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Viaggio nella Pisa XIII-XV secolo attraverso l’araldica. Il libro di Vittoria Camelliti

S.Orsola S.Orsola
Taddeo di Bartolo Budapest
Taddeo di Bartolo, Budapest
Vittoria Camelliti studia da anni la pittura pisana del ‘200-‘400 utilizzando l’araldica. Le sue ricerche sono confluiti nel libro Artisti e committenti a Pisa XIII-XV secolo. Storie di stemmi, immagini, devozioni e potere.

Come far parlare le opere antiche a distanza di secoli? Ci sono molti modi, studi d’archivio, fonti del tempo, iconografia, tecnica, stile, indagini diagnostiche. Ma un sistema nuovo, efficace, in grado di svelare intrighi storici, l’ha trovato Vittoria Camelliti, una storica dell’arte calabrese, trasferita da anni a Pisa, dove si è laureata nel 2004. E dove si è dedicata alla pittura pisana del ‘200-‘400 utilizzando l’araldica, cioè quei piccoli stemmi che spesso si trovano nelle cornici lignee delle opere, sulle tavole stesse, su affreschi e sculture. Uno studio attento e capillare, concentrato su un gruppo di tavole dipinte che, da quegli antichi consunti blasoni, l’ha ricondotta ai committenti delle opere. Il secondo passo è stato seguire, con l’archivio e le fonti storiche, i nomi dei committenti e la storia della famiglia, che spesso restituisce testamenti, commissioni e altri documenti. Sono venuti fuori così nuovi dati, che correggono giudizi errati per secoli, date, ma anche falsi storici ignorati e ora svelati.

Anni di lavoro confluiti in un bel libro: “Artisti e committenti a Pisa XIII-XV secolo. Storie di stemmi, immagini, devozioni e potere” (Edizioni Ets, Pisa, 2020), presentato pochi giorni fa a Palazzo Blu di Pisa. Un volume complesso, rigoroso e scientifico, che apre strade nuove. Quasi 400 pagine, tra testi, appendice documentaria, che comprende fonti e documenti (testamenti, atti di commissioni, falsi storici), e tutti gli altari documentabili nelle chiese pisane, ciascuna con la propria pianta. E immagini bellissime, che sono quelle delle tavole pisane.

Che cosa scopriamo? Le falsificazioni, ad esempio, negli stemmi e nell’epigrafe del magnifico polittico a fondo oro del pittore senese Taddeo di Bartolo (1362-1422), di cui rimane lo scomparto centrale con la Madonna con il Bambino, due angeli che l’incoronano e santi nel museo di Budapest. Unica opera pisana del senese, preziosa e importante, oltre che bella, ricordata da Vasari, era stata commissionata intorno al 1395 da Datuccia di Ser Betto Sardi, moglie del notaio Andrea da Calcinaia, per la sua cappella nella sagrestia della chiesa di San Francesco di Pisa. Viene fuori che, nel Seicento, gli stemmi e la scritta sotto la Madonna in cui Datuccia ricordava la commissione della tavola in onore dei morti di famiglia, erano stati alterati, cancellando il nome del defunto marito di Datuccia, Andrea da Calcinaia, e sostituendolo con quello di un certo Andrea da Campiglia.

S.Orsola
S.Orsola

Perché? Andrea da Campiglia per assicurarsi il patronato della cappella, dopo oltre due secoli dalla morte di Datuccia, aveva fatto modificare scritta e stemmi sulla tavola, sostituendo il suo nome a quello del marito di Datuccia. Non solo, ma si era garantito con un falso atto notarile, sottoscritto nel 1627 dal notaio ser Girolamo Vanni. Così la povera Datuccia nella scritta sul dipinto viene immortalata come vedova del secentesco Andrea da Campiglia e non del marito trecentesco vero Andrea da Calcinaia. Ad aggiungere conferme alla scoperta sono riemersi altri documenti, tra cui il testamento della donna del 20 febbraio 1421.

C’è poi il giallo della Sant’Orsola di Pisa, una grande tavola (m 3,58 x 1,88) nota come Sant’Orsola che salva Pisa dalle acque, conservata nel Museo di San Matteo della città. Di formato e iconografia anomali, di autore ignoto, il dipinto con le sue scritte svolazzanti, ha il sapore di un manifesto politico del tempo. Rappresenta una giovane ed esile donna bionda incoronata, personificazione della città di Pisa, che viene salvata da sant’Orsola da un fiume pieno di pesci, l’Arno. La figura di “Pisa” ha un vestito ricamato con aquile, che la qualificano come città ghibellina fedele all’imperatore. Sant’Orsola, accompagnata dalle Vergini, si sporge sul fiume appoggiandosi a uno stendardo con la croce del popolo pisano, bianca su fondo rosso. In mano ha la freccia del martirio, la punta rivolta verso il basso. A sinistra in alto spunta l’Eterno a sottolineare con il braccio teso verso la santa la sua volontà di salvezza della città. Un angelo sbuca a destra, da una nuvola, sostenendo un rotolo con una scritta inneggiante alla misericordia di Dio, cui risponde con lo stesso tenore un altro cartiglio partito dalla bocca di “Pisa”. Che cosa voleva significare quella vistosa tavola? Chi l’aveva fatta fare e per che motivo?

Secondo l’interpretazione tradizionale si tratterebbe di un quadro devozionale per la santa che avrebbe salvato la città da una inondazione dell’Arno. La piena sarebbe avvenuta il 21 ottobre del 1330, giorno della festa di sant’Orsola. Ma lo studio degli stemmi, dell’iconografia, la ricerca storica e stilistica rendono più veritiera un’altra ipotesi, che si tratti della celebrazione di Jacopo d’Appiano che 21 ottobre 1392, giorno di sant’Orsola, prese il potere a Pisa. Quel giorno ci fu un sanguinoso scontro di fazioni, che portò alla caduta del capitano pisano filo fiorentino Pietro Gambacorta e alla vittoria del d’Appiano, sostenitore della fazione favorevole ai Visconti, nel conflitto tra Milano e Firenze, di cui la città della Torre subiva tutti i contraccolpi. D’Appiano quel giorno, 21 ottobre 1392 (1393 stile pisano), uccise il Gambacorta che fu sepolto in San Francesco il 23 successivo insieme ai due figli. Il dipinto con la Sant’Orsola, databile intorno al 1392, sarebbe stato ordinato dal d’Appiano per sancire e pubblicizzare la propria vittoria.

Ma si tratta solo di due esempi tra decine di altri.

Crocifisso Dogana Pisa
Crocifisso Dogana Pisa

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