Mettere un movimento politico in testa a una classifica del potere nell’arte danneggia tanto il movimento quanto l’arte. La lucida analisi di Nicola Verlato
Un nostro articolo pubblicato nelle scorse settimane prendeva spunto dalla lista “Power 100” dei soggetti più influenti nel mondo dell’arte nel 2020, pubblicata dalla rivista ArtReview, per proporre alcune riflessioni sulla deriva “sociologica” della creatività contemporanea. Sul tema è poi intervenuto Marco Tonelli, storico e critico d’arte, direttore artistico del museo di Palazzo Collicola a Spoleto. E ancora Andrea Bruciati, direttore di Villa Adriana e Villa d’Este di Tivoli, l’artista Bruno Ceccobelli, il critico e curatore Daniele Capra e poi Giacinto Di Pietrantonio, critico, curatore, saggista. Ora la parola passa all’artista – acuto osservatore dei fenomeni socio-artistici – Nicola Verlato…
Se una rivista d’arte, nella sua classifica di fine anno sul potere nell’art world, animata dall’intento di dimostrare il suo supporto al movimentismo politico durante la campagna elettorale Americana del 2020, pone al primo posto un movimento politico invece che un artista che ha lavorato sul tema, o un’opera d’arte che li abbia incarnati visivamente, produce un doppio danno. Da una parte al ruolo dell’arte nel farsi interprete di istanze politiche e formalizzarle in termini visivi. Dall’altra al movimento politico stesso, che viene mostrato incapace di dar luogo ad immagini iconiche capaci di veicolare le sue istanze ideologiche.
Il fatto che si sia voluto mostrare la cosa in sé, piuttosto che le opere d’arte che da questa ne sono scaturite, essendo ArtReview una rivista d’arte e non d’altro, dovrebbe dirla lunga sull’atteggiamento verso l’arte proprio del team che ha redatto la classifica. Nelle motivazioni della scelta in calce alla posizione n. 1 della classifica, infatti, si fa chiaro riferimento alle distruzioni dei monumenti messe in atto dal movimento. E di converso si cita quanto Black Lives Matter abbia incoraggiato una insorgenza di “Black figurative painting”. Senza mostrarne però alcun esempio nelle posizioni successive della classifica.
Il primo artista nero, Arthur Jafa, è al n. 6 e fa installazioni. Solo al numero 56 appare una scultrice afro americana, Simone Leigh. Che fa opere figurative ma solo trasversalmente legate al movimento politico considerato tanto influente sul mondo dell’arte. Sembra di capire che, per chi ha stilato la classifica, la capacità di pittori e scultori di produrre immagini significative e determinanti che formalizzano visivamente le istanze politiche di un determinato momento storico non conti proprio un bel nulla.
Gli artisti posti in relazione con BLM sono descritti come esclusivamente afferenti ad un dato puramente antropologico. Sono gli esponenti di una “Black figurative painting”, ma in senso indistinto. Dato che da questo gruppo evidentemente nessun artista specifico o opera specifica è uscita fuori, in grado da essere posizionata nella classifica del “potere” dell’arte della rivista.
Sembrerebbe, quindi, che l’apprezzamento da parte di ArtReview verso BLM sia rivolto soprattutto verso la sua parte iconoclasta, in senso direttamente distruttivo, ma anche implicitamente nel fatto che il movimento non sia riuscito a fare in modo che nuove opere figurative (nonostante l’insorgenza di Black figurative painting) abbiano sostituito quelle demolite. Ne risulta così un chiaro atteggiamento iconoclasta, implicito nelle scelte della classifica.
Moltissimi sono stati, invece, con buona pace degli estensori della lista che li hanno completamente ignorati, gli artisti che si sono adoperati nel dare forma visiva alle istanze politiche che i movimenti di piazza hanno messo in moto. Si tratta per l’appunto prevalentemente di pittori e scultori figurativi. E si va dagli enormi dipinti di Kent Monkman esposti al Met (di argomento Queer-Nativo americani ma comunque riconducibili alle lotte movimentiste), alla copertina di Rolling Stone dipinta da Kadir Nelson. Al monumento innalzato da Marc Quinn a Bristol piuttosto che quello di Kehinde Wiley a Times Square, etc etc…
Sappiamo bene che la lista di ArtReview verte sul potere nell’art world. Ma non potrebbero anche essere un’immagine dipinta, o una scultura, considerate potenti al punto tale da meritarsi una posizione in una classifica siffatta? Se la classifica fosse stata redatta nel 1830, per esempio, “La liberté guidant le peuple” di Delacroix avrebbe dovuto sicuramente meritarsi quel primo posto proprio come un’opera che ha influito potentemente sulle coscienze dell’epoca. Ma anche su quelle a venire, al punto che una delle immagini più iconiche delle rivolte in piazza è stata quella prodotta dall’artista Afro Americano Kedir Nelson, dipinta per la copertina di Rolling Stone, che riprendeva esattamente la composizione di Delacroix a quasi duecento anni di distanza.
Le poche scelte riservate nella classifica ad artisti sono dirette soprattutto verso coloro i quali fanno un lavoro mediato e non direttamente coinvolto a dar forma agli eventi; come se questa eventualità, l’arte politica, fosse da evitare il più possibile. Eppure di arte importante e impegnata sul fronte politico ne è stata fatta tanta, e da millenni. Dai monumenti ai Tirannicidi di Crizio e Nesiote al Bruto di Michelangelo, fino al Marat di David. Dal Muralismo Messicano ai funerali di Berlinguer di Guttuso. Fino ai dipinti di Leon Golub, ma anche fino al lavoro recentissimo di Tim Mumford e Ronald Olphius (io stesso mi sono cimentato spesse volte).
Il genere è molto frequentato, nobile e fitto di capolavori. La formalizzazione che pittura e scultura figurative riescono a fornire sotto forma di immagini iconiche a eventi politici in corso di svolgimento è uno strumento insostituibile di presa di coscienza e di elaborazione delle proprie posizioni politiche. E lo dimostra proprio il fatto che, nonostante l’avvento di fotografia, cinema e televisione, la pittura e scultura storico-politica abbiano continuato a essere realizzate fino ai nostri giorni. La riflessione sugli eventi – che corrisponde alla loro formalizzazione pittorica e scultorea – dell’arte figurativa è ancora oggi insostituibile.
La classifica di ArtReview corrisponde quindi al disinnesco subdolo di uno degli elementi strategici potenziali dell’agire di un movimento politico. E al contempo a un potente disincentivo al coinvolgimento diretto dell’arte nella politica, e più in generale al suo ruolo sociale. È così quindi che la ristretta élite che compone l’art world si difende “celebrando” ciò che potrebbe darle fastidio nel lungo periodo.
In conclusione devo dire però che, in generale, trovo poco credibili le classifiche che provengono dal mondo dell’arte. L’arte contemporanea è un settore fortemente elitario. Il quale, però, da qualche tempo, usa lo strumento della classifica importandolo da altre aree culturali come il cinema la musica e la letteratura. Che sono invece settori dove vigono processi di produzione e distribuzione industriale di massa. Per questo motivo le classifiche di cinema e musica (e qualche volta anche dell’editoria) sono considerate relativamente attendibili. Proprio perché misurabili su grandi numeri, cosa che, per quanto riguarda l’arte contemporanea, risulta essere praticamente impossibile.
I numeri della musica e del cinema sono dell’ordine dei milioni di vendite o di ascolti-visualizzazioni sui media online. Se non si hanno questi numeri a disposizione si tratta di faccende troppo piccole. Che risultano non essere altro che il risultato di scelte soggettive, orientate, di piccoli gruppi di persone. E che quindi di oggettivo non hanno proprio nulla. D’altro canto, l’interesse che l’arte contemporanea ha suscitato recentemente in un pubblico sempre più allargato ha prodotto l’adozione di questi strumenti di misurazione e classificazione. Che credo abbiano esclusivamente lo scopo di rassicurare i neofiti sul fatto che gli stessi criteri della produzione culturale di massa, cui essi sono abituati, valgano anche nel campo dell’arte.
Facendo così si assegnano all’arte contemporanea delle caratteristiche di mercato che non le appartengono. Le classifiche, se le si volessero veramente fare basandosi su numeri tali da risultare attendibili, dovrebbero oggi essere basate sul numero di followers che gli artisti riescono ad ottenere sulle platforms online come Instagram in particolare, o sul numero di likes che la singola opera pubblicata riesce ad ottenere. In alcuni casi (e la cosa riguarda anche alcuni artisti italiani) ci troviamo di fronte a numeri notevoli dell’ordine delle centinaia di migliaia. Ci si accorgerebbe però che i nomi più seguiti non sono quelli che ci si aspetta. Nel senso che i beniamini del “sistema dell’arte” sono quasi assenti, o con numeri di follower a dir poco risibili e, nei casi migliori, notevolmente inferiori agli outsiders del sistema.
Nicola Verlato
https://www.nicolaverlato.com/