Al Museo Comunale d’Arte Moderna la prima retrospettiva svizzera dedicata a Nanda Vigo (1936-2020), dal titolo Alfabeto Cosmogonico. L’esposizione analizza l’intero percorso creativo della poliedrica artista, attraverso 40 opere realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Duemila che documentano le fasi salienti della sua prolifica attività: uno spazio incontaminato di libertà espressiva dominato esclusivamente dalla luce.
Un’artista eclettica, la cui parabola artistica è inascrivibile a categorie prestabilite e irriducibile a singole discipline. È un approccio olistico all’arte quello di Nanda Vigo, capace di intercettare lo spirito del tempo espresso da architettura, arte e design, restitituendone la propria irrinunciabile visione.
Nata a Milano nel 1936 Nanda Vigo si avvicina al mondo dell’arte sin da giovane, quando subisce una folgorazione visiva che segnerà in maniera indelebile lo sviluppo della sua carriera: il ruolo strutturale della luce nell’architettura di Giuseppe Terragni, che coltiverà nei suoi anni universitari presso l’Institut Polytechnique di Lausanne e in massima parte durante un prestigioso internship nello studio di Frank Lloyd Wright a Taliesin West. Rientrata a Milano nel 1959 Nanda apre il proprio studio di architettura, si avvicina a Lucio Fontana e agli artisti fondatori della galleria Azimut a Milano, fra cui Piero Manzoni, che diventerà suo compagno. In Germania, Olanda e Francia l’artista si avvicina al movimento ZERO, fondato da Heinz Mack e Otto Piene. Da questo momento inizia la progettazione, terminata nel 1962, della ZERO house a Milano: una casa dalle mura in vetro satinato la cui percezione dello spazio viene alterata attraverso luci al neon colorate. È l’alba di un decennio prolifico per le avanguardie storiche, durante il quale Vigo codifica un paradigma formale asciutto, un alfabeto personale volto alla sintesi, un tema essenziale che perdurerà nella sua intera produzione. Si tratta di un linguaggio radicale, basato su una dicotomia primigenia scaturita dall’alternanza di conflitto e armonia tra luce e spazio, teorizzata nel 1964 con Il Manifesto Cronotopico. La stessa artista definisce il concetto di cronotopo:
“Il termine (…) indica i discorsi sullo spazio e sul tempo che ho voluto portare avanti. Con l’aggiunta delle luci, naturali o artificiali, ho sempre cercato la riflessione dando l’idea di uno spazio che non finisce nella cornice di un quadro ma continua all’infinito, anche dentro noi stessi”.
A quest’altezza cronologica il lavoro di Vigo si fonda sulla totale assenza del colore, sostituito dalla luce naturale o artificiale, visibile nelle prime opere, definite cronotopi (dal greco antico chronos, tempo e topos, spazio): microcosmi spazio-temporali definiti dalla sola luce e dalla sua antitetica ombra, capaci di assumere nelle loro mutevoli gradazioni e trasparenze valori semantici e al contempo strutturali. Connotati da un’ardita sperimentazione che prevede l’uso di materiali industriali come vetro e alluminio, le strutture quadrangolari denominate cronotopi rappresentano filtri visivi capaci di modulare l’esperienza percettiva di una realtà complessa. Quando la luce attraversa i vetri, in maniera differente a seconda del momento della giornata (tempo) e dell’angolo con cui vengono colpiti (spazio), essi generano sensazioni mutevoli, impressioni incerte di spazio e luminosità diversamente percepibili, capaci di trasportare il fruitore dell’opera in un’altra dimensione. In mostra, s’incontrano cinque Cronotopi e il celebre Ambiente Cronotopico del 1968 di oltre due metri e mezzo, che consente di vivere un’esperienza immersiva amplificata: “La luce va e non ha dimensione e si può viaggiare lontano”, ha scritto a tal proposito Nanda Vigo, a testimonianza della sua profonda e costante ricerca in chiave ambientale.
Uscendo dalla sala dedicata alla cronotopia si entra in uno spazio dove il dinamismo della luce passa attraverso i Deep Space, realizzati tra il 2010 e il 2015. Si tratta di opere radianti o direzionali in vetro specchiato con all’interno una luce blu di rimando ad una dimensione cosmogonica che trova naturale prosieguo nella serie Light Tree (1970-1985), strutture luminose dalle allusioni arborifere che sviluppano un’innovativa idea di riflessione sullo spazio, in cui natura e artificio trovano una sintesi nella dinamica. Sono opere che scaturiscono dalla sedimentazione semantica attuata da Vigo sulla millenaria simbologia dell’albero: “radici nella terra, rami verso il cielo, figurazione logica, soprattutto se il ramo apporta la luce la cui propagazione nello spazio ci dà la formulazione matematica, l’unica non relativa”.
In un percorso circolare, a concludere la mostra il meccanismo percettivo di cui è intrisa la produzione di Nanda Vigo è reso esplicito dalla proiezione di Venerezia, Venezia è un’illusione cosmica del 1978: un raro film realizzato dall’artista che la vede protagonista di una performance, dove elementi specchianti interagiscono sia con l’architettura della città lagunare sia con il suo corpo, divenuto in ultima istanza l’estremo medium espressivo del proprio alfabeto cosmogonico.
Nel suo desiderio di abolire i limiti dello spazio e della materia, l’artista si colloca in una posizione autonoma rispetto a tutti i movimenti artistici che ha frequentato, compreso il Gruppo Zero che con perseveranza e determinazione ha contribuito a diffondere. Nanda Vigo è stata indubbiamente un’artista unica, probabilmente una pioniera rispetto ad un approccio che oggi potremmo chiamare olistico, dove le arti trovano una loro perfetta integrazione in base a un concetto ben diverso rispetto a quello più riduttivo della sintesi. Non ci sono iati nelle creazioni di Nanda Vigo, ma la necessità di sviluppare un percorso in grado di andare incontro all’assoluto, all’ipotesi di un altrove, che secondo Pierre Restany ne identifica la personalità di una “protagonista dell’altro volto dell’arte del nostro secolo, in un’avventura alchemica”.
NANDA VIGO. ALFABETO COSMOGONICO
Ascona (Svizzera), Museo Comunale d’Arte Moderna (via Borgo 34)
Fino al 25 giugno 2023