Qual è il senso di un luogo, perché nasce, e soprattutto perché nasce in quel lasso di tempo specifico, sempre così determinato? Di quale necessità è frutto evidente ed espressivo, secondo la sua storia, la storia che volente o nolente gli tocca vivere, e in cui, a volte inconsapevolmente e senza fama nota ai più, qualcosa genera? A chi scrive, non rimane che l’arduo tentativo non solo di “giudicare”, ma di poter comprendere, per quanto possibile e per quanto capace, l’ipotesi di una traiettoria; il “movente”, passo dopo passo, che nel luogo diviene via via sempre più esplicito.
L’esperienza romana di Post Ex – vecchia carrozzeria di Centocelle adibita, nel luglio del 2020, a spazio di lavoro – raccoglie in sé una necessità, che non riguarda solo il bisogno ausiliatore di artisti e artiste che decidono di mettersi insieme per sostenere i costi del lavoro. Di fatto, c’è di più: urgenza, desiderio, condivisione, passione. In altre parole, “studio”, di là da ogni sorta di esposizione, sia essa mancante o di dominio pubblico.
All’atto di nascita, l’esigenza comune dei fondatori Lulù Nuti, Luca Grimaldi, Eleonora Cerri Pecorella, Francesco D’Aliesio, Gian Maria Marcaccini e Gabriele Silli doveva rispondere più che alla resistenza di una vita messa in crisi da un periodo non di certo favorevole al bisogno di lavorare e crescere professionalmente.
Ebbene, perché mettersi insieme, permettendo ad altri artisti come Guglielmo Maggini, Federika Fumarola e Alberto Montorfano di entrare e condividere un luogo nato da esigenze così particolari?
Il motivo per cui ci si è messi insieme è stato quello di lavorare e crescere. Questo fatto ha poi, imprevedibilmente e insperatamente, favorito il sorgere di un clima di criticità positiva e di sostegno reciproco. Quella che era una conoscenza reciproca e una frequentazione saltuaria è diventata stima reale, e questo ha reso molto più libero il dialogo e il confronto, nutrendo il lavoro, i rispettivi lavori hanno iniziato a dialogare. Ora, la peculiarità di Post Ex probabilmente risiede nella sua natura di spazio di ricerca. È un co-working artistico che non ha, però, come immediato scopo quello espositivo o autopromozionale. È, a tutti gli effetti, un insieme di studi; abbiamo in programma anche noi, in un futuro molto prossimo, di avviare una programmazione di eventi espositivi e non, ma fin’ora lo spazio è stato usato per ospitare altri amici artisti – Azzedine Salek, Fabio Giorgi Alberti, Malù dalla Piccola e, da novembre 2021, Jacopo Natoli e Cristiano Carotti – e così sarà ancora per qualche mese. In questo modo, per circostanze, Post Ex è andato a definirsi sempre di più come area anche di scambio e dialogo, tanto che ospiti, curiosi, addetti ai lavori o conoscenti, sono numerosi e frequenti.
La critica è dare seguito a tutto ciò che rende critici; porre le domande al posto giusto, ma per addentrarsi sempre più nella traiettoria in cui si colloca il lavoro dell’artista, la sua opera, il suo imperterrito dialogare tra sé e se stesso, con gli altri, con il proprio fare. Quel che torna nell’esperienza di Post Ex è il suo non essere collettivo, perché non chiude la dinamica del proprio agire attorno a un’idea comune. Ognuno ha la sua strada, ed è questo l’inconsueto.
Nell’apparente paradosso di non essere un collettivo, il dialogo non si è mostrato innanzitutto come condizione di sopravvivenza (anche, sicuramente), ma si è rivelato tanto seme nascosto quanto frutto insperato di questa. Il dialogo sottintende un rapporto e un contenuto che si articolano l’uno sull’altro. Nel nostro caso, e si può dire “nostro” non a caso, la differenza di attitudini, approcci, estetiche e ricerche, è stata proprio uno dei fattori decisivi dell’avvio di questo luogo, e quindi del dialogo. Proprio in forza di una passione verso la ricerca propria, che si è riflessa in una curiosità e un interesse verso i tentativi degli altri, c’è stato il riconoscere l’esistenza, forse non identità, di una comunanza di orizzonte come possibilità aggiuntiva di crescita personale.
L’esperienza della ricerca è, come affermava Derrida, «l’esperienza dell’evento…verso la quale o contro la quale, arriva ciò che non si vede venire». Si ripiega, riflette su se stessa, agisce seguendo lo spunto, l’interesse in quanto essere-partecipe-di, aprendosi all’altro che impensabilmente giunge e in maniera del tutto imprevedibile. Lo studio, così come l’essere in studio, apre dunque la vista sulla distanza del corpo dell’altro. Senza anteporre nulla, lo aspetta, lo attende, lo ascolta, ne raccoglie le similarità o le diversità quando comprende che, in qualche maniera, l’altro e il suo operato hanno a che fare con il proprio e singolare agire.
Nessuno di noi sviluppa una ricerca che non ha come orizzonte la ricerca stessa, e questo rende lo sguardo attento, e tutto quello che c’è in studio potenzialmente nutre e fagocita questo processo. Spesso, il lavoro (non i risultati) di uno entra in quello di un altro. Spesso inconsapevolmente e ancor più spesso inaspettatamente. Così accade che due persone, che lavorano con mezzi e temi molto diversi, si rendano conto di avere tratti di ricerca comuni o che approcci antipodali abbiano inaspettate isole di contatto tali da diventare collaborazione effettiva. Il tutto mantenendo integre le singolarità.
Il lavoro e l’opera ci sono come dato di fatto e, nel loro esserci, raccontano un percorso, una traiettoria visibile. Un bisogno – affermava Alexander Nehamas – capace di «trasformare il desiderio di possedere, nell’urgenza di creare». Per i dipinti, le sculture, le installazioni, i disegni, che in fieri si possono vedere tra le invisibili delimitazioni degli studi di Post Ex, sembra valere ancora oggi quanto scritto da Tériade alla metà del 1932, quando anche l’agire di un esordiente poteva mostrare «le diverse fasi di un’inquietudine reale». La tensione di artisti e artiste che danno «voce al proprio veicolo espressivo nel bel mezzo del caos plastico della loro generazione». Il lavoro e il suo lascito; il momento della riflessione e il confronto sono parti integranti di una o più azioni volte a mettere ordine, a trovare un ordine, nell’armonia di un’opera. Sarà dunque vero che un’opera non si può mai dichiarare finita, in quanto sintesi esegetica di un percorso, un pensiero, un’esperienza?
Dialogare apertamente e liberamente delle rispettive ricerche e interessi è qui tanto consueto quanto, in effetti, poco usuale in generale, soprattutto perché non si parla delle opere ma delle opere in corso o di quelle in nuce o in pensiero. Per qualcuno questo era già in atto prima che Post Ex esistesse come tale, per altri è iniziato dopo e tuttora continua. Ma prima ancora di questo sono l’atto e la ricerca a essere rapporto e dialogo con la realtà, secondo i temperamenti, i metodi, le idiosincrasie o le singole personali fissazioni. Tutto questo, nel lavoro, fluisce e scaturisce, e in studio si coagula, e proprio perché è uno studio, esce indifeso, non filtrato e non raffinato. Lo studio è il luogo in cui si consumano gli atti estremi del rapporto di ciascuno col mondo, e questo lascia dei segni e dei resti, negli scandagli falliti e in quelli riusciti.
Questo contenuto è stato realizzato da Luca Maffeo per Forme Uniche.