh ne è l’esempio eclatante. In una lettera al fratello Theo, per descrivere una sua opera, scriveva: «Sono immense distese di grano sotto cieli nuvolosi e non mi sento per niente imbarazzato nel tentare di esprimere tristezza e solitudine». Il suo è un sentimento quasi violento che contrasta con quello elegante e moderno che Edward Hopper esprime nei suoi lavori.
Ma alla fine l’impressione è che l’allontanamento dal mondo e dalle abitudini quotidiane degli altri, può avere anche un risvolto positivo. E non è detto che è necessario essere per forza un artista o uno scienziato per saperlo apprezzare. Come diceva Fabrizio De André, «la solitudine può portare a forme straordinarie di libertà».