“Questa notte mio padre ha deposto per sempre la sua macchina fotografica”. Così è stata annunciata la morte di Marc Garanger dal figlio Martin, lo corso 27 aprile. Il fotografo francese stava per compiere 85 anni. Durante la sua carriera ha scattato migliaia di fotografie, ma i ritratti alle donne algerine costrette a mostrarsi ai soldati francesi, più di altre, rimarranno a lungo incise nella memoria collettiva.
Dopo Gilbert Garcin e Peter Beard, scomparsi nel mese di aprile, il mondo della fotografia piange un altro grande nome. Marc Garanger, nato a Ézy-sur-Eure (Normandia) nel 1935, “ha deposto per sempre la sua macchina fotografica”. Inizialmente affetto da una grave forma di balbuzie, Garanger ha trovato nella fotografia il modo di esprimersi senza bisogno di aprir bocca. Dagli indiani della cordigliera delle Ande ai magrebini delle periferie lionesi, durante la sua carriera ha dato voce non solo al proprio sguardo, ma anche e soprattutto ai popoli in lotta su cui lo ha posato. Più di tutte le altre, le fotografie realizzate mentre adempiva alla leva obbligatoria nella guerra franco-algerina rimarranno a lungo incise nella memoria collettiva.
Il padre gli regala la sua prima macchina fotografica non appena diplomato, con cui Garanger inizia a fotografare la natura e i paesaggi della sua regione natale. Qualche anno dopo, durante un viaggio in Africa, apre gli occhi sul mondo, scoprendo le barbarie perpetrate dall’Occidente colonialista. Nel 1960 è suo malgrado costretto ad arruolarsi nel drammatico conflitto franco-algerino, combattuto fra il 1954 e il 1962, che porta a proclamare l’indipendenza del grande stato africano. Spedito in un reggimento a sud-est di Algeri, nel dramma ha la fortuna di essere nominato fotografo ufficiale dell’unità militare, autorizzato ad impugnare come unica arma la propria macchina fotografica.
In alcuni villaggi di montagna ha il compito di fotografare gli “indigeni” in attesa di essere schedati dall’esercito. Durante i dieci giorni di permanenza nella zona realizza circa duemila ritratti. Sono soprattutto donne quelle che si presentano davanti al suo obiettivo, invitate a sedersi su uno sgabello posizionato di fronte a un muro bianco. Gli uomini, per la maggior parte, si sono arruolati con i ribelli. Mitragliatrice in spalle, i soldati obbligano giovani e anziane a mostrare bene il proprio volto, rivelando i capelli nascosti sotto un velo che la religione vieta loro di togliere in presenza di altri uomini.
È così che, inermi, le donne mettono in atto una protesta muta fatta di sguardi accusatori, espressioni provocatorie, occhiate innocenti. Garanger, carnefice a dispetto delle proprie convinzioni, testimonia la violenza psicologica a cui i soldati francesi sottopongono le algerine, documentando la collisione tra due civiltà: quella islamica e quella occidentale. Ma dentro di sé si promette, una volta tornato in Francia, di pubblicare quegli scatti per sbatterli in faccia al mondo intero.
E così fa. Clandestinamente, riesce a portare i suoi ritratti in Svizzera, dove vince il premio Niépce nel 1966, che gli permetterà di finanziarsi i futuri viaggi. Nel 1984 le fotografie diventano un libro, La Guerre d’Algérie vue par un appelé du contingent (La guerra d’Algeria vista da un uomo chiamato alle armi), edito da Seuil. All’epoca l’opera passa piuttosto inosservata, ma negli anni successivi riscuote finalmente il successo che merita. I ritratti delle donne algerine sono state esposte in numerose mostre e festival in giro per il mondo, tra cui Les Rencontres d’Arles o La Biennale di Venezia, a testimoniare anno dopo anno un’altra sfumatura della violenza generata dalla guerra.