America Latina, presentato fuori concorso a Venezia 78, dal 13 gennaio è in sala il nuovo film di Fabio e Damiano d’Innocenzo
Fabio e Damiano d’Innocenzo fanno parte della nuova leva del cinema italiano, di un nuovo cinema italiano e di una nuova generazione. Hanno fatto parlare di loro con i precedenti due film, La terra dell’abbastanza e Favolacce, e ancora si parla di loro con questo nuovo e ambizioso ultimo film. Sembra che il loro percorso di scrittura stia diventando sempre più rarefatto; si passa da una storia realista e cruda, a una realista ma immaginaria per finire in un luogo astratto e psicologico che è America Latina. Perché è questo il nuovo film dei d’Innocenzo, un enorme convoglio di sensazioni e fantasticherie tutte interne, tutte nevrotiche.
Un dentista (Elio Germano), sposato e con due figlie, scopre improvvisamente che nello scantinato di casa c’è una bambina legata e imprigionata. All’inizio si sorprende e si spaventa, ma non fa nulla per salvarla. La tiene lì, come se non avesse il coraggio neanche di parlarne. Poi iniziano i problemi, i tormenti, l’alcolismo, la violenza, l’aggressività e alla fine (spoiler) scopriamo che tutto il viaggio era solo interiore, solo dentro di lui.
Un film atipico per il panorama italiano, un film visivo. La storia è esile, il più è lasciato alle lunghe scene dilatate e ai primissimi piani con poca profondità di campo come da stile d’Innocenzo, ai colori espressionisti e ai silenzi, sporcati ogni tanto dalla musica scorticante dei Verdena. Lo sforzo e il coraggio di proporre un film così ambizioso è lodevole certo, ma al film manca una concretezza, manca una storia reale. Come nei due film precedenti troviamo il maschio messo di fronte ai suoi incubi-sogni, schiacciato dal suo macismo tossico, la donna ritorna a essere crepa di speranza e idealizzazione di bellezza, di amore e pace, ma il film si perde in un groviglio di simbolismi e personalizzazioni nevrotiche che stancano e confondono lo spettatore. Il finale lascia troppe questioni aperte, non chiude quasi nessuna delle questioni sollevate. “Criptico” può essere un indice di profondità, altre di incertezza e confusione.
Il doppio poi, data la gemellanza, ritorna spesso nelle inquadrature e nelle composizioni. Elio Germano spesso si vede attraverso riflessi e ombre, come a mostrare quello che appare in contrasto con quello che invece è il suo personaggio. Il sopra e il sotto, l’acqua torbida e pura, un risorgimento e una tragedia. Una storia dritta, semplice ma troppo densa, aggrovigliata e che tende all’incompletezza, all’ambiguità. Sbagliano questa volte, forse, i d’Innocenzo e scivolano sull’attrazione per le immagini, ma confezionano un film dirompente, grosso e anche scomodo.