Nomadland, la vita nomade negli Stati Uniti attraverso lo sguardo poetico di Chloé Zhao
Se con Songs My Brothers Taught Me (2015 – lo trovate su MUBI) quello di Chloé Zhao viene accolto a Cannes come un esordio promettente, ma in maniera abbastanza distratta, con The Rider (2017) una cosa diventa subito chiara: è nata una stella, il suo è il nome su cui puntare. Lo ha capito Frances McDormand (nome di non poco peso, anche solo per quelli che allora erano due Oscar, oggi diventati tre proprio grazie al loro sodalizio) che aveva acquistato i diritti di Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century, libro inchiesta di Jessica Bruder, e che sceglie proprio Chloé Zhao per svilupparne una versione cinematografica.
È il 2018 e la regista nel frattempo ha già ai Marvel Studios (ovvero Disney), prima per Black Widow che però finisce a Cate Shortland (Berlin Syndrome), poi per Eternals (affare fatto, il film vedrà la luce il prossimo 5 novembre). Intanto la Fox Searchlight Pictures (ovvero Disney) acquista i diritti per la distribuzione di Nomadland e, nell’anno in cui tutti fuggono, lo porta in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Netflix, che negli anni prima sembrava aver stretto con la Mostra un felice sodalizio, non si fa vedere, gli altri colossi americani (streaming o tradizionali) nemmeno. Così, complice una concorrenza non troppo agguerrita, Nomadland vince il Leone d’Oro; poi arrivano anche due Golden Globe (Miglior film e Miglior regista). La strada per gli Oscar 2021 sembra spianata, è così è, confermando la doppietta di premi. La Disney riesce così a replicare la corsa di The Shape of Water di Guillermo del Toro (Leone d’Oro prima, Oscar per Miglior film e Miglior regista dopo), Netflix con Roma di Alfonso Cuarón, dopo il Leone d’Oro, agli Oscar si era dovuta “accontentare” di Miglior regista e Miglior Film straniero. Il confine tra film d’essai e blockbuster è così (convenientemente) azzerato e Hollywood assolve alla sua missione di credibilità e inclusività.
Con Nomadland Chloé Zhao continua la sua galleria di ritratti della provincia americana più periferica e marginale. Dal mondo delle riserve indiane a quello del rodeo, la regista fotografa stavolta la vita dei moderni nomadi americani. Dopo il collasso economico di una città aziendale nel Nevada rurale (Empire), Fern (Frances McDormand), ormai vedova e disoccupata decide di vendere tutto, carica i bagagli sul proprio furgone che diventa la ua nuova casa e si mette in strada. Meta? Nessuna. La città in cui ha passato una vita non esiste più, cancellato anche il CAP. Fern sente di non appartenere più a nessun posto: passa da un lavoro stagionale all’altro, dorme nei parcheggi e nelle aree di sosta. Arriva in Arizona, incontra altri nomadi e trova altri lavori, ma non si può fermare. Prosegue verso il Dakota del Sud, trova un impiego presso il Badlands National Park. E poi da capo. Ad accompagnarla, sempre, il paesaggio della wilderness americana. È una vita dura, quella di Fern, ma per lei è l’unica possibile. A farle compagnia c’è una comunità nomade che viaggia, si supporta, si saluta e si riabbraccia. Sulla strada un addio non è mai definitivo.
Fern non è una ribelle: la sua non è una lotta contro il sistema, non è una ricerca di indipendenza, è più un’implacabile rassegnazione. Potrebbe fermarsi, rifarsi una vita, ha una sorella pronta ad aiutarla, forse anche un nuovo amore all’orizzonte. Ma lei è troppo testarda, forse capricciosa, forse spaventata. Fern non scalcia, non si batte, si trascina dolente con un bagaglio di malinconia invisibile ma che la accompagna a ogni passo.
Rispetto alle prime due pellicole, Chloé Zhao lavora qui per la prima volta con un’attrice professionista e media il suo discorso di rappresentazione delle realtà, caricando il lato finzionale di maggiore sentimentalismo (la colonna sonora si fa invandente e ruba spazio al silenzio assordante del paesaggio sterminato che accoglie i suoi pellegrini). Nomadland è un buon compromesso tra cinema indipendente e grande industria, a farne le spese l’aperta critica al sistema sanitario, alla previdenza sociale e alle istituzioni che nutrono gli squilibri del sogno americano. La regista però non tradisce il suo sguardo (da sempre più intimo che polemico), ma lo mitiga quanto basta per renderlo accessibile al grande pubblico senza far storcere il naso alla critica, riuscendo a mettere a fuoco il vuoto identitario che spinge le persone a fuggire dalla quotidianità sedentaria verso un limbo socioeconomico, come unica possibilità di sopravvivenza.
Nomadland esce il 29 aprile nelle sale italiane e il 30 aprile in streaming su Star all’interno di Disney+.