Se fossi losangelino, e amassi la mia città, probabilmente amerei molto anche l’arte di Alex Israel, i suoi continui riferimenti a quell’universo pop fatto di Hollywood, spiagge sterminate, flip-flops e tramonti da film. E poi il surf, con tutta la sua mitologia costruita negli anni e disseminata e amplificata nel mondo attraverso i film e la cultura pop. E proprio qui affonda le sue radici “Fins”, la mostra attualmente ospitata da Gagosian Roma e visitabile sino al 28 luglio 2023.
“Fins”, infatti, non sono le pinne di squalo, ma quelle delle tavole da surf, la cui funzione è mantenerne la stabilità della tavola in acqua, e che sono state ingigantite da Israel in monumentali sculture di plexiglass, o trasformate in rilievi in PVC, o in autoritratti, elevandole così da prodotto industriale a forma pop con dignità estetica.
L’immaginario del surf era già stato fonte d’ispirazione per l’artista qualche anno fa, sia per la realizzazione del film SPF-18 (2017), drammone adolescenziale ambientato sulla spiaggia di Malibu, sia per le serie Waves (2017-18) con delle onde così stilizzate da sembrare loghi, poi adottate da Louis Vuitton, grazie all’amicizia tra la direttrice Delphine Arnault e Israel, per una linea di borse. A proposito, la maison francese ha commissionato a Israel anche il design di una speciale tavola da surf (acquistabile sul sito a poco più di diecimila euro), e del profumo On The Beach. L’artista del resto non ha mai celato una sua anima fortemente coinvolta con il mondo del design e della produzione industriale di accessori – disegna e vende, d’altra parte, gli occhiali da sole Freeway Eyewear ideati da lui stesso dal 2010 – perfettamente inscrivibile comunque in una ricerca creativa che appare voler rinfrescare e aggiornare un approccio fondamentalmente pop.
Il modo in cui Israel agisce nel trovare queste immagini ripetibili, fredde, vettorializzabili, è a tutti gli effetti quello del grafico pubblicitario che inventa un logo, partendo da una linea, o da una forma ben riconoscibile e caratterizzata, che può essere, come in questo caso, il profilo di un elemento industriale o l’elemento stesso. Del resto, della asetticità del processo ideativo e produttivo delle opere, da cui è assente ogni intervento manuale, si è voluto fare eco anche nel comunicato stampa emesso in occasione della mostra, affidandone la scrittura a ChatGPT: mossa interessante, nel suo prefigurare scenari futuri intriganti o inquietanti a seconda dei casi, e forse anche ruffiana, visti i tempi di grande popolarità degli intelligentoni artificiali.
Un trailer della mostra pubblicato sul profilo IG di Gagosian in occasione dell’apertura, in cui un frenetico affastellamento di immagini ripropone la forma così essenziale della pinna di Israel moltiplicata, decontestualizzata e tradotta negli stili e nei linguaggi visivi più disparati e immaginosi, ha poi una funzione definitivamente chiarificatrice di come si voglia distillare dalla pinna un nuovo archetipo formale e, in questo modo, dimenticarne l’origine oggettuale.
Le sculture in mostra, così come i rilievi in PVC Sintra (rispettivamente sette e sette…un omaggio ai sette colli romani?) sono gradevoli, chiassose nei loro colori industriali, nelle trasparenze e nei passaggi di gradiente che tanto alludono alle ricerche dei movimenti californiani Finish Fetish e Light and Space attivi negli anni Sessanta, e attraverso quelli alle profondità cromatiche dei tanto celebrati tramonti californiani. Quattro autoritratti del 2023 esposti in mostra, invece – immagini delle pinne da surf sovrapposte a particolari di immagini fotografiche delle spiagge californiane, forse prese da vecchie serie tv o film come Baywatch e The Endless Summer, e il tutto ritagliato dal PVC a restituire la silhouette del profilo dell’artista – interpretano più liberamente quel genius loci losangelino di cui Israel vuole farsi profeta contemporaneo. Si tratta di una Los Angeles idealizzata come il luogo in cui il sogno americano è più vivo, come affermato dall’artista in un’intervista del 2017, e in cui l’immaginazione e la creatività la fanno da padroni.
Tuttavia, come accade anche nel lavoro di molti altri artisti pop, resta sempre un ampio margine di ambiguità che non permette di capire se tale idealizzazione di un sogno americano tutto plasticoso e scintillante sia sincera, o non ne sia piuttosto una ironica e dissimulata critica. D’altra parte era Jean Baudrillard, viaggiando tra le ville di Santa Barbara dove ogni bene di consumo sembrava materializzarsi naturalmente e dove ogni cosa sembrava trasformarsi in bene di consumo, a intuire che «tutto qui sta a testimoniare che la morte ha finalmente trovato il suo domicilio ideale» e che l’America fosse infine il luogo dove si era compiuto «il destino funesto dell’utopia realizzata» (nel suo libro Amerique pubblicato nel 1986).