Cosa s’intende per scultura oggi? Come la tecnologia ha cambiato il mestiere di scultore? Dove si formano e quali sbocchi hanno gli scultori contemporanei? In una parola, nell’epoca dell’antipolica e dell’antimateria, la scultura è viva o morta? Questa nuova rubrica di ArtsLife prova a rispondere a queste domande attraverso le voci di alcuni tra i più interessanti scultori italiani, dagli “scultori-scultori” ai ceramisti, dalle contaminazioni al dialogo con l’architettura e l’urbanistica, sino alla reinterpretazione dei linguaggi della tradizione.
Chi, come Dante, fosse lì lì per smarrire la “speranza dell’altezza”, non ha che da cambiare prospettiva: questo suggeriva, anni fa, Anything to say?, una scultura itinerante di Davide Dormino con Assange, Snowden e Manig in piedi su tre sedie e una sedia vuota, dove chiunque poteva salire. L’indicazione – come negarlo – rimane attuale. E può applicarsi al sovvertimento di sensi, all’ampliamento dei confini del linguaggio, al coinvolgimento etico ed esistenziale veicolati dall’intera produzione di Dormino.
La tua opera si interroga sul punto di vista. Quanto è importante, nella formulazione della domanda, il tuo lavoro di scultore, posto che ogni scultura ha contemporaneamente una pluralità di punti di vista differenti?
Ogni opera d’arte è vita sotto traccia. È una prospettiva sul mondo. Apre varchi, crea spazio (dentro di noi), corregge la realtà. Ci invita a guardare con occhi nuovi nel tentativo di comprendere il mondo in cui viviamo. Nella mia ricerca ogni opera deve tendere a questo. La scultura è qualcosa che ti fa muovere, camminare, non ha un punto di vista, ne ha 360. Ed è proprio la fruizione, quello spostamento fisico, che genera il punto di vista interiore. Lo spettatore è l’unità di misura, il testimone delle mie scelte. Immagino sempre un’opera con un pezzo mancante per dare la possibilità di mettere l’ultimo tassello, partecipando fisicamente, o sciogliendo l’enigma da decifrare. Cerco di dare un senso visivo a ciò che è complesso ma anche di alleggerire il carico dei significati; quando si eccede nei contenuti questi diventano troppo condizionanti rispetto alle forme. Sono legato all’immagine ma anche e soprattutto allo spazio, al percorso.
Il problema del punto di vista riguarda anche la pratica dell’installazione, dove a contare, più che gli oggetti in sé, sono gli spazi in cui sono inseriti, e i tempi di fruizione. Sbaglio o le tue sculture, quando non si tratta di installazioni vere e proprie, hanno una forte componente ambientale?
Penso sempre in termini monumentali e allo spazio pubblico, sapendo che questo intento si può esprimere anche in piccolo. Sono un artista da cantiere e la scultura, per sua natura, è un continuo lavoro di sottrazione. Per questo l’ho scelta come pratica. Il lavoro da scultore ti induce a pensare alla materialità, a confrontarti con la solidità, con la statica, a rivalutare lo spazio da invadere o su cui appoggiarsi. La scultura nasce per stare “fuori”, è una pratica in grado di definire la fusione perfetta tra uomo e natura. Agisco sempre con l’idea che siano i luoghi a determinare i miei interventi. Lo spazio è la coordinata in cui devo innestare il mio disegno.
Usi molte materie e in molti modi. Quanto contano il caos, e il caso, nelle tue scelte?
Sono nato con le mani a servizio del fare e con la presunzione di trasformare le materia. È un’attitudine naturale. L’amore che ho per la scultura è l’amore per la materia. Credo profondamente nella fisicità dell’opera. Devo dire che nel mio modo di agire non c’è molto spazio per il caos durante la fase realizzativa. Sono un soldato organizzato ma anche un artigiano col sangue ribelle. Parto dalla forma in modo istintivo e dai materiali come l’argilla, il ferro, il marmo e il bronzo. Sul marmo, per esempio, il margine d’errore deve essere ridotto al minimo. Parliamo di centimetri. Il mio studio, in cui entro sempre all’alba, è attrezzato come una sorta di sala operatoria che mi consente di lavorare in modo chirurgico. Tuttavia bisogna considerare che lo scultore dovrà costantemente confrontarsi anche con l’errore possibile, che può determinare un cambio di direzione, se non stravolgere completamente l’idea di partenza. L’errore genera il caso e ridetermina la creazione.
Potresti descrivere il tuo processo creativo?
L’Arte è un fulmine. È energia compressa in una forma, che si tratti di immagine, suono o movimento. Cerco la tempesta per farmi attraversare da quel fulmine e poi forgiarlo nuovamente. Non saprei come descrivere diversamente questo processo. Colgo segni, accolgo dubbi, rifiuto i compromessi che il mondo genera. Ci sono occasioni che generano un nuovo lavoro, altre volte è il lavoro che genera un’occasione. Tutto potrebbe partire da un invito da parte di un curatore, un bando, una commissione che mi dia la possibilità di muovere la ricerca su quel tema. Dall’altra parte, a volte, si potrebbe trattare di un progetto che ho in mente da proporre a qualcuno, o di cercare un luogo che possa accogliere quello che ho immaginato. In termini pratici, la prima cosa che faccio è disegnare, contemplando le varie possibilità formali. Inizio a verificare se l’intuizione che ho avuto è stata già affrontata da qualcun’altro e a quel punto, sempre attraverso il disegno, inserisco nello spazio l’elemento. Studio la fattibilità in termini di materiali e aspetti tecnici. Metto in discussione tutto cercando di capire come raccontare la stessa cosa in modi differenti. Faccio un plastico in scala, inserendo una piccola figura umana, perché, come dicevo prima, l’uomo è sempre l’unità di misura. Sposto, muovo, trovo gli equilibri, le proporzioni, cambio la scala, disegno nuovamente. Infine, realizzo un render al limite del realismo. Finito il progetto, che di solito non è mai troppo distante dall’intuizione iniziale, comincio a cercare il senso che lo ha generato e come per magia, trovo sempre delle coordinate, che siano parole, frasi, episodi della mia memoria che mi fanno comprendere il senso del mio agire. Molto spesso mi confronto con persone che mi conoscono e che mi aiutano a focalizzare meglio le dinamiche nascoste, invisibili e più profonde del progetto. Mia moglie Silvana (la madre dei miei figli), con il suo sguardo poetico e sensibile, mi aiuta a formalizzare i concetti, mentre con alcuni amici studio la tecnologia dell’opera. Una volta definiti gli intenti, l’80% del lavoro è organizzazione, ovvero, trovare il come. Bisogna considerare materiali, tempi, costi, spazi, trasporti, pensare alla fisica, ai pesi, alla statica, all’usura del tempo. Penso che bisognerebbe imparare dalla poesia dove un verso, una metafora, una parola sono sufficienti per descrivere la propria visione sapendo però che la sintesi è qualcosa che vive costantemente in bilico. C’è una frase che mi risuona da anni ma non ne ricordo la genesi: non c’è poesia senza un notevole sforzo fisico.
La scultura è un’istanza di libertà: la volontà di “superare i confini fisici, abbattere i muri interiori, scoprire chi siamo noi e chi sono gli altri”. Perciò, come hai dichiarato in margine ad Anything to say, “è sempre un atto politico”. Mi spieghi il senso di questa affermazione?
Credo che ogni opera sia un atto di libertà per il suo autore. Capita spesso che il risultato finale sia più forte del pensiero che lo ha generato. Il lavoro supera le aspettative, apre nuovi scenari impensati, provoca reazioni inaspettate nel pubblico e soprattutto in me. Questo ha generato Anything to say? un’opera itinerante in grado di attivare il senso critico. La sedia vuota è un punto di domanda, che invita a prendere una posizione sul mondo, a leggere con occhi nuovi le contraddizioni, ad ascoltare le nostre esigenze e quelle degli altri. Se la politica deve occuparsi delle persone e dei loro bisogni, organizzando e amministrando lo stato e la vita pubblica, allora anche l’arte può essere politica nel momento in cui testimonia lo spirito del tempo. Quando l’arte è pubblica, e dovrebbe esserla sempre, allora diventa un atto politico.
Hai dichiarato che “l’artista è cavaliere”. Ti riferisci a una figura ideale, o ti vengono in mente persone in carne ed ossa?
Questa dichiarazione nasce da una mostra collettiva, dal titolo The Artist/Knight a cui venni invitato. Mi riferivo alla figura ideale dell’artista. Colui che è capace di operare al fine di produrre segni e sogni necessari. Questo è l’artista che ho deciso di essere. Cercando le forme dell’esistenza per poi trasmetterle alla collettività. Le pratiche artistiche, tutte, sono armi per difenderci dai barbari e dall’ignoranza. Mi piace definirle “armi di costruzione di massa critica”.
Chi sono i tuoi maestri?
I miei maestri sono stati i poeti. Ma voglio sottolineare i professori che ho avuto la fortuna di incontrare e tutte quelle persone che ho trovato o su cui sono inciampato nel corso del tempo e che mi hanno dato la possibilità di capire qualcosa che non sapevo di me. Persone a cui rimarrò grato per tutta la vita. Sono figlio del DNA trasmesso dalla mia famiglia da cui ho ereditato la disciplina e l’impazienza. Sono allievo dello sguardo di alcuni artisti e di opere da cui ho appreso una grammatica visiva come la Nike di Samotracia. Sento di discendere da quello che ho guardato: velocemente o con attenzione. Al liceo artistico i professori mi hanno insegnato a disegnare e a copiare. In accademia, ho imparato a progettare. Da solo ho iniziato a sviluppare il mio immaginario. Sono famelico, guardo tutto. Ho sempre le antenne alzate per sintonizzarmi con ciò che ho intorno e dentro. Sono un appassionato di realismo, di ciò che è vero, autentico. Sento di avere radici primordiali e non posso non considerare di esser figlio della tradizione artistica rinascimentale, di quel DNA che appartiene alla scultura italiana. Mi lascio però attraversare con gioia dalle forme, dai suoni e dal ritmo di Richard Serra, Tom Waits e Fred Astaire.
Che cosa pensi della scultura contemporanea?
La scultura contemporanea è un linguaggio sempre rinnovabile. Oggi, scultura e istallazione dialogano in modo serrato, correndo, spalla a spalla, scambiandosi le traiettorie. Con l’istallazione l’artista può raccontare, mentre con la scultura, a mio avviso, afferma. La ricerca plastica contemporanea attinge a concetti, media e materiali diversi ed ha subito molteplici influenze e cambiamenti, nel tempo: dal ready made all’uso della tecnologia come la stampa 3D, o all’opposto, si è spostato spesso verso l’immateriale. Credo però che ci sia una differenza visibile e sostanziale nelle opere realizzate direttamente dagli artisti e in quelle realizzate dalle macchine. Nel secondo caso viene meno quel senso dell’umano che ne determina l’anima. Se da un lato, tutti gli artisti visivi possono approcciarsi alla pratica scultorea, non tutti però sono in grado di gestirla. Tanti bravi artisti hanno un’autentica attitudine verso la scultura. Chi sa leggere un’opera, se ne accorge subito. Trovo però che molte opere scultoree attuali siano spesso eccessive nel virtuosismo, si portano dietro quel faticoso senso di reperto del passato, ma non ne riconsiderano il poderoso senso dell’estetica. L’arte contemporanea così concepita, vissuta e proposta spesso mi annoia. Talvolta si considerano più importanti lo storytelling, il racconto della genesi e i processi a discapito del manufatto finale. In quei casi non la capisco.
Insegni disegno e scultura alla Rufa di Roma: che cosa è per te l’insegnamento?
Penso che insegnare sia una vocazione destinata ai generosi, oltre che un privilegio, perché gli studenti sono una promessa per il futuro. Ho iniziato ad insegnare a 27 anni, gli ultimi 20 li ho passati alla RUFA. Insegnare o meglio trasmettere informazioni, supportare le qualità degli studenti, mi viene naturale. Dialogare con loro con l’obiettivo di innestare il dubbio per sviluppare il senso critico è qualcosa di straordinario. Da me, sono passati tanti giovani che hanno mantenuto quella promessa ed oggi si sono ritagliati un piccolo spazio nel panorama artistico italiano. Ogni inizio di Anno Accademico però, continuo a pormi sempre la stessa domanda, che non rivelerò adesso. La risposta, anch’essa sempre la stessa, è racchiusa in questa frase tratta da L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento di Massimo Recalcati: “Aprire vuoti nelle teste, aprire buchi nel discorso già costituito, fare spazio, aprire le finestre, le porte, gli occhi, le orecchie, il corpo, aprire mondi, aprire aperture impensate prima”.
Perché fare scultura oggi? Cosa risponderesti se a chiedertelo fosse un tuo studente?
Fare scultura è un atto di resistenza. Implica il farti pensare con le mani che il mondo prova a farci atrofizzare.
Che te ne pare degli attivisti di mezzo mondo che si incollano a dipinti e sculture: legittima protesta o vandalismo?
Pablo Eucharren dice: “L’Arte non va contemplata. L’Arte va adoperata, impugnata, scagliata!”. Forse queste persone hanno preso un po’ troppo alla lettera questo meraviglioso motto.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Dopo il mio ultimo intervento Quando il bambino era bambino a Fondazione Volume! a Roma, la scorsa primavera, in cui ho realizzato un piccolo sogno, ho deciso di dedicarmi a pochissimi progetti oltre la docenza accademica e ai miei bimbi, Orlando e Isadora. Oltre a una proposta dall’Austria, sono spesso in tour con Anything to say?, che arriverà in Australia nel 2023, e ho ricevuto qualche commissione dall’Italia ancora in fase di sviluppo. Sono risultato uno dei vincitori di un bando a cui tenevo molto e su cui ho lavorato un anno, promosso dalla Fondazione Fiumare d’Arte e dall’Università di Messina. Il progetto prevede una serie di sculture in luoghi speciali, incantati e sacri della Sicilia, in continuità spirituale e fisica con le opere già esistenti, per creare una sorta di “belvedere dell’anima”. Il mio lavoro prevede la realizzazione di un’opera d’arte ambientale permanente; una scultura monumentale a cui sto dedicando tempo, energie e riflessioni e che dovrebbe essere installata sull’Etna la prossima primavera.