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LA BUSSOLA DI AGO Natale in calzamaglia con Spider-Man e Diabolik

Diabolik al cinema Diabolik al cinema
Diabolik al cinema
Diabolik al cinema

Il miracoloso Diabolik dei Manetti Bros riscatta il cinema italiano. Promosso anche il nuovo Spider-Man: uno e trino

– Un weekend cinematografico in calzamaglia, a quanto sembra.

– Che intendi dire?

– Tra Spider-Man e Diabolik, sugli schermi prenatalizi è il trionfo del neoprene.

– Già, vero. Per Spider-Man: No way home è anche trionfo al botteghino.

– Meritato?

– Ti dirò, secondo me sì. L’ho visto in un cinema pieno di ragazzini acquirenti convinti del biglietto per la versione originale sottotitolata, che hanno più volte esultato e battuto le mani durante la proiezione. Vuol dire che il prodotto senz’altro funziona. Non è certo il migliore di tutti gli Spider-Man (il mio cuore batte per i due episodi diretti da Marc Webb), ma due ore e mezza scorrono come se durassero la metà. Non che la storia o gli effetti speciali aggiungano alla saga e all’intero universo Marvel qualcosa di mai visto, anzi. Ma c’è quella lunga sequenza in cui accanto al sempre magnifico Tom Holland, ricompaiono i due precedenti volti di Peter Parker, Tobey Maguire (protagonista della trilogia firmata da Sam Raimi) e Andrew Garfield (quello dei due episodi di Webb), anche loro in costume rosso-blu, sui quali il tempo ha rilasciato la patinatura dell’età: 46 anni Maguire, 38 Garfield, contro i 25 di Holland che grazie al suo faccino e alle forme minute conserva ancora una convincente arietta da teenager: è qui che si verifica una interessante e inedita congiunzione astrale (si parla dopotutto di star hollywoodiane), in cui si legge con tutta evidenza negli occhi dei due attori più anziani la doppia declinazione di una nostalgia per quel che Peter Parker visse e provò quando furono loro a indossarne la maschera. Una sorta di ‘tre età dell’Uomo’, vent’anni cinematograficamente scanditi nel corso di un reale ciclo di crescita (e di invecchiamento) giunto quasi sull’orlo della mezza età e altrettanto cinematicamente rappresentato, nel senso di ‘messo in scena’, con la singolare compresenza di tre attori ancora in carriera interpreti negli anni del medesimo personaggio, che si sono prestati al gioco.

– Come se in un prossimo episodio di 007 comparissero tutti i sei interpreti di Bond dal 1962 ad oggi…

– Più o meno. Ma l’eventuale reunion tra i diversi Bond è ahimè irrealizzabile, dopo la scomparsa di Connery e Roger Moore. Nel caso di Spider-Man il Cinema esibisce con affettuosa tenerezza ai fans adolescenti del Supereroe creato da Stan Lee e Steve Ditko una meditazione sull’ingresso nell’età adulta e sullo scorrere inesorabile del tempo che porta con sé il disincanto insieme al rimpianto degli anni più spensierati. Insomma, ‘la Morte al lavoro’, come Cocteau definì il Cinema, che eternizza il volto e il corpo degli attori dentro lo specchio di un film, dove negli anni a seguire potranno confrontare l’immagine in progressivo decadimento del proprio io reale (e mortale) con quella fulgida e perfetta del proprio io in celluloide. Solo che stavolta – questo è il motivo per cui in futuro varrà sempre la pena di ritornare a Spider-man: No way home – tutto accade all’interno dello specchio: è infatti lo stesso Peter Parker, e non l’attore che lo interpreta, a ritrovarsi e contemplarsi in tre età differenti, in un confronto che è sia seduta psicanalitica che viaggio spazio-temporale nella palla di vetro del Cinema, teatro d’illusione per eccellenza. Non male per un blockbuster di Supereroi mascherati, campione d’incassi al box-office. Ma la Marvel non è nuova a questo genere di incursioni nella cultura ‘alta’: pensa al vento di Nietzsche che soffia e disperde le sabbie nel nichilistico finale di Avengers: Infinity War…

 

Spider-Man. No way home
Spider-Man. No way home

– Decisamente meno brillante, al botteghino, l’esordio del Diabolik dei Manetti Bros

– E me ne dispiace. Ma almeno il cinema italiano è salvo e in buona salute.

– Che vuoi dire? Critica e pubblico stroncano all’unanimità: ‘lento’, ‘attori da fiction tv’, ‘scene d’azione di imbarazzante goffaggine’… Così almeno si legge sui social.

– Sciocchezze. Diabolik è un film sensazionale. Mi dirai anzi che è un’operazione culturalmente così sofisticata e cólta che forse può risultare non proprio alla portata di chiunque.

– Addirittura?

– Te lo garantisco. Pare un film di Raul Ruìz, tanto è straniato e straniante. Ma quali lentezze? Non puoi aspettarti che da un fumetto italiano nato in Italia negli anni Sessanta a qualcuno venga in mente di trarre un action-movie frenetico nel montaggio e bombastico nel ritmo tipo John Wick. Io me lo ricordo quando da piccolo rubacchiavo gli albi delle Sorelle Giussani a mio cugino di qualche anno più grande di me, e sfogliavo quelle doppie pagine in formato tascabile con sole due vignette ciascuna… Quella freddezza ‘adulta’ così diversa dai miei Topolino, Braccio di Ferro e il Corriere dei Piccoli… Quei nomi geografici circonfusi di un’aura da misterioso ‘non-luogo’, quei balloon con dentro frasi lapidarie, tese e lucide come stilettate… Gli ambienti, gli arredi, le giacche e cravatte: a 10 anni entravo in contatto con la MODERNITÀ, con quella sensibilità estetica italiana che andava definendosi nel design, nella moda, nel cinema, nella pubblicità… Mi viene in mente la Valentina di Guido Crepax, la sorellina più ‘d’autore’ del Diabolik delle Giussani. La stessa astrazione, l’identica impassibilità nel comprimere l’espressione delle emozioni… Ovvio, Diabolik era più ‘popolare’. Oggi si direbbe ‘Serie B’. Parlava infatti la stessa lingua di quei film girati da registi italianissimi coi nomi d’arte all’americana, imitazioni tra lo scadente e il volenteroso dei polizieschi e delle spy-story made in USA. Ebbene, io ho ritrovato TUTTO questo nel film di due autori il cui Cinema mi aveva finora lasciato sempre indifferente, tanto che mi resta il dubbio se siano consapevoli essi stessi del miracolo che hanno compiuto. Ma è il risultato quello che conta, e quello c’è, indiscutibilmente.

– E gli attori scadenti?

– Ahahah, non è affatto vero! E del tutto fuori luogo mi pare il tirare in ballo le odierne fiction Rai. Semmai nel film si parla come negli spot pubblicitari dei dentifrici e degli aperitivi di quel periodo. L’effetto è completamente diverso, credimi. Ripeto, anzi: miracoloso.

– I ritmi lenti, allora?

– Lenti, forse, rispetto alle attuali esasperazioni frantiche che rendono ormai indistinguibili i prodotti televisivi da quelli per il grande schermo. Sono invece gli stessi ritmi che poco a poco ti tiravano dentro la spirale narrativa, pensati e scanditi per un pubblico che aveva ancora la pazienza e la voglia di scoprire il mondo, che sostenevano il racconto dei fumetti popolari italiani di quegli anni. Mi pare impossibile che tutto ciò non salti all’occhio con evidenza, durante la visione di un film così perfetto.

– Noia, dicono. ‘Soporifero’…

– Io non gli ho staccato gli occhi di dosso per un solo attimo. I protagonisti sono tutti assolutamente perfetti, Marinelli, Mastandrea e una Miriam Leone che sembra nata, cresciuta e modellata per essere il doppio in carne ed ossa di Eva Kant, insieme a una galleria mirabolante di caratteri minori, tutti indimenticabili: il direttore e i camerieri dell’Hotel Excelsior, l’inquieta e insoddisfatta moglie di Diabolik, la segretaria del Ministro corrotto, il direttore del carcere, i poliziotti agli ordini del Commissario Ginko, la direttrice della banca ‘svizzera’, il cammeo della brianzola snob di Claudia Gerini… Autentiche perle, ti dico, altro che noia. Infine la Milano di metà ‘900, espressione aggiornata delle rigidità razionaliste delle architetture e dell’urbanistica del Ventennio. Sfondo ideale per le avventure di un bandito in calzamaglia nera, spietato e risoluto finché si vuole, ma dotato di un’etica e di un codice d’onore tutto suo. Al quale i lettori adulti e adolescenti di quell’Italia oggi irripetibile e irrecuperabile aderivano con spontanea simpatia. Come vedi, siamo agli antipodi del cinema che oggi circola nelle sale e in televisione, prevedibilmente più agevole e accessibile per quel pubblico postmoderno incapace di riconoscere e decodificare l’epoca della vera ed ultima modernità di un Paese travolto in seguito dalle derive del riflusso e da Berlusconi, e di ritrovarci le proprie radici estirpate, recise, cancellate dalla tv spazzatura, dall’oscurantismo culturale e morale e dalla peggiore storia politica della Repubblica: da qui, tutti gli equivoci e le incomprensioni su questo magnifico ‘period piece’, scaldato da un’azzeccatissima colonna sonora che riecheggia sapientemente Bernard Herrmann e Lalo Schifrin firmata da Pivio e Aldo de Scalzi, tra i migliori film italiani di un’annata feconda per qualità e varietà.

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