Quindici opere raccontano le ricerche pittoriche di Manazza nella mostra “To be color”, curata da Massimo Mattioli nello spazio Startè
Oltre ad essere – anzi, lui forse oggi direbbe “prima di essere” – da decenni prestigiosa firma del Corriere della Sera, e fondatore e riferimento di ArtsLife, Paolo Manazza è un pittore. Non qualcuno che dipinge: proprio un pittore. La pittura, quella che esce dai suoi pennelli e spatole, oggi lo accompagna in ogni momento della giornata, e monopolizza i suoi programmi e progetti. Uno di questi lo porta oggi a raggiungere il Levante Ligure: e non per una villeggiatura anticipata, ma per mettere in mostra le sue opere.
È lo spazio espositivo di Startè, nella centralissima Piazza Europa, a La Spezia, ad ospitare la mostra To be color, curata da Massimo Mattioli. Con una quindicina di dipinti che sono – come dice il titolo – una serie di sinfonie dei colori, iscritte nel DNA dell’artista e variamente arrangiate. Direttore d’orchestra, Paolo Asti, l’attivissimo presidente dell’associazione Startè, recentemente curatore della mostra L’eterno in divenire dello scultore Roberto Rocchi all’Adi Museo a Milano. Noi anticipiamo il testo critico scritto per l’occasione da Mattioli…
“Ogni colore si espande e si adagia negli altri colori, per essere più solo se lo guardi”. Nonostante siano anni che cerco idee da tradurre in parole davanti a una pittura che mi entra con tanta forza nelle retine e poi nelle viscere come quella di Paolo Manazza, ancora non riesco ad andare oltre a queste, di parole. E del resto le prendo a prestito volentieri, visto che sono di un genio come Giuseppe Ungaretti.
Quando scrivo di un artista, mi riprometto sempre di avere davanti agli occhi solo le opere con le loro qualità intrinseche. Dimenticando chi è l’autore, tralasciando il contesto in cui opera e le suggestioni che inevitabilmente, magari subliminalmente, ne trae. Forse affascinato dal ricordo del gruppo Zero, che alla fine degli anni cinquanta allestì a Dusseldorf una mostra con opere prive di firma e di targhette. Perché il pubblico doveva guardare soltanto i lavori, valutare quelle forme, quelle scale di bianchi, senza farsi influenzare da nomi, titoli, anni.
Una chimera. Tutti quelli che si sono occupati dell’opera di Manazza hanno quindi – prima o poi, anche il sottoscritto – inevitabilmente citato richiami ora all’Espressionismo Astratto americano, ora al Color Field, ora all’Informale o al Neoespressionismo tedesco. Individuando le sua specificità, la sua metabolizzazione dei codici, la dimensione esistenziale e spirituale. Io stesso mi ero rassegnato ad esplorare ancora queste temperie: ipotizzando una oggettivamente manieristica definizione di “neo-irascibile”, che ora accantono. Non perché non sia convinto che nei suoi dipinti ci siano segni di grande originalità: egli riesce a coniugare le morbide sinfonie cromatiche del New Dada e del Color Field con una gestualità quasi violenta, con un prevalere del segno sulla materia, senza però che questi annichiliscano quelle. Un po’ più avanti di Rauschenberg, senza arrivare a Motherwell.
Ma le accantono, queste riflessioni. Perché sono convinto che come i dadaisti, che rifiutavano l’estetica come un giogo che schiaccia la libertà creativa, Manazza intuisce lo stesso pericolo e lo esorcizza con i suoi colori, evitando gli esercizi formali, il culto del bello, dell’armonia, del definito. Ma soprattutto perché ormai so che le risposte a tutti questi dilemmi si hanno soltanto varcando la porta del suo studio. L’odore – o per qualcuno il profumo – che regna incontrastato è quello dei tubetti di olio. Spatolate di colori sono sui muri, sul pavimento, addosso alle lampade, anche nei posacenere. Troverai ciotole dove lui prepara i colori anche in bagno, anche sui comodini.
Perché lui davanti a una tela “diventa” colore, pensa come un colore, parla con gli altri colori, accordandosi sul dove e come incontrarsi. “I colori parlano da soli, fra di loro, due o tre per volta, o tutti insieme”, ha scritto Piero Dorazio. “Se fuori dalla finestra ci sono delle nuvole o c’è il sole, loro se ne infischiano, si trovano bene fra di loro, nei posti che sono stati assegnati”. E oggi Paolo vive per assegnare i posti giusti…