Un “ambiente”, più che un’installazione. Al Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno Tosatti allestisce Spazio #09 – Mi ricordo
“Non chiedete mai cosa significa l’arte contemporanea. Cosa significa? Niente”. Bene ha fatto, Gian Maria Tosatti, a rimarcare un assunto magari ben chiaro a chi vive nell’arte contemporanea, ma non altrettanto a un pubblico variegato come quello presente al Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno. “L’arte di oggi non risponde a nessi logici di rappresentatività, di riconoscibilità, di oggettività”, ha aggiunto, più o meno. “L’opera attuale indugia sull’evocazione, sulle sensazioni, sulle riflessioni che innesca nell’osservatore”.
Ben ha fatto, anche perché “preparava” il suddetto variegato pubblico all’approccio alla sua installazione Spazio #09 – Mi ricordo. Un’esperienza lontana dal confronto con opere di pittura, o scultura, o fotografia, probabilmente più usuale a queste latitudini. Buio. Nebbia. Qualche flebile luce, in alto. Questo ospita la grande aula del bellissimo spazio espositivo, alla quale si accede rigorosamente da soli. E l’obbiettivo di metterci a confronto con noi stessi, con la nostra capacità di stare da soli con il nostro io che si confronta con il nulla, quindi con l’assoluto, è centrato.
Impermanenza
“La nebbia, fa apparire cose, le fa scomparire”, risponde Tosatti al curatore Italo Tomassoni, nel testo che accompagna la mostra, visibile al CIAC fino al 2 luglio. “Diventa una buona alleata della nostra memoria o dei nostri sentimenti. Ci aiuta a vagheggiare cose che forse vorremmo poter vedere, o a far apparire cose che non esistono”. La sensazione che più assale l’osservatore è quella dell’impermanenza. La caduta di ogni sicurezza, con gli indispensabili riferimenti ridotti a debolissime lucine. “Luci che sembrano spiriti, stelle docili, lucciole congelate dalla pietà”, aggiunge l’artista: e qui è chiaro il riferimento alla sua installazione alla Biennale di Venezia, all’ultima sala “pasoliniana”.
“Lo spazio è inconsistente. Niente colore, niente materia, niente struttura. E neppure pieno e vuoto, volume e superficie. E anche il tempo, varcata la cortina che ci separa dall’opera, sfugge alla misurazione”, scrive Tomassoni. “In alto, tra i vapori, l’occhio intravede punti luminosi, unico orientamento per inoltrarsi in un percorso circolare che riporta al punto di partenza dove tutto si ripete. Dentro un sistema semiotico che nasconde ciò che mostra o rivela ciò che nasconde”.
Un “ambiente”
Un “ambiente”, più che un’installazione: quasi un controcanto – ci si perdoni l’ardire – al celebre “Weather Project” di Olafur Eliasson alla Turbine Hall della Tate Modern, Londra, 2003. Stessa nebbia, cambia l’elemento: lì era il sole, qui il buio. Si conferma questo, comunque, il luogo elettivo per l’istanza espressiva di Tosatti. Decisamente più forte, più convincente, rispetto ad escursioni in altri ambiti. Impossibile da fotografare, impossibile da filmare: ma noi ci arrischiamo, a voi l’impresa di percepire qualcosa…