Da Mirò a De Kooning, dall’analisi Junghiana alla sand painting dei Navajo, il dripping all-over di Pollock nell’essenza di una citazione
“Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare. Io sono stato a lungo junghiano…La pittura è uno stato dell’essere…La pittura è una scoperta del sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è.
La frase pronunciata da Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 – Long Island, 11 agosto 1956) è diventata ben presto una delle citazioni più famose dell’artista, quella che più di ogni altra svela l’essenza della sua arte e la rottura rivoluzionaria del suo dripping all-over.
Una ricerca introspettiva che ha accomunato i pittori di ogni epoca ma che si è fatta ancora più urgente per gli artisti americani all’indomani della seconda guerra mondiale.
Pollock non è di certo il primo pittore che cerca di rendere visibili i gesti corporei coinvolti nel processo di pittura. La sua rottura rivoluzionaria non è nella tecnica ma nel concetto stesso di arte. E la famosa citazione ne è la chiave di lettura.
La scoperta dell’inconscio
L’action painting con Pollock diventa un mezzo, non un fine. Una miriade di suggestioni – da Picasso e Mirò a De Kooning, dall’analisi Junghiana alla sand painting dei Navajo – gli frullano in testa come intuizioni ossessive. La scoperta dell’inconscio e dell’irrazionale – durante le terapie psicanalitiche per i demoni infantili che affoga nell’alcol – gli rendono d’intralcio tavolozza e cavalletto.
Abbandonata qualsiasi parvenza di forma preconcetta, come scrisse Palma Bucarelli in un saggio relativo alla storica mostra che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea gli dedicò nel 1958:
“il Pollock si affida interamente al puro impulso dell’atto fisico del dipingere, affermando che il quadro compiuto sarà l’immagine di quel gesto e del suo potere emotivo. Al di fuori di ogni richiamo analogico, la pittura può dunque esprimere per se stessa i moti profondi dell’essere”
Il dripping come viaggio nell’inconscio
Il dripping di Pollock non è altro che il segno visibile del suo “trip” dentro l’inconscio che lo guida come in uno stato di trance. In un certo senso la stessa funzione di foto e video nella performance art.
Nell’opera di Pollock non esiste centro compositivo, non c’è alcuna idea prestabilita, nemmeno a livello embrionale, di forma o di colore. Sul pavimento può letteralmente essere parte nel dipinto e la sua danza che lo guida dall’inconscio rende visibile il suo essere. Il caos, l’energia, lo smarrimento. L’opera non ha spazio e non ha tempo, sembra volgersi all’infinito e rievocare un’emozione vitale, abisso dell’inconscio.