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Paisatges desitjats – La frontiera politica dell’arte

Paisatges desitjats, 2020 - Exhibition view Arts Santa Mònica, 2020 - Courtesy Arts Santa Mònica
Paisatges desitjats, 2020 – Exhibition view Arts Santa Mònica, 2020 – Courtesy Arts Santa Mònica

Paisatges Desitjats (Paesaggi Desiderati) è una mostra curata da Enric Puig Punyet – direttore de La Escocesa, fabbrica di creazione e centro di residenza di Barcellona – e ospitata al secondo piano del Museo Arts Santa Mònica, della stessa città.

In concomitanza con l’anniversario della morte di Walter Benjamin a Portbou, otto artisti residenti a La Escocesa hanno realizzato una serie di azioni che interpretano i concetti di frontiera, paesaggio e opera d’arte. Le opere esposte ne sono il risultato: residuo e frammento di qualcosa che già non c’è o che è stato profondamente trasformato. La frontiera si ripropone anche nel montaggio dell’esposizione: tutte le opere si dispongono in una unica sala, alla quale non si può accedere, permettendo così un solo punto di vista. Quello che si presenta è un paesaggio irraggiungibile, che possiamo esplorare solamente con l’immaginazione.

Le opere esposte sono di: Valentina Alvarado Matos, Paula Bruna, Juan Antonio Cerezuela, Daniel de la Barra, Marla Jacarilla, Llapispanc, Antonia Rossi e Carlos Vásquez Méndez.

Per l’occasione abbiamo dialogato con il curatore della mostra.

Paisatges desitjats, 2020 – Exhibition view Arts Santa Mònica, 2020 – Courtesy Arts Santa Mònica

Paisatges Desitjats parla del confine e dei suoi diversi significati. La frontiera è un limite spesso artificiale e ideologico che da secoli serve a tracciare i confini dei territori, della politica e della legalità. Negli ultimi anni si è discusso il significato e il ruolo dell’immigrazione, del colonialismo, della digitalizzazione, etc.. Cosa significa il confine in Paisatges Desitjats? Quale frontiera deve affrontare l’arte oggi?

Quello che oggi intendiamo per “confine” nella sua accezione più ampia, cioè il margine che delimita ciò che possiamo consideriamo come proprio, è un concetto complesso che non ha più nulla a che fare con la percezione che un tempo ha avuto. Oggi, il confine è inseparabile dalla sua costruzione mediale e mediatica e avviene in due sensi apparentemente contraddittori: da un lato, la costruzione poetica della realtà – attraverso la letteratura, il cinema, l’arte, i media di comunicazione (digitali e analogici) o le guide di viaggio – rende i territori stranieri luoghi del desiderio e, i loro confini, spazi di libera circolazione. Mentre dall’altro lato, il substrato geopolitico è segnato da una crescente tendenza all’esclusione dell’altro che si concretizza nelle politiche anti-immigrazione, negli atteggiamenti xenofobi e nelle disuguaglianze economiche e simboliche che emergono dalle rispettive eredità coloniali. La domanda chiave in questa apparente contraddizione è perché un territorio che rifiuta l’inclusione dell’altro mette le sue risorse per generare un discorso mediatico che lo possa rendere desiderabile? Questa domanda, che non ha una risposta semplice, è quella su cui Paisatges Desitjats orbita.

La frontiera come nodo di contraddizioni, ereditato dalla complessità della propria genealogia, non è estranea all’azione artistica. Al contrario, quello che oggi è il confine – e i problemi reali che genera, i più visibili a livello migratorio – si sviluppa in larga misura attraverso le modalità di rappresentazione che l’arte ha inaugurato e che sono state poi riprese con altri mezzi. Costruire un paesaggio di rappresentazioni artistiche che funzioni come un tableau vivant e poi recintarlo, rendendolo inaccessibile al pubblico, è un’azione politica che segnala direttamente l’arte come colpevole della polarizzazione simbolica, e di conseguenza economica, tra i confini che oggi separano il mondo. Ciononostante, quell’azione politica è rappresentata ancora una volta da un’azione artistica, che genera nuovamente un felice paradosso.

Le opere esposte sono il risultato di una serie di azioni che gli artisti hanno compiuto a Portbou (Girona, Spagna), la città in cui Walter Benjamin si è suicidato. A ottant’anni dalla sua morte, qual è l’eredità più importante che ci ha lasciato questo filosofo? L’arte contemporanea conserva ancora l’aurea o è andata totalmente perduta?

Quello che abbiamo realizzato nella mostra, con diversi livelli di rappresentazione (qualcuno percorribile e altri irraggiungibili), si trova in linea con il concetto benjaminiano dell’aura dell’opera d’arte. Quello che lo spettatore rileva in modo ereditario come “opera”, come quella irripetibile azione umana che fa di un corpo un oggetto unico, che è allo stesso tempo ciò che il sistema tenterà di trasformare in una merce speculativa, fonte di concentrazione del capitale, è ciò che è vietato al visitatore in mostra. Le opere auratiche, dialogando, generano un unico paesaggio che genera curiosità nel visitatore. Sono opere a cui vorresti avvicinarti, che fanno parte di uno spazio dove vorresti circolare. Il pubblico, però, deve rassegnarsi a poter camminare tra i testi e i video che rimandano, in un secondo giro di mediazione, a quel panorama d’opera unica che gli è vietato attraversare.

La voglia di viaggiare nel paesaggio, l’impulso su cui si basa questa mostra, nonché la validità dei musei d’arte di tutto il mondo, in cui i suoi visitatori pagano un biglietto per circolare tra stanze piene di opere originali, o le cifre esorbitanti che circolano nelle aste d’arte, sono una prova attendibile che la dimensione auratica non è scomparsa. Al contrario, il paradigma della riproducibilità digitale in cui ci troviamo è più favorevole a generare forme di concentrazione simbolica attorno all’opera auratica di quanto non fosse mai stato il precedente paradigma, basato sulla riproducibilità meccanica.

Paisatges desitjats, 2020 – Exhibition view Arts Santa Mònica, 2020 – Courtesy Arts Santa Mònica

La parola paesaggio deriva dal francese paysage, che a sua volta deriva da pays che significa campo, campagna o ambiente rurale. Quali tipi di paesaggi sono esposti a Paisatges Desitjats? E perché sono desiderati?

La nostra tradizione paesaggistica deriva dal romanticismo e comporta una sublimazione estetica del territorio che è davanti ai nostri occhi. Fare un passo avanti ed entrarvi, circolare in questo territorio estetizzato, è stato (e continua a essere) un privilegio borghese. Non solamente a livello simbolico ma anche, e soprattutto, a livello materiale: i paesaggi sono costruiti in spazi privati o pubblici la cui circolazione implica sempre regole da seguire.

L’azione paesaggistica di Paisatges Desitjats è, in questo senso, un gesto politico visibile che solleva interrogativi quali: cos’è un paesaggio, come è costruito e chi è autorizzato a farlo circolare.

Come se fosse un’installazione di Julia Scher, i visitatori possono scoprire dettagli e prospettive delle opere grazie a un circuito di telecamere di sicurezza e una serie di televisori posizionati nei corridoi di Arts Santa Mónica. Telecamere che ci mettono in contatto con l’interno dello spazio e che, allo stesso tempo, ci ricordano la distanza che dobbiamo mantenere. Quali altre funzioni hanno?

In sostanza, le telecamere di sorveglianza raggiungono i punti di vista che il visitatore potrebbe ottenere in un tradizionale allestimento di una mostra ma che qui, perché il transito è bloccato, sono impossibili. Le immagini però non sono nitide: sono frammenti, a volte indecifrabili, che generano un’immagine astratta e decontestualizzata, e che generano nel visitatore una maggiore voglia di avvicinarsi dove non può, di percorrere il paesaggio proibito. In questo senso, le telecamere funzionano come dispositivi per la valorizzazione del desiderio, così come i media agiscono rispetto ai territori, attraverso un ribaltamento speculativo tra vigilante e custodito in cui il pubblico, pur essendo contenuto, represso , trae vantaggio dal suo posto da spettatore.

Paisatges desitjats, 2020 – Exhibition view Arts Santa Mònica, 2020 – Courtesy Arts Santa Mònica

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo sta modificando il mondo dell’arte e della cultura. In che modo il contesto attuale ha condizionato la concezione e la realizzazione di Paisatges Desitjats? A La Escocesa come avete deciso di affrontare questa situazione? Quali azioni avete intrapreso durante il periodo di confinamento?

Senza averlo previsto, la mostra Paisatges Desitjats è finita in un dialogo diretto con la situazione attuale. Il concetto di confine – e la costruzione mediatica che lo circonda – ha acquisito, a causa del contesto, un nuovo significato: i confini tra spazi intimi e spazi pubblici, nel momento del confinamento, o le frontiere che i nuovi elementi di sicurezza hanno supposto tra i corpi, maschere e guanti che impediscono un rapporto non mediato con il mondo.

Cosí come nel Arts Santa Mònica abbiamo deciso che la mostra doveva svolgersi in una unica stanza senza renderla virtuale, che è di per sé una posizione politica, a La Escocesa abbiamo preso la decisione, nel momento che si decretò lo stato di emergenza in Spagna, di annullare tutte le nostre attività pubbliche. Essendo soprattutto un centro di ricerca e produzione artistica, abbiamo subito pensato che la nostra funzione di servizio pubblico sarebbe stata molto più utile, in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo, se, invece di rimandare la programmazione pubblica o virtualizzarla, ci convertissimo in un centro di ricerca al servizio dei cittadini per aiutare a risolvere i problemi sociali e culturali causati dal Covid-19.

É nato così il Proyecto CO-, un progetto articolato in uno straordinario programma di borse di studio, offerto alla comunità allargata di oltre 50 artisti de La Escocesa, per articolare tre gruppi di lavoro che hanno immaginato modi per far fronte a la situazione attuale. Il primo gruppo, denominato CO-nsultorio, si occupa di raccogliere in un archivio tutti gli aiuti, sussidi o le linee di credito offerte al settore culturale, con l’obiettivo di aiutare le economie più vulnerabili della comunità artistica locale, agendo anche come gruppo di sostegno settimanale.

Il secondo gruppo, chiamato CO-ctelera, sta immaginando modi per portare la cultura nelle strade, con l’obiettivo di far perdere agli abitanti di Barcellona la paura di impegnarsi nuovamente con eventi culturali. Il gruppo organizza diverse attività, tutte svolte su bando pubblico e seguendo rigorosi protocolli.

Infine, il terzo gruppo, il CO-rpus, valuta i protocolli attuali – focalizzati in particolare sulle istituzioni culturali, ma pensando anche ad altri settori – e sviluppa protocolli complementari che tengono conto di aspetti laterali dimenticati dai protocolli usuali, come fattori psicologici, strategie di socializzazione o elementi di inclusione di persone che trovano più difficile applicare i protocolli usuali.

Questi gruppi, consigliati da personale tecnico e sanitario, stanno attualmente sviluppando una serie di strumenti che vengono messi a disposizione dei centri locali e nazionali, nonché del pubblico in generale. Questa riconversione del servizio pubblico di un centro artistico come La Escocesa mette sul tavolo la necessità di ripensare le istituzioni culturali e la creatività degli agenti che le integrano come risorse utili per i cittadini, nel medio e lungo termine, in un momento di emergenza, come quello attuale.

È in corso di creazione un programma pubblico per la fine di settembre in relazione alla mostra al Arts Santa Mònica. Puoi dirci qualcosa al riguardo?

Nei giorni 16, 17, 18, 22 e 26 settembre avremo due laboratori realizzati da Llapispanc e Antonia Rossi, in collaborazione con Roberto Contador, che esploreranno alcune derivazioni delle rispettive opere in relazione al concetto di confine, nonché un terzo, tenuto da Audrey Lingstuyl, sui postnazionalismi.

È prevista anche una conversazione con Remedios Zafra sulla mediatizzazione del confine, oltre a tre tavoli di discussione: uno, composto da Tania Adam, Nancy Garín e Pilar Parcerisas, sul rapporto tra arte, confine e territorio; un altro, composto da Blanca Garcés-Mascareñas e diversi rappresentanti di associazioni che lavorano sui temi della migrazione, sulla tensione tra il confine geopolitico e la sua costruzione mediatica; e infine un terzo, composto da tre artisti in mostra (Paula Bruna, Juan Antonio Cerezuela e Carlos Vásquez) e da me, sul processo di gestazione di Paisatges Desitjats.

Infine, martedì 22 e sabato 26, in coincidenza con l’ultima settimana della mostra, avremo interventi artistici di Daniel de la Barra e Marla Jacarilla. Le loro performance inizieranno all’interno dello spazio espositivo e serviranno come conclusione di questa mostra che abbiamo inaugurato a luglio.

Paisatges desitjats, 2020 – Exhibition view Arts Santa Mònica, 2020 – Courtesy Arts Santa Mònica

Informazioni

Paisatges desitjats

09.07 – 27.09.2020

Arts Santa Mònica

http://artssantamonica.gencat.cat/ca/detall/Paisatges-desitjats

https://www.instagram.com/artssantamonica/

https://laescocesa.org/es

https://www.instagram.com/laescocesabcn/

Questo contenuto è stato realizzato da Marco Tondello per Forme Uniche.

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