L’artista Bruno Ceccobelli prosegue il suo excursus di rilettura delle Avanguardie, focalizzando la parabola su un inaspettato grande
Molto spesso fare un’immagine “nuova” è possibile solo tornando al passato mai passato, o nel perdersi in lidi lontani.
Vi racconterò la misteriosa storia di un idealista, di un pittore “eretico” del suo tempo e della sua esclusione dal sistema dell’arte perbenista e convenzionale, per poi rivelarsi un artista alquanto in anticipo e determinante per la cosiddetta Arte Contemporanea e che se ci fosse stato un suo mercato, non ci sarebbe mai “stato”.
Tutto ambientato in Francia, intorno al 1871; in quel periodo erano molto diffuse le idee proudhoniane del mutualismo, che in seguito sfociarono nella Comune di Parigi: tre mesi di lotte, incidenti, arresti e morti, in cui la città fu autogestita da un governo popolare socialista, dove ogni uomo era libero di stabilire la giusta remunerazione per le proprie fatiche, con una conciliazione generosa tra il lavoro e il capitale. Come esempio dobbiamo partire da un “sovversivo” della banalità pittoresca della Belle Epoque, un intrepido pittore eclettico globalista-globetrotter; all’instancabile ricerca di paradisi perduti, di popoli vergini e anime belle e incontaminate: il parigino Paul Gauguin (1848-1903).
Nacque in una famiglia di intellettuali borghesi, decaduti, e fu “quasi” autodidatta in arte, esperto marinaio, Paul, ateo libertario, “marinando” le sue origini, visitò tutto il mondo dell’altrove, per sconfinare da ideologie, mode e chiacchiericci occidentali.
Un pittore simbolista dal temperamento indiscutibilmente istintivo, campione della nascente mentalità Post-Moderna*, intesa come creatrice di artisti bohémien controcorrente: con il rifiuto totale della precedente storia dell’arte europea moderna, che per lui, anarchico, era altresì la rappresentazione di una società imperialista e capitalista, in una civiltà mortifera.
Fuggire, al fine di scappare dai legami tradizionali ed evitare così peripezie esistenziali famigliari e nazionali. Prese allora a navigare fin da giovane, forse anche nel ruolo di mozzo, in mari oceanici sia atlantici che sargassici, sia indiani che pacifici, per concludere il suo tour adamitico nella Polinesia Francese, a Tahiti.
I successi del modernismo tecnologico industriale dei francesi si concretizzarono con la progettazione e la costruzione del Canale di Suez nel 1869, e poi di quello di Panama; qui, nel 1887, Paul Gauguin lavorò per qualche mese come sterratore.
Gauguin, un cheval fou che non solo imitava e collezionava i suoi colleghi artisti, ma che dirigeva il suo sguardo affettuoso verso le innocenti sculture polinesiane nelle quali lui s’immergeva. E che all’occasione smerciava. In quel suo girovagare in oriente subì anche il fascino dell’arte delle stampe giapponesi, tanto amate anche dal suo “amico/nemico” e collega Vincent van Gogh.
Distaccatosi dalla Matrix a 55 anni, finì per morire nella sua vera patria idilliaca in completo discredito sociale e artistico da parte del suo paese natale.
Paul Gauguin, un ottimista… un corpo utopico con un sogno nudo e crudo, un Robinson Crusoe dell’arte, spiaggiato in riva al mare, in una capanna sperduta, costruita dai maori ad Atuona, Hiva Oa, nelle isole Marchesi, una dimora che aveva denominato Casa del Piacere.
Ridotto con una caviglia spezzata e con piaghe sifilitiche, lasciava sette figli, una moglie, tre amanti indigene sue modelle, troppo giovani per i nostri standard. Pensieri e resoconti filosofici erano descritti e disegnati nei suoi numerosi taccuini e nel suo libro Noa Noa, tradotto: Isola Profumata. Uno dei suoi capolavori pittorici più passionali fu un ultimo quadro, emblematico della sua inquieta poetica etno-pop, dal titolo: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”.
Con questo “sentiero” estetico evasivo sto riaffermando l’importanza della rivelazione per quei movimenti artistici ottocenteschi della presunta arte autoctona, primitiva e animistica**; un fenomeno artistico evidente, ma poco raccontato, conosciutissimo invece all’interno dei nuovi sviluppi stilistici occidentali propri delle prime Avanguardie Postmoderne.
Tutto questo interesse antropologico-scientista in arte si sviluppò a corollario di quella logica del globalismo commerciale e dello sfruttamento delle colonie soprattutto tra gli esploratori compratori affaristi, cacciatori di trofei, svolto per conto di antiquari, librerie e negozi di belle arti, incuriosendo aristocratici, borghesi, intellettuali e artisti della Ville Lumière parigina.
Fu allora che nella capitale francese fu istituito il grande Museo Etnografico del Trocadéro nel 1878, successivamente denominato nel 1937 Musée de Homme, dove vennero esposte importanti collezioni allestite da etnologi a volte considerate come souvenir di altri mondi “sottosviluppati” e con facili prezzi… naturalmente.
Così, salotti e cerchie di club intellettuali progressisti ebbero un nuovo esotico “interesse”: consegnarsi ad altre terre lontane e per questo vaneggiare fantasticherie e scandalosi pettegolezzi su quelle cosiddette tribù autoctone e primitive, ciò nondimeno anche così sognanti e vitali per quegli artisti “allievi” del sauvage così tentatore, ma anche terribilmente aggressivo: épater le bourgeois…
Queste furono le loro armi: l’arte preistorica e poi quella minoica, quella africana-oceanica, quella eschimese e quella precolombiana… fu l’arte senza tempo che esorcizzava la coscienza buonista del loro tempo.
Ora vediamo quali nuovi artisti erano avvezzi a stimolarsi con la magia dell’esotismo, cioè amavano e collezionavano tali feticci magici per “ispirarsi”, copiandoli e diffondendo “novità” feroci.
Nel 1984 ebbi un inciampo fortuito: assistetti a New York, al Museum of Modern Art, ad una esposizione, per me sconvolgente e rivelatrice, dal titolo “Primitivism in 20th Century Art”, curata dal celebrato critico e collezionista William Rubin; in quell’occasione scoprii da dove i “rivoluzionari” artisti e intellettuali, campioni avanguardisti del primo Novecento, “mulinarono” (con sospette coincidenze) le loro natività-novità, come si evince da opere di: Guillaume Apollinaire***, Constantin Brancusi, George Braque, Carlo Carrà, Max Ernst, Alberto Giacometti, Paul Klee, Ernst Ludwig Kirchner, Fernand Leger, Henri Matisse, Henry Moore, Max Pechstein, Pablo Picasso, Ernest Emil Nolde, Max Weber, Tristan Tzara… e chi più ne ha più ne metta.
Attenzione ad allinearsi al mercato: non è strano che artisti civilizzati, ma transavanguardisti ottocenteschi, per affermarsi e fare un’arte colta dovettero rapinare lo spirito di artisti mai esistiti, mai venduti come creatori di opere d’arte e concentrati alla fine del mondo?
Il postmoderno 1874-1992, archetipi, mode, copie, con domande e risposte a Gino De Dominicis
* Post-Moderno: si cita per la prima volta 1870, data riportata in un testo di Johannes Willem Bertens, Hans Bertens e Douwe Fokkema dal titolo: “International Postmodernism: Theory and Literary Practice”. Intendo per Post-Moderno il periodo che intercorre tra la mostra degli Impressionisti, del 1874, a Parigi, e quello della mostra del 1992 Post-Human di Jeffrey Deitch, al Museo di Arte Contemporanea di Losanna. Devo sottoscrivere le conclusioni che l’autore Alan Kirby trae nel suo saggio “The Death of Postmodernism and Beyond” definendo il postmoderno anche come “pseudo-modernismo”.
** Prima di tutto stabiliamo che per esempio l’Arte Africana e quei manufatti primitivi, da noi così celebrati come articoli artistici etnici, non sono prodotti da considerare ad “arte” poiché tali totem, tutelati dagli autoctoni come energie dei sacri numi di antenati, furono meramente concepiti come idoli ritualistici per manifestazioni cultuali di devozione animistica.
*** Tutte le immagini di questo gruppo di artisti, e quelle raccolte nel video, sono riprese dai volumi editi da The Museum of Modern Art, New York, del 1984 dal titolo: Primitivism in 20th Century Art. Inoltre l’audio presente nel video raccoglie una miscellanea di interviste a Gino De Dominicis sono state trasmesse da Mediaset e dalla Rai, e in più l’opera acustica di Gino “Risata continua.