Matteo Capriotti nasce a Giulianova nel 1996. Attualmente vive e lavora a Milano. Nel 2020 consegue una laurea triennale alla Facoltà di Bioscienze, lo stesso anno decide di intraprendere un percorso accademico iscrivendosi al corso di Pittura dell’Accademia di Brera. Nel 2017 partecipa alla sua prima collettiva in occasione di Arte Genova. L’anno successivo è fra i protagonisti di LiberaMente, nella città di Pineto, e di Sconfini, mostra tenutasi all’interno della Scuola Grande di San Teodoro a Venezia. Nel 2018 la sua prima personale Radici e nel 2019 realizza BàTI – , progetto che presenta i reali risultati della sua ricerca pittorica e propone l’unione di una sfera privata e familiare, in cui il mare è soggetto presente. Nel 2021 viene scelto per la mostra Liquid Reality, tenutasi a Torino presso l’Artiglieria, vince il premio Paratissima Price 2021 e partecipa all’ultima edizione di Walk-in-studio a Milano, con lo studio Grazioli16.
Com’è nato il rapporto con l’arte visiva? come lo collochi, temporalmente, rispetto al tuo triennio in Bioscienze? Come lo studio della Biologia, delle Scienze Naturali e delle Biotecnologie, a diversi livelli, hanno influito sul tuo pensiero e sulla pratica artistica?
Ho iniziato a esprimermi con una matita su carta durante le ore di lezione in un istituto alberghiero, disegnando su fogli che poi appendevo al muro; erano perlopiù illustrazioni di pensieri per evadere da una realtà di cui non mi interessava molto. La successiva evoluzione dalla matita al pennello e dalla carta alla tela è arrivata nel 2015, durante il primo anno di università. Lavoravo in un ristorante che organizzava pranzi e cene per matrimoni e, nelle lunghe ore di servizio, un collega mi introdusse all’idea di poter prendere il pennello e dipingere su tela. I lavori realizzati da quel momento in poi rispecchiavano costantemente una parte della mia sfera personale, un racconto continuo in prima persona di quello che ero e che continuo a essere. Gli studi della prima triennale conseguita hanno inevitabilmente richiesto l’approfondimento scientifico di un ambito quotidiano, e forse scontato, come quello dell’alimentazione, ma che oggi più che mai ha preso centralità in dibattiti etici, sociali e politici. La conoscenza scientifica di un campo primario per l’essere umano ha mutato il mio approccio personale rispetto ad alcune problematiche e, ovviamente, ha mutato l’approccio a quello che sarei andato a realizzare artisticamente, portandomi ad avere un’attenzione costante rispetto ai numeri, alla statistica, alle reazioni naturali e a tutto quello che aveva un’impronta più scientifica e meno umanistica.
Come inserisci la ricerca nel tuo lavoro, come la intendi, come la sviluppi? Quanto è importante la lente attraverso cui leggi l’arte data dai tuoi studi?
Conoscenze eterogenee sono indispensabili per cogliere le molteplici sfumature di qualsiasi campo d’indagine; perché no anche di quello artistico; ovviamente nella mia ricerca c’è una forte influenza e credo che ve ne sarà per sempre. Tuttavia, non credo che la sfera scientifica influisca più di tanto nel mio giudizio o nell’apprezzamento di una specifica opera o corrente artistica, sia del passato sia contemporanea. La mia visione concettuale ed estetica sta cercando di evolvere a prescindere da quanto studiato in passato.
I tuoi lavori sono legati alla tua conoscenza scientifica, per contrasto, perché nelle tue opere esplori una fanciullezza sinistra e la sfera fobica che ci caratterizza. Questo è un possibile, breve riassunto del tuo lavoro artistico? tu come ti racconteresti?
Non credo che i due campi di ricerca – ovvero quello scientifico e quello legato a indagini fobiche – possano definirsi in contrasto. Come già detto, i miei lavori sono una narrazione in prima persona di ciò che sono arrivato a essere e di ciò che sono arrivato a pensare, attraverso la metabolizzazione degli innumerevoli agenti esterni che lo scorrere del tempo ti scaglia addosso. Negli anni in cui ho pensato e sviluppato BàTI –, al centro del progetto vi erano due grandi motivazioni: l’esporre una delle mie più grandi paure, quella della profondità del mare, creando tele che fossero come grandi specchi in cui ogni spettatore potesse rivedere l’angoscia del proprio horror vacui; dall’altra la volontà di rispolverare una conoscenza del mare e delle proprie caratteristiche relative alla profondità, che avevo acquisito da un’intera famiglia di marinai. Così come in Disegnini, tutto parte da una consapevolezza scientifica-psicologica quella, in questo caso, del funzionamento anatomico del nostro cervello, per arrivare così al concetto di esperienze non rappresentabili, un’idea rimasta latente che può o non può manifestarsi in occasione di un evento traumatico.
Quanto è importante la commistione di linguaggi nel tuo lavoro?
Non c’è un linguaggio che preferisco, ognuno corrisponde alla necessità di dire qualcosa in quel determinato momento e in quel determinato modo; la diversità e l’eterogeneità di forme e materiali nei miei lavori è ciò che li caratterizza. La commistione dei linguaggi è necessaria affinché io possa darmi più strade possibili nel momento in cui voglio esprimermi.
Le immagini e i materiali che utilizzi sono il risultato dell’assorbimento del tuo vissuto e del tuo essere (come la tua batofobia). Cosa vorresti che il fruitore percepisse? Vorresti delle risposte da noi che osserviamo le tue opere o è un continuo perpetuare il dubbio?
Vorrei che il fruitore delle mie opere venisse stuzzicato nella parte più remota della sua memoria, vorrei che – soprattutto attraverso alcune opere specifiche – chi guarda possa far riemergere emozioni e scenari forse seppelliti dallo scorrere del tempo, tasselli che fanno parte di un’altra vita, di quando si era piccoli, o pensieri rimossi per traumi o altre vicende. Conscio di raccontare nulla più di ciò che ho vissuto e, conscio di poter estendere all’universale (quasi sempre) il particolare della mia infanzia, spero di riattivare memorie perse e far esclamare: “Ca**o, l’ho fatto anch’io!”
Se arte contemporanea significa abbandono delle τέχνη [téchne], allora il termine non è più sufficiente, perché oggi la maggior parte degli artisti non abbandona la tecnica ma non l’ha mai conosciuta. Il tuo caso è un po’ diverso, hai frequentato un corso di Pittura all’Accademia di Brera, quindi tu conosci una tecnica ma l’applichi in modo completamente transdisciplinare. Quindi ti chiedo, ti senti incluso in questa definizione?
Ho iniziato a elaborare ciò che avevo dentro per poi iscrivermi in un’accademia in cui seguo un corso di pittura. Non è vero che conosco una tecnica e che la elaboro in modo transdisciplinare, anzi, al contrario sono partito da una non-conoscenza della tecnica, una tabula rasa sia a livello pratico sia a livello teorico. L’approccio alla materia non avviene solamente apprendendo tecniche pittoriche ma anche, e soprattutto, imparando a leggere le opere e i lavori dei propri compagni e compagne; l’importanza di sviluppare una capacità critica, al momento va di pari passo con quella dell’acquisizione di una determinata tecnica, nell’ideazione e nella realizzazione di un mio lavoro. Sto cercando di unire i due mondi, imparando l’arte a livello pratico e concettuale ma riprendendo quella poetica più istintiva e personale che avevo sviluppato prima di iscrivermi in accademia.
Questo contenuto è stato realizzato da Manuela Piccolo per Forme Uniche.
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