Tre visioni differenti, dall’intimo al pubblico, attraversando i concetti di identità e – soprattutto – lo spazio, dalla città alla vetrina: i “paesaggi” di Kronenberg, Braco Dimitrijevic e Amy Bravo, a Milano
Sul Naviglio Pavese all’altezza dei primi numeri di via Ludovico il Moro, in direzione centro città, c’è un billboard appeso al ponte di ferro della ferrovia suburbana – perfetto quadro a incorniciare un paesaggio che ricorda ancora quella città che saliva, bruciando di passione, e le nebbie della Mala Milanese d’altri tempi. Su un fondo bianco due messaggi e due volti: “Non ci sono errori nella storia. La storia stessa è un errore” e “Ogni energia si trasforma in immagine”. Un intervento firmato dall’artista Braco Dimitrijevic, che apre una fessura per un’altra dimensione laddove potrebbe esserci una qualsiasi normalissima pubblicità: Quale storia è un errore? Quali energie si fanno immagine? Lontani dal contesto consumistico che ha consumato Milano l’energia qui si è fatta settantaventidue, spazio ben più che ibrido e molto più che “interdisciplinare” fondato da Alessandro Scotti il cui programma d’arte è curato da Nicola Mafessoni di Loom Gallery con Daniel Marzona, ma anche area musicale, pop-up dello studio d’architettura di Cesare Leonardi e di Studio L’Arengario. Uno spazio che a Milano mancava e che ha incontrato il supporto di varie realtà.
settantaventidue, aperto alle sperimentazioni sarà provvisto anche di un angolo-residenza e avrà, prossimamente, anche una camera oscura dove gli artisti invitati potranno lavorare praticamente site-specific. Già, perché questo nuovo “format” nato dall’unione di più competenze – con le sue vetrine – è decisamente quello che si direbbe una specie di spazio permeabile alla città di memoria futurista, appunto, dove il tram entra in galleria e in dialogo – per questa occasione – con un grande totem di Nam June Paik dei primi anni 2000, riattivato dopo anni.
E dato il tema generale “Fluxus” che ha accompagnato questa apertura anche Hex Record and books, spazio di vinili e musica autoriale all’interno di settantaventidue, ha messo in scena una collezione di produzioni che spaziano dalla musica concreta al genere industry, mentre l’Atelier Leonardi propone una selezione di oggetti dell’architetto.
Un ambiente di complessità insomma, che vuole però essere aperto e libero dai normali schemi che accompagnano il quotidiano di una galleria “qualunque”: un incontro tra la cultura delle arti.
La seconda vetrina è quella di Renata Fabbri, in via Stoppani, zona Porta Venezia, che ospita la nuova personale dell’artista Giovanni Kronenberg. Una mostra che non ha un titolo, come non lo hanno le opere dell’artista, “Per non essere sovraccaricare di immaginario”. Perché in effetti basterebbe una parola, il luogo d’origine di tutti i materiali “trovati” che si incontrano esposti qui per “vedere” idee e paesaggi, antiche attività dell’uomo, per immaginare – appunto – una realtà.
E invece Kronenberg ci presenta frammenti di memorie, li aggancia con cavi d’acciaio (come accade nell’opera che funge da porta d’ingresso alla mostra) lasciando l’installazione libera di crescere e modificarsi sia in potenza che nella realtà – dipendendo dallo spazio della sua esposizione.
Kronenberg, si legge nel testo che accompagna la mostra, “reinserisce nel contemporaneo prodotti che lo sviluppo civile, sociale o industriale dell’uomo ha estromesso dalla sua evoluzione”. Nonostante siano ben lontani dal poter essere considerati ready-made, le “sculture” dell’artista si pongono come combinazioni per accedere ad altre forme di realtà, in perenne bilico sulla questione dell’identità: cosa potrebbe essere? Cosa vuole raccontarci? E perché proprio qui, ora?
Ma se nell’oggettualità il nostro pensiero – seppur ingannato – trova un’attinenza con il mondo del sapere, alle pareti Kronenberg aggiunge una serie di figure indecifrabili, disegni astratti e dai colori spesso contrastanti tra loro, dai fondi quasi oro – icone, addirittura? – i cui soggetti sono “quasi” geometrie che interpongono tra le loro sagome e il nostro sguardo un velo respingente: è il risultato mancante di un’operazione che la coscienza cartesiana scopre indefinita, incerta. Come del resto lo è, eternamente, la ricerca dell’arte.
L’ultima vetrina è invece in pieno centro: Foro Bonaparte 52, sede della galleria Poggiali.
Qui, oltre il vetro, è possibile scorgere l’universo della giovanissima Amy Bravo. E, perdonateci l’umorismo facile, la ragazza (di origini italo-cubane) è piuttosto brava.
E su questa parola Amy costruisce una serie di avatar identitari che giocano con il suo cognome, che in latino significa “eroe”, “valente”, mentre nel Medioevo bravo era il “cattivo”; in lingua ispanica bravo invece, dipendendo dal contesto, può essere tradotto come “feroce”, “coraggioso”, “agitato”.
E infatti le installazioni (impossibili sculture e pitture oltre lo spazio) di Amy Bravo sono combattive, eroiche…e fragili.
“Congratulations Hero!!!”, questo il titolo della personale dell’artista – in scena fino al prossimo 23 marzo – parla del tentativo di affermare la propria personalità “ibrida” utilizzando le più differenti tecniche dell’arte: pittura, disegno e assemblaggio di cimeli carichi di portato emotivo. Chi vince, chi perde? Chi è l’eroe e chi è che combatte contro i mulini a vento dell’esistenza? Quanto può essere necessaria la “vittoria” in una partita che si è destinati – senza appello – a lasciare alle nostre spalle?
Un incontro quasi surrealista, e dalla vetrina della galleria l’impressione è di sbirciare proprio in un archivio emotivo, dove amazzoni, rose e frecce che fanno capolino da costruzioni che ricordano pale d’altare o ostensori, mostrano le più sinuose dimensioni di un patrimonio ereditario e identitario, culturale e sentimentale.