Venti artisti italiani, dalla generazione emersa negli anni ’90 all’attuale generazione, sono in mostra a Villa Arson, Nizza, dal 12 giugno al 28 agosto 2022. Al centro di The Future Behind Us un mancato incontro con la storia, una sorta di trauma sociale e culturale.
Qui l’intervista al curatore Marco Scotini.
Roberta Garieri: Le futur derrière nous, la mostra da te curata presso Villa Arson a Nizza – che presto aprirà le porte (12 giugno-28 agosto 2022) – ha un titolo evocativo. Mi viene in mente il concetto di “eingendenken”, sviluppato da Ernst Bloch in Lo spirito dell’utopia (1918) e ripreso in seguito da Walter Benjamin. Tradotto come “immemorizzare”, suggerisce “la rinascita di una potenzialità ancora in attesa di essere realizzata”, di passati incompleti o incompiuti. Che cosa puoi dirci a riguardo?
Marco Scotini: Le futur derrière nous, come tutte le altre mostre da me curate, ha ancora a che fare con la memoria. Questo spazio archeologico che accompagna ogni mia mostra è tutt’altro che una sottrazione al presente. All’opposto, è un’altra modalità di aderire al proprio tempo: mai riconciliata con esso, molto più radicale, meno appagata da ciò che appare. Una modalità che non si stanca di fissare il “buio speciale” della nostra epoca, come direbbe Agamben. Ma non credo ci sia nulla di messianico e utopistico in tutto ciò, come magari è in Benjamin o Bloch. C’è piuttosto la volontà di uscire dalla ‘sacra trinità’ del tempo lineare: quello per cui c’è sempre un presente da vivere, un passato che lo precede, così come un futuro che lo segue. La mia idea del tempo è al contrario quella che lo vede, ogni volta, sdoppiato nella coppia virtuale e attuale, non in “prima e dopo”. Non c’è mai un presente attuale che non sia circondato da immagini virtuali, da immagini di un passato che, come tale, si conserva e rimane allo stato potenziale (i suoi tentativi mancati, le sue possibilità perdute, ciò che è ancora in attesa di essere realizzato).
Questa idea del tempo, in Le futur derrière nous si confronta con i fantasmi degli anni ‘70, la stagione più ricca di conquiste sociali, forme emancipative e creatività che l’Italia abbia vissuto. Qualcosa che però la nostra cultura ha poi rimosso traumaticamente e che le generazioni emerse a partire dagli anni ’90 fino ad oggi hanno sentito la necessità di riscoprire, dandosi un appuntamento all’interno di questo scarto temporale, di questo anacronismo ideologico. Da questo punto di vista, lo Stato italiano non ha mai smesso di perseguire una repressione e una riscrittura di quella storia: oggi, con l’operazione “Ombre Rosse”, il governo italiano chiede al governo francese l’estradizione eccezionale di diversi asilanti italiani. Questa estradizione, richiesta 40 anni dopo i fatti, è, data l’età delle persone coinvolte, una vera e propria condanna a morte dietro le sbarre. Per questo motivo la mostra a Villa Arson risulta doppia, articolata su un duplice strato temporale: presenta la scena artistica contemporanea ma, simultaneamente, lascia emergere figure e storie degli anni Settanta: tutto quel virtuale che è tuttora accanto a noi, anche se noi non lo vediamo. Se non altro, perché qualcuno ce lo ha occultato.
R.G.: Chi conosce la tua traiettoria teorica e curatoriale è consapevole che la questione della memoria – e più specificamente delle politiche della memoria associate alla capacità delle arti visive di reinterpretare passati e presenti traumatici – è una costante. In che modo questo fil rouge accompagna la tua riflessione e quale può essere l’apporto specifico per (ri-)pensare l’arte e, in generale, la produzione culturale italiana?
M.S.: Ho dedicato alla storia artistica italiana degli anni Settanta due mostre importanti, entrambi presso FM Centro Arte Contemporanea di Milano, tra il 2016 e il 2019. Una, dal titolo L’Inarchiviabile, trattava della nascita della moltitudine contemporanea e dei suoi effetti sull’arte e la cultura, l’altra intitolata Il Soggetto Imprevisto riscopriva il rapporto tra arte e femminismo in Italia. In tutti e due i casi il problema non era soltanto quello di far riemergere ciò che era stato rimosso o sepolto, ma di darne una lettura (attraverso delle prove) non conforme e antagonista rispetto alle etichette assegnate all’intero periodo. Diciamo che tanto io che la mia generazione siamo stati formati all’ombra dei cosiddetti “anni di piombo” da cui avremmo dovuto prendere le giuste distanze. Se questa formula politica sommaria entra in circolazione subito nel 1981, con l’uscita del film tedesco Die bleierne Zeit diretto da Margarethe von Trotta, nel tempo questa locuzione sarebbe assurta a desolante definizione storica della stagione degli anni ’70. Una definizione che era una liquidazione totale di quel grandioso movimento rivoluzionario, ridotto a lotta armata, terrorismo, violenza studentesca e operaia. Carla Lonzi poi muore nell’agosto ’82, Mario Mieli si suicida nel marzo ’83 e di lì a poco entreranno in scena “le veline”, con il monopolio mediatico e politico di Berlusconi – sulle orme di una repubblica sudamericana. L’ideologia del Made in Italy nel campo della moda e del design faranno il resto. In arte si proclamerà il ritorno alla pittura.
Ecco che allora le due mostre citate sopra sono state una riapertura degli archivi ribelli del passato e una riscoperta radicale di tutto quel movimento in termini di scena creativa e non più di violenza estremista. Gli archivi, in questo senso sono un vero grimaldello per disfarsi delle letture ufficiali ed egemoniche, diventano quei testimoni in grado di opporsi alle narrative ufficiali.
R.G.: Come affermato nel tuo progetto ventennale sulla disobbedienza sociale (Disobedience Archive), in questa mostra ritorni sulla rimozione di un passato, quello degli anni ’70, dalla nostra memoria collettiva. Se ricordare bene implica ricordare i termini del politico, quali sono stati gli usi e abusi della memoria nel nostro Paese?
M.S.: Dall’inizio degli anni ’80 in Italia è stato messo in opera un gigantesco meccanismo di falsificazione rispetto a tutto quel periodo. Una falsificazione che ha fatto dimenticare che proprio a quel momento storico si devono le maggiori conquiste sul piano dei diritti sociali come l’aborto, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, la legge di chiusura dei manicomi, ecc.
Per fortuna, alla fine di quel decennio di reazione ideologica e conservatrice, Primo Moroni e Nanni Balestrini hanno dato alle stampe un libro fantastico come L’Orda d’Oro che però comincia veramente a circolare, nella pubblicazione Feltrinelli, solo nel 1997. Questi, non a caso, sono proprio gli anni delle generazioni in mostra a Villa Arson ma sono anche gli anni dell’emersione del movimento internazionale No Global che si rifaceva proprio alle vicende del laboratorio sociale e teorico italiano degli anni Settanta, assumendolo come suo punto di partenza. Anche in Le futur derrière nous, come in altre mie mostre che indagano l’archivio, la domanda che risuona è: chi detiene il possesso della memoria? Chi la governa e l’amministra? Chi ha il potere di raccontare le storie? Anche questa mostra cerca di dare una risposta.
R.G.: Secondo Herbert Marcuse, ricordare permette di rivivere la differenza, il potenziale radicale del futuro. Quali sono i passati ritrovati nella mostra? Quali pratiche culturali ed estetiche sono coinvolte?
M.S.: La mostra si apre con una gigantografia di un grande fotografo italiano come Uliano Lucas che ritrae un sit-in affollato a Piazzale Loreto nel 1971. Questa immagine finisce per diventare una sorta di carta da parati sopra la quale sta appesa una mappa in cornice che è l’opera Carta Atopica di Luca Vitone, del 1992. Nella foto in bianco e nero degli anni ’70 c’è un pieno sociale che sembra lontano anni luce dalla carta geografica vuota di riferimenti. In questa mappa possiamo leggervi le emergenze orografiche, i bacini idrici, le irregolarità del terreno, gli addensamenti urbanizzati, gli insediamenti isolati. Questi segni sono sì la registrazione di tracce ma di tracce mute, senza possibilità di decodificazione, per cui non possiamo dire in quale luogo realmente ci troviamo. Non sarebbe esagerato affermare che, in Carta Atopica, lo stato di disambientamento (storico e ontologico) – che caratterizza non solo la generazione artistica dei Novanta ma anche quelle successive – si mostra nella sua interezza. Attraverso tre sezioni la mostra procede con quaranta opere che mostrano l’attuale condizione di eredi senza diretta eredità delle più recenti generazioni.
Nelle sale si incontrano temi e riposizionamenti di figure chiave di quel decennio rivoluzionario che hanno inaugurato nuovi modi di pensare, di dire, di essere: dalla riforma psichiatrica di Franco Basaglia (Stefano Graziani), a Carla Lonzi con la sua teoria femminista (Claire Fontaine e Chiara Fumai), dall’anarchico Pinelli (Francesco Arena) al gruppo di liberazione sessuale “Fuori” (Irene Dionisio), da Nanni Balestrini (Danilo Correale e Claire Fontaine) e il Gruppo ’63 (Luca Vitone) al cinema radicale di Alberto Grifi (Alice Guareschi), dall’Enzo Mari più politico (Celine Condorelli) al compositore concettuale Giuseppe Chiari (Massimo Bartolini), dagli Autonomi (Rossella Biscotti) ai fondatori del Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera (Rä di Martino). A questa sezione dal carattere più archeologico e dal titolo Divenire Ex si intreccia un’altra, Esercizi di esodo, più ampiamente dedicata a temi come il rifiuto del lavoro (Danilo Correale), il passaggio al lavoro postfordista (Marie Cool & Fabio Balducci), la controinformazione (Stefano Serretta e Francesco Jodice), la pedagogia non autoritaria (Adelita Husni-Bey), e molto altro. Ad entrambi succede l’ulteriore sezione Vogliamo ancora tutto (Alterazioni Video, Bert Theis, Paolo Cirio, Stalker), dove, se un recupero è in atto, è proprio quello delle pratiche in ambito urbanistico, ecologista, mediattivista, in parallelo con il movimento anti-globalizzazione.
R.G.: La sottotraccia teorica che segue lo sviluppo temporale della mostra, che dagli anni ’90 giunge fino ad oggi, è quella dell’Italian Radical Thought, un pensiero che diviene e si decentra, concettualmente e teoricamente, nel confronto con il pensiero francese. Un pensiero quindi connesso, vettore di scambi bilaterali tra Francia e Italia, un pensiero che si sradica da un’origine propriamente italiana. Che cosa puoi dirci a riguardo? E come le pratiche artistiche coinvolte si nutrono di questo pensiero?
M.S.: Il libro “Impero, il nuovo ordine della globalizzazione” viene scritto da Toni Negri e Michael Hardt negli anni ’90 e pubblicato in lingua inglese nel 2000. Dunque c’è una stretta corrispondenza tra quello che le nuove generazioni vanno facendo e gli esiti ulteriori del pensiero radicale italiano sorto negli anni ’70. Tutto il decennio dei ’90 vede al lavoro pensatori come Paolo Virno, Maurizio Lazzarato, Christian Marazzi, Franco Bifo, Giorgio Agamben, Silvia Federici – oltre a Toni Negri – sorti all’interno dei movimenti degli anni ’70 e che leggono il nuovo millennio attraverso temi come la nascita del lavoro postfordista, il femminismo, la soggettività multitudinaria, il cambio di paradigma del tempo, la ripresa delle lotte sociali. Al di là del profondo rapporto di tutti questi pensatori con figure come Foucault, Deleuze e Guattari, è stata la Francia ad accogliere tutti gli esuli del movimento italiano di Autonomia Operaia dopo il processo del 7 aprile 1979. Non mi pare una relazione che si possa trascurare.
R.G.: In che modo il display espositivo dialoga con l’architettura labirintica della Villa Arson?
M.S.: Cercando tra i materiali d’archivio di Villa Arson abbiamo trovato una vecchia foto in bianco e nero che mostra una sala occupata dell’attuale scuola d’arte in cui due ragazzi, dal look molto anni settanta, si affacciano dal parapetto di una scala, mentre nelle pareti bianche, un grosso pennello ha appena tracciato la frase: Vive la lutte. Questo ritrovamento ci ha aiutato molto a concepire la mostra. Il resto (dentro e fuori) si deve molto all’incanto che produce quest’architettura brutalista straordinaria di Michel Marot (anch’essa tutta nel gusto dell’avanguardia a cavallo tra gli anni ‘60 e ’70).
R.G.: Come nasce questo progetto? Quali sono state le connessioni transalpine che lo hanno reso possibile?
M.S.: Si tratta di un’esposizione organizzata nel quadro della presidenza francese dell’Unione Europea. Nasce, attraverso il coinvolgimento di due istituzioni di Nizza come il Mamac e Villa Arson, con la volontà di dedicare due grandi mostre complementari alla scena artistica italiana dagli anni ’60 fino ad oggi. L’altra mostra, dal titolo Vita Nova è curata da Valerie da Costa per il Mamac e chiude la propria narrazione con la data del 1975. Senza dubbio le due esposizioni costituiscono la presentazione più importante in Francia della scena artistica italiano dopo la mostra di Germano Celant al Centre Pompidou, Identité Italienne, che si tenne nel lontano 1981.
Marco Scotini
Curatore, scrittore e critico d’arte con sede a Milano. Direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea (Milano), Direttore del Dipartimento di Arti Visive e Studi Curatoriali di NABA (Milano e Roma) e responsabile del programma espositivo del PAV (Torino). Come curatore, ha collaborato con numerose istituzioni internazionali, tra cui la Biennale di Venezia – Padiglione Albania nel 2015, la Biennale di Anren nel 2017, la seconda Biennale di Yinchuan nel 2018, nonché la Biennale di Praga, il Van Abbemuseum, il Reina Sofia, il SALT, il Castello di Rivoli e il MIT. La sua mostra più nota, Disobedience Archive, è stata esposta in musei e spazi espositivi internazionali. I suoi saggi sono stati pubblicati in numerose riviste italiane e internazionali, tra cui: Moscow Art Magazine, Springerin, Flash Art, Domus, Manifesta Journal, Kaleidoscope, Brumaria, Chto Delat?/What is to be done?, Open!, South as a State of Mind, Arte e Critica, Millepiani, alfabeta2.
Ha pubblicato “Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici” (DeriveApprodi 2016 e 2021), “Utopian Display. Geopolitiche curatoriali” (Quodlibet, Naba Insight, 2019), “Politiques de la végétation. Pratiques artistiques, stratégies communautaires, agroécologie” (Eterotopia France, Parigi, 2019), “Politiche della Memoria. Documentario e Archivio” (DeriveApprodi 2016), “Politics of Memory” (Archive Books, 2016).
INFORMAZIONI
Le Futur derrière nous
11 giugno – 28 agosto 2022 – Villa Arson, Nizza
Inaugurazione della mostra sabato 11 giugno 2022, dalle 14.00 alle 21.00.
Con Alterazioni Video, Francesco Arena, Massimo Bartolini, Rosella Biscotti, Paolo Cirio, Claire Fontaine, Celine Condorelli, Marie Cool Fabio Balducci, Danilo Correale, Irene Dionisio, Chiara Fumai, Stefano Graziani, Alice Guareschi, Adelita Husni-Bey, Francesco Jodice, Rä di Martino, Stefano Serretta, Stalker, Bert Theis, Luca Vitone.