La provincia non ce la scolliamo di dosso, anche se lui ha vissuto tra Bali e il Giappone per dieci anni, anche se in questo periodo rimane confinato a Milano, la capitale malata d’Italia, anche se ha lavorato per Vogue e provato tutto quello che avrebbe e non avrebbe potuto provare. Siamo di provincia e va bene così.
In questi giorni mi ha mandato qualche foto scattata tra la cucina e lo studio, nulla che voglia esibirsi in vetrina, semplicemente cose che capitano se sei fotografo e passi due mesi in casa da solo. Cosa vuoi che faccia Gianni Pezzani in casa da solo dopo aver bevuto un caffè, letto qualche pagina di Flaiano, preparato da mangiare, bevuto uno spumante Trento DOC, letto qualche pagina di Wallace, scritto un breve racconto, bevuto un altro caffè e acceso la ventiquattresima sigaretta? Fotografa. Fotografa. Fotografa e poi ricomincia tutto da capo alternando la routine scendendo dall’ortolano e prendendo aglio, porro e qualche altra verdura di stagione.
L’altra sera mi ha chiamato alle 23.40 di sera, mi preoccupo sempre un po’ quando sento squillare il cellulare a quell’ora, diciamo dopo le dieci. Mi aveva inviato altre due foto, i titoli non sono semplice appendice: “Rapanellometro”, “Prontometro”, neologismi didascalici.
- Sei sveglio? –
- Certo –
- Ti ho mandato altre due fotografie –
- Adesso le guardo –
- Fammi sapere cosa ne pensi –
- Le guardo e ti dico –
Mi ricordo quando gli avevo fatto da assistente per un breve workshop, ormai cinque o sei anni fa. Dovevamo giare di notte e fotografare, nulla di complesso. Mi ricordo che qualcuno si era presentato senza cavalletto. Mi ricordo che aveva iniziato ad insultarlo, lo aveva messo all’angolo, infierendo su un corpo già debole e svantaggiato in partenza. Aveva picchiato forte e non gli interessava di far male, anzi lo sapeva e continuava: continuava. Per un cazzo di cavalletto. E non era per lo strumento (non credo nemmeno che gli interessassero molto gli studenti che aveva difronte), ma per la predisposizione all’attesa, alla notte, alla fotografia intesa come messa in scena che ha bisogno dei suoi rituali e dei suoi appoggi per essere prodotta, per inverarsi. Il cavalletto è costrizione, è clausura forzata, è tempo lungo che si fa (altro), è un modo di pensare.
Sabato quando mi ha chiamato ero in macchina, solitamente al telefono parliamo di cose trascurabili, ironia da bar, un po’ greve di cui ti dovresti vergognare, ci lamentiamo di tutto con la malinconia di tempi andati che io non ho mai visto e forse non sono mai esistiti, una malinconia vaga e indiscutibilmente inutile e poi spesso parliamo di letture, dei libri che ci capitano sottomano.
- Cosa stai leggendo? –
- Brevi racconti sulla Polonia occupata. Capisco mio padre che quando gli portai in casa un ragazzo tedesco, mi prese da parte dicendomi:un tedesco in casa? Era stato partigiano –
- Lo so, eh un tedesco in casa –
Ho conosciuto il padre di Gianni prima che morisse, aveva più di novant’anni e faceva ancora il ponte di Colorno (un piccolo paese della provincia di Parma) in bicicletta e si face il pane in casa, integrale.