Per Marco Maschio, giovane promessa dell’arte italiana, “la tecnica non deve essere al servizio dell’idea, ma l’una deve fondersi nell’altra per divenire un tutt’uno”. Ne abbiamo discusso in questa ventunesima puntata di Progetto (s)cultura.
Quando e come hai scoperto la scultura?
Avevo dodici anni quando i miei genitori, notando la mia passione per il disegno, mi portarono da uno scultore che in quegli anni aveva un laboratorio in paese. Ricordo che a catturarmi fu la vita semplice in laboratorio, un ambiente immerso nella natura dove il tempo per un momento sembrava fermarsi e dove tutto veniva vissuto come un gioco o come una sfida continua. In quel contesto osservavo incantato i semplici gesti del maestro mentre scolpiva la pietra leccese, tentando poi di replicare quei gesti su blocchi più piccoli. Decisi allora di voler dedicare la vita all’arte e di diventare uno scultore.
Hai studiato prima a Lecce poi a Firenze. Quali ricordi conservi della tua formazione?
Lecce è stata fondamentale per affinare la tecnica, Firenze per plasmare il mio pensiero. Al termine del percorso accademico divenni consapevole che la tecnica non deve essere al servizio dell’idea, ma l’una deve fondersi nell’altra per divenire un tutt’uno.
Dopo gli studi, sei tornato in Puglia. Che rapporto hai col luogo in cui lavori?
È un archivio a cielo aperto dal quale prendere spunto. Forme, colori, suoni, sapori e gesti: tutto è inconsciamente parte del mio processo creativo.
E con la committenza, pubblica e privata?
Nei confronti della committenza nutro grande rispetto; non è sempre facile scendere a compromessi, ma sono i committenti che mi danno la possibilità di fare scultura e perciò vanno sempre ascoltati.
La metamorfosi, come nella grande scultura barocca, è uno dei tuoi temi preferiti. Pensi che la materia si opponga al divenire o lo fomenti?
Siamo tutti stravolti da un’eterna metamorfosi, tutto è in divenire e anche la materia lo è. Lo scultore è solo uno dei tanti fattori che modifica la materia e dopo di lui chissà quanti ancora agiranno su di essa.
Sei uno scultore realista. Ma anche un artista sognante. È come se la tua arte toccasse sempre il labile confine tra la fantasia e la realtà.
Bisogna trovare un equilibrio tra realtà e fantasia. Una scultura troppo reale rischia di essere “fredda”, incomunicabile, distante e paradossalmente non “vera”. Una scultura che si spinge troppo verso il fantastico rischia di allontanarsi dalla verità.
Nel tuo lavoro le barriere tra le arti sembrano sfaldarsi. A volte si ha l’impressione che tu intenda “dipingere con lo scalpello”.
La scultura, così come tutte le altre forme artistiche, è un linguaggio. Riuscire a padroneggiare più linguaggi modifica inevitabilmente il pensiero e la propria espressione quotidiana. Ho sempre fatto solo e soltanto scultura, ma ultimamente sento la necessità di avvicinarmi alla pittura, in particolare ad una pittura materica, che si sfalda, che lascia intravedere la costruzione di un quadro. Adoro la pittura di Velázquez, di Goya e di Rembrandt. Da quando pratico quest’arte ho avvertito un cambiamento nel mio modo di scolpire. Inizio a non sentire più l’esigenza di finire del tutto l’opera. Preferisco lasciare i segni della lavorazione sul marmo così come, in pittura, lavoro con pennellate veloci e intuitive.
Parliamo un poco del processo. Come ti accosti alle tue opere dall’idea al primo abbozzo alla realizzazione finale?
Ovviamente lo studio preparatorio è fondamentale. Disegni, modelli e bozzetti sono necessari per creare figure complesse o per studiare il lavoro finale insieme alla committenza; tuttavia è il metodo diretto quello che preferisco, un sistema dove non ci sono disegni né bozzetti né misure da riportare. Siamo soli il blocco ed io. Tutto si risolve nell’attimo.
Lavori indifferentemente l’argilla, il marmo, il legno. Hai qualche preferenza?
Adoro tutti quei materiali che dettano allo scultore il tempo di lavorazione. Sono tutti materiali che pretendono umiltà e pazienza da chi li lavora. Il marmo è senza dubbio, tra questi, quello che più mi attrae. C’è qualcosa di sacro o di divino nel marmo, un qualcosa che ancora non ho compreso a fondo. Michelangelo sfidava il gigante di marmo annotando sulla carta “Davide con la fionda e io con l’arco”; nel mio rapporto con il marmo non ci sono armi né tantomeno una lotta. È un dialogo dove è sempre il marmo ad avere l’ultima parola.
Un tuo pregio e un tuo difetto nell’arte e nella vita.
La pazienza per uno scultore è il miglior pregio. Avere la testa dura come il marmo è il suo più bel difetto.
Tutti abbiamo dei maestri. Chi sono i tuoi?
Il primo maestro è quello che ha acceso e fomentato la mia passione per l’arte, Virgilio Pizzoleo, che mi accolse nel suo laboratorio da bambino. Ce ne sarebbero tanti altri ma tre grandi punti di riferimento sono sempre stati Michelangelo, Bernini e Wildt.
Quale è l’opera di cui sei più soddisfatto?
È sempre l’ultima scultura quella che mi soddisfa di più; una soddisfazione che sovente dura poco.
E la mostra più bella che hai fatto?
Non credo di avere una classifica; ricordo però con piacere le reazioni del pubblico nei confronti delle opere. Ascoltare le loro sensazioni, i loro ragionamenti o i loro dubbi e perplessità. Tutto questo è bellezza, tutto questo è ricchezza.
La scultura oggi: è viva o morta?
È la verità che determina la vita e la morte di un linguaggio. Finché la scultura o qualsiasi altra forma d’arte tenderà alla “verità”, non potrà mai dirsi morta.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Porto avanti diverse commissioni e nello stesso tempo dedico spazio a miei progetti. Vorrei poter realizzare una mia prima personale in un posto prestigioso… Chissà.