Da Lanthimos a Costanzo, da Polanski a Korine, il cinema dei grandi torna a illuminare la Mostra del Lido
– Si è mosso qualcosa a Venezia?
– Eccome! Dopo l’inizio stentato dei giorni passati, il Cinema è tornato a brillare di luce propria sugli schermi del Lido. La giornata di venerdì ha messo a segno quattro colpi col botto, quale più quale meno.
– Da dove vuoi cominciare?
– Vado in ordine di visione. Alle 8:30, dopo sole tre ore di sonno (qui al Lido non si viene soltanto per guardare film…), ero in Sala per “Poor things” di Yorgos Lanthimos, autore acclamato e complesso della contemporaneità che, beato lui, riesce a conservare una piena libertà d’espressione insieme all’ambizione, confermata da premi e successi, di arrivare a platee vaste, educate ed esigenti. Dopo l’esito felice di “La Favorita”, presentato a Venezia nel 2018, alla Mostra del Lido ha portato questo “Povere creature!”, scritto, come il film precedente, dal pirotecnico Tony McNamara. È una fiaba gotica per adulti (“Una specie di Frankenstein declinato al femminile” come ha già detto e scritto qualcuno), piena zeppa di nudità, sesso, e tanta, tanta ironia caustica e salace, che nel romanzo omonimo di Alasdair Gray ha trovato una fonte fertilissima di fantasmagoriche invenzioni visive per la ricostruzione immaginaria degli interni e degli esterni di autentiche città e capitali europee dell’800 teatro dell’azione (Londra, Lisbona, Parigi…), talmente geniali per audace e felice fioritura di dettagli che una sola visione non basta, allo sguardo costantemente sollecitato da una regia e una qualità di ripresa ulteriormente curate e affinate (bentornato zoom!) rispetto al ben noto stile barocco del creatore di “The lobster” e “Il sacrificio del cervo sacro”. Ecco, questo “Poor things” è davvero una gioia per gli occhi (sia detto per inciso, Emma Stone non si è risparmiata nel mostrarsi senza inibizioni davanti alla macchina da presa) e per le orecchie, e soprattutto riesce nell’impresa, che pareva impossibile, di archiviare definitivamente, sostituendovisi con rispettabilissimo decoro, Tim Burton e tutto il suo universo di chincaglierie halloweenesche. Va tuttavia registrato, nel corso della visione, un sensibile rallentamento con conseguente forte calo d’interesse nel lungo capitolo centrale, che, costa dirlo, nuoce alla finale complessiva valutazione dell’opera, abbassandola di qualche voto. Ma non parlerei di “passo indietro”, perché ancor più che la mirabolanza di scenografie e costumi, mi ha sorpreso l’evoluzione della scrittura cinematografica di un autore da sempre concentrato nell’aggiornare, ogni volta superandosi, il proprio percorso artistico nella contemporaneità.
– Un bell’inizio di giornata, non c’è che dire.
– Cui è seguito, senza soluzione di continuità (la tabella di marcia prevede qui al Lido proiezioni a neanche trenta minuti di distanza l’una dall’altra) un vero e proprio colpo di fulmine, che non mi aspettavo. Temevo infatti che Saverio Costanzo, del quale avevo parecchio apprezzato il primissimo “Private” e soprattutto “Hungry Hearts” (molto meno “La solitudine dei numeri primi”), avremmo dovuto darlo per perso dopo il trasloco televisivo. Invece, a differenza di altre firme giovani che dopo l’esordio sul grande schermo hanno trovato nel “piccolo”, come si diceva una volta, la giusta dimensione per i loro più moderati talenti, eccolo che dopo 9 anni torna al cinema con un film audace e coraggioso, “Finalmente l’alba”, costato quasi 30 milioni di euro (quanti ne riuscirà a recuperare, visto il suo taglio autorialissimo, distante anni luce da quanto ha ormai piallato e rieducato il gusto del pubblico nell’era delle piattaforme e della serialità? Infatti al Lido hanno quasi tutti storto il naso…). Ritengo un errore grave vederci, come molti che sento e che leggo in giro vanno sostenendo, un “omaggio” al nostro cinema degli anni 50-60, a “Lo Sceicco bianco” e a “La Dolce vita”. L’ambiente è senz’altro quello di Cinecittà, delle comparse pagate alla giornata impiegate nei Peplum statunitensi, e la ragazzina protagonista appartiene a una di quelle famiglie “matriarcali” (altro che patriarcato!) dell’epoca, dove erano le madri la “testa” del nucleo familiare, con cui avevano, assai più che i padri lavoratori impegnati fuori casa dall’alba alla sera tardi, un contatto e una comunicazione costanti. La prima ad esprimersi, con una tirata torrenziale al termine di un tragico film neorealista visto in sala insieme alle figlie, molto critica verso la piega pesante e cupa presa dal cinema italiano di quegli anni lontani, è infatti proprio la madre. È lei che ha già scelto il fidanzato per la minore e meno appariscente delle sue due figliole (la maggiore, più formosa e vistosa, prima o poi qualcuno lo troverà da sola), ed è lei a concedere loro il permesso di recarsi ai provini per uno dei tanti filmoni storici che ai tempi portavano a Roma frotte di attori, attrici e registi direttamente da Hollywood. Ma nel racconto della notte brava della genuina e verace Mimosa (una perfetta Rebecca Antonaci, di cui spero sentiremo molto parlare in futuro), trascinata prima sul set come comparsa, e poi al festino in una villa patrizia fuori città in onore del cast americano del Peplum e popolata della variopinta fauna di stelle del cinema vere e fasulle, artisti falliti, nobili decaduti e politici maiali, non c’è niente di nostalgico, niente che susciti il tenero ricordo di un “buon tempo andato” animato da ingenuità e speranza. Tutto, anzi, è ambiguo, torbido, adombrato di disagevole diffidenza. In contrasto con la sostanziosa e popolosa sequenza in pieno sole del duello all’ultimo sangue dei guerrieri sotto gli occhi della Faraona, e della tortura dei prigionieri spolpati dai falchi nel Kolossal ambientato nell’antico Egitto (anch’essa bagnata della luce abbagliante del sole riflessa dalla sabbia del deserto che nulla ha di eroico ed arcaico: al contrario, è illuminata di misteriosa, quasi metafisica tensione), quanto avviene sotto le volte affrescate della Villa di Capocotta esala un fetore di marcio, di malato, di morboso, che nel mondo felliniano dei titoli citati poco più sopra era sì presente, ma celato dietro la maschera dell’apparente spensieratezza e allegria di quegli anni. Gli americani vengono, da Saverio Costanzo, dipinti come bambini viziati, capricciosi, incapaci di meditare sulle emozioni consumandole con frettolosa voracità, senza lasciare segni o radici da coltivare con la paziente attesa di un futuro germoglio. Mimosa invece, difesa in cuor suo dallo scudo dell’educazione ricevuta dalla sua famiglia “matriarcale”, affronta la sua discesa agli inferi con quella inconsapevole determinazione che le permetterà di superare la prova e uscirne migliore e più matura. Come non leggere in tutto questo una metafora della complessa relazione degli Italiani con il cinema, strumento che il Fascismo aveva fornito loro per intrattenerli e addomesticarli con un’illusoria promessa di prosperità, ma che nel dopoguerra, con le asperità del Neorealismo, sbatté in faccia a una popolazione lacerata e smarrita l’entità reale della tragedia appena trascorsa? Con l’arrivo degli Americani e del loro cinema spettacolare che con la cartapesta ricreò negli studios di Cinecittà l’antico e glorioso passato di Roma, l’Italia si vide proiettata nello specchio della Storia, e nell’illusione di quella lanterna magica maneggiata, anzi manipolata da stranieri ricchi, strambi e bellissimi, ritrovò la determinazione perduta per guardare avanti ed affrontare la modernità forte delle proprie solide e sane tradizioni.
– Ma sei proprio sicuro che Costanzo ci abbia voluto dire tutto questo?
– No. Ma mi piace pensarlo. In fondo un’opera è il regalo che ci fa un artista: noi poi possiamo usarla e giocarci come ci pare. Nel mio piccolo, vorrei solo riuscire a indicare a chi vedrà il film un percorso analitico differente, per comprenderne con maggiore evidenza alcune lentezze volute, alcune atmosfere di non immediata lettura e comprensione.
– E con questo siamo a due.
– Velocemente aggiungo due parole su “The Palace” di Roman Polanski, che a 90 anni giusti e con la complicità del suo connazionale Jerzy Skolimowski, con il quale ha firmato la sceneggiatura, ci ha regalato (vedi? L’arte è sempre un regalo di cui dobbiamo farci trovare degni) un’altra stratosferica lezione di “grottesco”. Il suo albergone in mezzo alle Alpi dove un esercito di ricchissimi e potentissimi magnati della Terra (pretesto di una strampalata parata di star, da Mickey Rourke a John Cleese, da Fanny Ardant a Sydne Rome e Luca Barbareschi) si riuniscono per brindare al Capodanno del 2000, diventa il teatro di un cinepanettone di lusso, che si conclude (girata dal regista di “Chinatown”!) con la sequenza più irriverente del cinema contemporaneo (attenzione! spoilerissimo!): sotto i tavoli del festone da poco concluso, un cagnolino copula “alla pecorina” con un… pinguino! Come ha dire: “Cari voi tutti, credevate di avermi inculato. Invece sono io che ve lo metto in culo a voi. Firmato: Roman Polanski”.
– Ma… ne sei proprio sicuro?
– No. Ma te l’ho appena detto: l’arte è un regalo. Eccetera.
– Giusto anche stavolta. …Avevi parlato di quattro colpi. Ne manca uno.
– Infatti. “Arggo Dr1ft”, un manifesto etico di statura tragica e monumentale, di Harmony Korine. Un post-Western post-basico, post-primitivo, post-primordiale, post-biblico, direi anzi post-evangelico, girato con una telecamera a raggi infrarossi che ha fatto tirare in ballo i videogiochi da alcuni spettatori avventati e corrivi, laddove invece si tratta di immagini realissime, ma trasformate dall’artificio tecnico usato nelle fasi di ripresa in un trip allucinato di abbagliante potenza figurativa. Korine è da sempre una garanzia, ma ad ogni nuova conferma il nostro affetto e di tutti quello che lo seguono da sempre cresce in misura esponenziale.
– Botte piena, direi.
– Eppure, eccomi ebbro di felicità.