Nel 2020 il Museo del Novecento di Milano ha compiuto il decimo anniversario dalla sua prima apertura al pubblico. Ripercorriamo la collezione del museo con la più bella vista sulla città meneghina attraverso i suoi dieci capolavori più importanti.
Giuseppe Pellizza da Volpedo – Il Quarto Stato (1898-1902)
«La questione sociale s’impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev’essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a petto delle condizioni presenti». Queste sono le parole che Pelizza da Volpedo scrisse in un suo diario dopo aver assistito una manifestazione di protesta di un gruppo di operai. L’evento lo colpì a tal punto che cominciò immediatamente a lavorare a un’opera. Prima di giungere alla realizzazione del capolavoro conservato al Museo del Novecento di Milano, l’artista divisionista portò a compimento due opere preliminari, la prima intitolata Ambasciatori della fame la seconda La fiumana. Quest’ultima, conservata alla Pinacoteca di Brera, presenta molte similitudine con quello che sarà il suo capolavoro. Tuttavia l’artista è insoddisfatto del risultato tecnico-artistico della Fiumana, e nel 1898 decide di riprendere per la terza volta il lavoro sul «più grande manifesto che il proletariato italiano possa vantare fra l’Otto e il Novecento». Il suo obiettivo era quello di rendere la fiumana più tumultuosa e irruente, facendola «avanzare a cuneo verso l’osservatore». Pellizza completa con soddisfazione il lavoro nel 1902, nello stesso anno il Quarto Stato viene presentato alla Quadriennale di Torino e dopo vent’anni, grazie a una sottoscrizione pubblica, l’opera viene acquisita dal Comune di Milano.
Umberto Boccioni – Forme uniche della continuità nello spazio (1913)
Il movimento futurista, di cui Umberto Boccioni faceva parte, si prefiggeva di rappresentare la velocità e la forza del dinamismo nell’arte. Boccioni, anche se formatosi come pittore, iniziò la propria carriera di scultore nel 1912, in quel periodo scrisse a un amico: “In questi giorni sono ossessionato dalla scultura! Credo di aver visto una completa rinnovazione di quest’arte mummificata.” Un anno dopo nacque il gesso di quello che è ritenuto un capolavoro assoluto della scultura della scultura italiana e non solo, l’opera è infatti riprodotto sul retro delle monete da 20 cent italiane. Il lavoro, conservato al Museo del Novecento di Milano, rappresenta un uomo che cammina attraverso la sintesi che l’approccio futurista imponeva nella visione di tutto ciò che circondava l’artista. Perciò questa figura che sembra dissolversi come fosse sommerso da dei panneggi scossi dal vento è in realtà la sintesi del suo movimento, congelato in una scultura, in attimo, quasi fosse una fotografia con un tempo di esposizione prolungato.
Amedeo Modigliani – Ritratto di Paul Guillaume (1916)
Paul Guillaume è stato un importante collezionista d’arte di Parigi, venne introdotto alla pittura d’avanguardia dal poeta e critico d’arte Guillaume Apollinaire, in breve tempo divenne amico e sostenitore di numerosi artisti per i quali, in molti casi, fu l’unica fonte di sostenimento. A lui Modigliani ha dedicato tre ritratti. In questo dipinto l’artista raffigura Guillaume seduto a un tavolo con un solo occhio; il motivo venne spiegato dallo stesso Modigliani: “Perché con uno tu guardi il mondo, con l’altro guardi in te stesso”. In quest’opera come tipico delle opere di Modigliani le forme si presentano allungate, schematiche, persino aspre nella loro essenzialità. Balza all’occhio immediatamente il diretto rapporto con l’arte cicladica e la scultura africana. Allo stesso modo traspare chiaramente l’aspirazione dell’artista ad una forma pura, priva di ornamento e decorazione.
Paul Klee – Wald Bau (1919)
Nel dipinto Wald Bau, Paul Klee, si ispira ad un immaginario infantile per costruire la sua composizione astratta di tipo geometrico. L’opera ben rappresenta la visione topografica tipica di Klee in quegli anni, che tradusse visivamente, in diverse opere, la volontà di ridurre il paesaggio a un insieme di segni, “le linee più varie; macchie, puntini, superfici uniformi, superfici variolate e striate; movimento ondulatorio, movimento frenato e articolato; contromovimento; intreccio e trama; muri e squame; monodia e polifonia; linea che si perde e si rafforza”. Il titolo dell’opera che potrebbe essere tradotto come “struttura di foreste” racchiude l’idea espressa dallo stesso Klee nelle sue parole.
Mario Sironi – Paesaggio urbano (1924)
La tela, donata alle Civiche Raccolte da Carlo Frua De Angeli nel 1928 dopo l’esposizione alla XVI Biennale DI Venezia con il titolo “Paesaggio italiano n. 1”, è uno dei capolavori “di periferia” realizzati da Sironi negli anni Venti, confluito nella collezione del Museo del Novecento di Milano alla sua nascita. Il tema dei paesaggi urbani era già stato affrontato in chiave futurista, ma negli anni Venti la città assume una connotazione particolare, diventa pura astrazione, emblema del dramma dell’uomo contemporaneo. Gli scenari urbani sono evocati in strutture volutamente arcaizzanti, caratterizzate dalla riduzione geometrica delle forme e dalla vigorosa costruzione plastica. Il messaggio di fredda desolazione è trasmesso dalle tristi solitudini e dalle atmosfere cupe, degli spazi deserti delle periferie, solcate solo da qualche mezzo di trasporto o da sagome isolate di passanti. E’ questa una riflessione amara e angosciata sul tema della nuova civiltà urbana e industriale delle officine e delle macchine senza riferimento ad un luogo preciso e con valenze quasi metafisiche.
Arturo Martini – La convalescente (1932)
L’impianto complessivo dell’opera deve molto al “Malato dell’ospedale” di Medardo Rosso, esposto nella mostra retrospettiva della I Quadriennale romana del 1931, alla quale Martini partecipò. La giovane esile abbandonata sulla sedia a dondolo è Maria, la figlia dell’artista convalescente in seguito ad una malattia. In quest’opera Martini sembra voler saggiare le potenzialità pittoriche della pietra, come bene evidenziano i tre diversi livelli di finitura nel fianco della poltrona, nell’incarnato del braccio e nelle pieghe del tessuto. L’opera venne esposta per la prima volta nel febbraio del 1933 presso la Galleria Milano in occasione di una sua personale dell’artista.
Lucio Fontana – Struttura al Neon per la IX Triennale di Milano (1951, 2010)
L’opera – un arabesco luminoso di oltre 100 metri di tubi al neon – è stata originariamente progettata per la IX edizione della Triennale di Milano, fu ideata per collegare il piano d’ingresso con il primo piano, come invito alla scoperta, al “nuovo” e al dialogo fra arte e architettura. Esposta nel monumentale Scalone d’Onore e sovrastata da un cielino “blu Giotto”, si integrava nello spazio architettonico riflettendo la propria luce ed entrava in relazione con lo spettatore. Estendendosi oltre i confini classici della scultura, il lavoro creava dunque una connessione tra l’oggetto e lo spazio circostante, come testimoniato dall’artista stesso: «abbiamo sostituito, in collaborazione con gli architetti Baldessarri e Grisotti (al soffitto decorato), un nuovo elemento entrato nell’estetica dell’uomo della strada, il neon». L’opera al termine dell’esposizione venne distrutta, la versione attualmente esposta al Museo del Novecento di Milano è una sua fedele ricostruzione del 2010.
Piero Manzoni – Merda d’artista (1961)
Opera provocatoria, quasi radicale nel suo appropiarsi dell’idea duchampiana di appropiazione artistica o meglio di quell’atto di imposizione di status d’opera d’arte a qualsiasi cosa l’artista decida di trasformare la Merda d’artista è probabilmente una delle opere più iconiche, divisive e famose della storia dell’arte. Piero Manzoni, il 21 maggio del 1961, sigillò 90 barattoli di latta, uguali a quelli utilizzati normalmente per la carne in scatola, ad i quali applicò un’etichetta identificativa, tradotta in varie lingue, con la scritta «merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961». Sulla parte superiore del barattolo è apposto un numero progressivo da 1 a 90 insieme alla firma dell’artista. Manzoni mise in vendita i barattoli al prezzo corrispondente per 30 grammi di oro, alludendo al valore dell’artista che grazie ai meccanismi commerciali della società dei consumi poteva vendere al valore dell’oro una parte di se stesso
Jannis Kounellis – Rosa Nera (1967)
La Rosa Nera di Jannis Kounellis è forse l’opera più iconica dell’intero Museo del Novecento di Milano, utilizzata come copertina del catalogo generale della collezione è anche spesso protagonista di scatti da parte dei visitatori dell’istituzione. L’opera è una perfetta rappresentazione della ricerca portata avanti negli anni da uno dei protagonisti assoluti dell’Arte Povera. La sua indagine sul rapporto tra uomo, arte e natura lo ha seguito per tutta la vita, cercando nelle sue spettacoli performance, nelle sue opere site specific, nei suoi percorsi costituiti da materiali quasi di scarto inseriti in prestigiose gallerie d’arte di dare una risposta a se stesso ma anche al pubblico, al quale ha sempre cercato di far capire le proprie intenzioni
Giorgio de Chirico – I bagni misteriosi (1973)
L’opera venne realizzata in occasione della XV Triennale di Milano nell’ambito del progetto Contatto Arte/Città per il quale furono realizzate dodici sculture da collocare nel Parco Sempione per essere in una più ampia disposizione del pubblico e quindi aprirsi, per l’appunto, alla città. Parte integrante del progetto era anche il coinvolgimento di grandi aziende per il supporto alla realizzazione stessa dell’opera, De Chirico si appoggiò alla ditta di Chiampo di proprietà del conte Paolo Marzotto, specializzata nella lavorazione del marmo. Dopo essere stata acquistata dal comune l’opera, esposta all’aperto senza adeguate protezioni, si è deteriorata notevolmente e negli anni 2001-2009 è stata restaurata. Attualmente la versione originale è conservata al Museo del Novecento di Milano, mentre nella sede originale è stata lasciata una copia. L’iconografia dei Bagni Misteriosi si ritrova nella produzione di Giorgio de Chirico a partire già dal 1934, anno nel quale realizza dieci litografie a corredo di una raccolta di poemetti di Jean Cocteau dal titolo Mythologie. É probabile che l’ispirazione per questa sua opera e le altre realizzate nel corso della sua carriera provenga dal dipinto di Lucas Cranach, La Fontana della giovinezza del 1546, in cui donne vecchie si immergevano da un lato della vasca per uscirne giovani dall’altro.
Museo del Novecento
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