Passate le feste resta Santa Lucia, il nuovo progetto espositivo di Invernomuto a Genova da Pinksummer. Agiografia, citazioni puntuali e una spolverata generosa di anni ’80. E la certezza di non credere ai propri occhi
Tredicesimo giorno di dicembre, Santa Lucia. Sulla carta la giornata più corta che ci sia. La più importante del mese per Invernomuto (Simone Bertuzzi, 1983 – Simone Trabucchi, 1982), che da piacentini nutrono verso quella giornata – e verso la sua protagonista – un affetto più forte di quello che in altre parti d’Italia si ha per il Natale. C’è anche da dire che il pacioso Babbo Natale, ovvero il fu San Nicola con le tre palle d’oro, agiograficamente parlando non può certo vantare l’efferatezza mitica della protettrice della vista. Efferatezza indispensabile a questa mostra intimisticamente splatter, dove Invernomuto trascende il mito della Santa sceneggiandolo in un contesto specifico, imprevedibilmente anni ’80. Siamo da Pinksummer, ma potremmo tranquillamente essere sul set di una pellicola, sceneggiata con guizzi alla Invernomuto.
Santa Lucia, dal martirio all’offerta di ineguagliabili kinder brioss, quelli che hanno sfamato generazioni su generazioni di piccoli (e grandi) divoratori di merendine. Allineati, però, alla maniera di Hermann Nitsch, adottando la stessa combine tra sacralità e impegno programmatico, in una citazione che mostra le idee chiare del nostro duo in fatto di progetto espositivo: lo spazio fisico non come accessorio, ma elemento primario, entro cui concorrere alla definizione di una trama univoca. Per fare un parallelo, Invernomuto qui – ma non solo qui in realtà – ragiona il contemporaneo come in musica si guarda a un concept album, concatenando ogni pezzo, così da costruire un percorso narrativo coerente e coeso. E i kinder-Nitsch, in questo senso, sono molto coerenti. Dolce citazione, merenda offerta come merce di scambio a una Santa che, attraverso i suoi occhi, accompagna il pubblico in un’avventura a sprazzi pulp. Una narrazione in cui l’occhio vuole la sua parte. Ma la vuole seriamente, passando – con un’inversione prospettica – da organo puramente ricettivo a generatore di una “realtà aumentata”, nella seconda citazione ufficiale di Invernomuto: il Giuseppe Penone di Rovesciare i propri occhi.
Invernomuto dai, chiedimelo senza chiedermelo. Cosa? Di riprendermi l’incoscienza dei bambini, di chi lascia la sua merenda per intraprendere un percorso tra simboli, mostri e tutti quegli elementi iconici di uno scenario che un Millennial, come chi scrive d’altronde, non può non riconoscere come partorito da due coetanei. Perché siamo quelli della generazione Goops, un frisbee mostruoso e morbido in voga negli anni ’80, puramente rievocato nella sua riproduzione appesa in fondo alla sala. Quelli la cui filmografia di riferimento non può non includere titoli tipo Gremlins o I Goonies, tra i primi che vengono in mente iniziando a muoversi in questa capsula temporal-narrativa. Che trova il suo acme in un ultimo paio di occhi: due caramelle, custodite nel palmo di una svettante zampa mostruosa (prodotta in stampa 3D). Sono l’effetto speciale di un finale in cui Invernomuto scioglie (con spirito puramente concettuale, a meno che qualcuno non voglia performare mangiandosi due occhi) non solo l’alta tensione, ma l’intero progetto, polverizzando tutto proprio come quell’altra zampa, una scultura-candela in cera d’api. Improvvisamente quella realtà in cui ci siamo calati non esiste più, i nostri occhi ci hanno mentito. Come quando nel mitico film Labyrinth (ulteriore riferimento cinematografico in quota Millennial, se non l’avete colto correte ai ripari), David Bowie si sente dire “tu non hai alcun potere su di me”, per poi dissolversi d’un tratto assieme al sogno di Sarah.
Chiudiamo con un consiglio, che è anche uno spoiler: attenzione alla botta di adrenalina data da un tonfo sordo – a tradimento – in sala, con buio di pochi secondi annesso. Un colpo, in tutti i sensi.