In tempi di virtualizzazione selvaggia, la scultura, in ragione della sua materialità e tridimensionalità, è sempre più un’arte necessaria. Di questo, e di altro, abbiamo parlato con lo scultore altoatesino Flavio Senoner in questa trentunesima puntata di progetto (s)cultura
Vivi e lavori a Ortisei. Sei molto legato ai tuoi luoghi?
Sì certo, sono cresciuto a Ortisei e ho le mie radici in mezzo alle montagne. La trovo un luogo adatto a lavorare concentrato. L’ambiente in cui si vive influenza chiaramente anche il lavoro.
A tal proposito, mi risulta che hai studiato a Firenze, a Milano e infine a Londra alla Barnet Art and Design High School: cosa ti è rimasto di tali esperienze?
Queste esperienze mi hanno aperto gli occhi sul mondo in cui viviamo, in cui viviamo adesso. Mi hanno aiutato a sentire lo “Zeitgeist”. Una piccola valle racchiusa dalle montagne può chiudere, a sua volta, anche la mente. È forse questa la ragione dell’esigenza che ho avvertito di scalare le montagne e di godermi la vista di un paesaggio più vasto.
Oggi, tra gli scultori gardenesi, sei uno dei pochi a praticare un’arte astratta. È stato così sin dall’inizio? Puoi parlarci dei tuoi primi lavori?
Qui di fronte allo studio ci sono due nudi in bronzo a grandezza naturale: vengo da una formazione classica, sono partito con la figura, l’ho approfondita tanto. Poi, piano piano, le forme hanno cominciato a semplificarsi. Penso che tale passaggio all’astrazione sia naturale. Tanti artisti l’hanno fatto.
Nelle tue opere recenti la scultura si appiattisce, acquista caratteri pittorici, quasi diventa superficie: segno della sua prossima scomparsa?
La sento quasi filosofica la tua domanda; certo, cosa rimarrà alla fine? Sono fiducioso e spero di avere ancora un po’ di tempo a disposizione… In realtà diverse opere, pur essendosi appiattite, rimangono materiche; la terza dimensione si riduce, ma resiste. In fin dei conti a decidere di un’opera è la qualità della composizione: o c’è o non c’è.
Lo chiedo perché, in tempi di virtualizzazione selvaggia, la scultura, in ragione della sua materialità e tridimensionalità, è tra le arti una delle più penalizzate.
Sì, ma è proprio il nostro mondo digitale e virtuale a rendere la materialità della scultura necessaria. Toni Cragg ha da poco inaugurato una mostra dal titolo “Please Touch”. Credo che il suo invito meriti proprio di essere ascoltato.
Come nasce una tua scultura? Progetti tutto sin nei minimi dettagli o cambi spesso i tuoi lavori in corso d’opera?
Parto con un’idea, un’intenzione razionale; e tuttavia, perché il lavoro mi gratifichi, è necessario un passaggio dalla mente al cuore che deve realizzarsi in corso d’opera.
Sei lento o veloce?
Costante, ma lento.
Dei contemporanei, c’è qualcuno cui guardi con particolare attenzione?
Mi colpiscono gli artisti che, con testardaggine, hanno il coraggio di percorrere la propria strada senza lasciarsi distrarre. Mi viene in mente Pierre Soulages, pittore francese che al compimento dei suoi 100 anni (nel 2019) ebbe a dire: “scopro tutti i giorni qualche cosa di nuovo nella mia pittura”.
E tra i moderni, e gli artisti del passato?
Quando avevo vent’anni ero pazzo per le sculture di Donatello che trovavo al Bargello. Col passare del tempo, ovviamente, le preferenze si moltiplicano. Gli artisti cui guardo con attenzione sono tanti, per esempio tutto il movimento “ZERO” tedesco e olandese.
Hai realizzato molti lavori d’arte sacra. Arte sacra, se non ricordo male, è anche una disciplina che hai insegnato all’Accademia di Brera. Qual è il tuo rapporto con il sacro?
Ho lavorato tanto nel sacro. Dare forma a un arredo liturgico in una chiesa del ‘700 è una grande sfida; bisogna conoscere il significato di un ambone, di un altare. È bello il confronto con il sacerdote, l’architetto, un po’ meno con le sovrintendenze (perché di regola loro vorrebbero che non venisse apportata alcuna innovazione!). Lavorare in questo mondo mi rallegra. Tra l’altro, sovente il pubblico avverte le mie opere astratte circondate da un’aura di sacralità.
È da poco uscita la lista degli artisti ospiti al Padiglione della Santa Sede alla Biennale. Pare che il tema, coerentemente all’impostazione della mostra del curatore, sia la vicinanza agli ultimi. Certo prima di parlare bisogna vedere; non credi, tuttavia, che una tale prospettiva rischi di appiattire la fede a propaganda, sia pure a fin di bene?
Ho difficoltà a dare un giudizio. Non avendo ancora visto niente, mi astengo.
C’è una tua mostra, o una tua opera, che ritieni memorabile e di cui vorresti parlare?
Sicuramente la mostra che tenni nel Mondrianhouse and Museum Flehite in Olanda. Piet Mondrian in Olanda è l’artista “par exellence” e poter esporre nella sua casa natale mi diede molta soddisfazione.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Al momento sto lavorando a un arredo liturgico in marmo per una nuova chiesa a L’Aquila; sono quasi giunto alla fine. Poi mi dedicherò alla mia prossima personale, che terrò in Toscana alla Galleria Gagliardi.