Il resto di niente, allestita nelle sale del Museo Madre di Napoli fino al 29 luglio, si configura come una mostra collettiva dedicata alla relazione tra i contesti architettonici napoletani e le esperienze identitarie che li abitano.
Che rapporto c’è fra i contesti architettonici e le esperienze identitarie ed emotive che li abitano? E’ la domanda che si sono posti Sabato De Sarno (1983), direttore creativo della casa di moda Gucci, Eva Fabbris (1979), direttrice del Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina (Madre) di Napoli, e Giovanna Manzotti (1988), assistente alla curatela e alla ricerca per la produzione di progetti legati all’arte contemporanea e alla performance. Una possibile risposta a tale quesito trova una corrispondenza concreta nella mostra intitolata Il resto di niente, allestita nelle sale del Museo Madre, in via Luigi Settembrini, fino al 29 luglio, dove le diverse esperienze di De Sarno, Fabbris e Manzotti, hanno dato vita a un interessante percorso espositivo che vede protagonista la città di Napoli. E’ una riflessione che trae ispirazione dall’omonimo romanzo Il resto di niente, di Enzo Striano (1927-1987), che narra delle possibili trasformazioni sociali e antropologiche in un’epoca di fortissimo cambiamento, ai tempi di Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799), con la rivoluzione del 1799 che portò alla nascita della breve Repubblica Napoletana.
La mostra si sviluppa intorno ad un focus di lavori dell’architetto e teorico napoletano Aldo Loris Rossi (1933-2018), che dagli anni Settanta elaborò un discorso estetico e politico radicale sull’architettura e sull’urbanistica della città partenopea. I progetti che concepì, spesso insieme all’architetta Donatella Mazzoleni (1943), coniugavano forme modulari, passionalità espressionista e ascendenze futuriste e costruttiviste, con l’obiettivo di trovare un equilibrio tra la natura e il processo di antropizzazione sostenibile. Analizzando queste costruzioni e le idee che prospettavano, gli edifici sono uno spunto di riflessione sull’abitare e sulle implicazioni affettive. Oltre ai progetti dei due architetti, sono visibili i lavori di altri artisti, di diversa provenienza e generazione, che dialogano fra di loro e, nella loro “bellezza sospesa”, rimandano a immaginari fantascientifici e alla visione utopica del rapporto fra architettura e partecipazione: installazioni, fotografie, modelli, opere sonore, video e sculture luminose, si legano poeticamente alle premesse di quelle visioni.
L’interazione più diretta con questi temi è quella di Tobias Zielony (1974), che ha all’attivo un progetto di ricerca video e fotografico dedicato alle Vele di Scampia a Napoli, e che in occasione della mostra ha realizzato una serie di scatti dedicati ad alcune delle più celebri costruzioni di Rossi e Mazzoleni. Nelle altre sale, gli scatti di Jim C. Nedd (1991), le opere di Vincenzo Agnetti (1926-1981) e Nanda Vigo (1936-2020), artisti di una generazione vicina al periodo dell’architettura utopica, creano dei parallelismi, rispettivamente concettuale e cosmogonico, con il lavoro dei due teorici. I creativi RM–Bianca Benenti Oriol (1987) e Marco Pezzotta (1985), e Domenico Salierno (1967) raccontano dimensioni emotive, dolci e desolate dell’abitare oggi; Giulio Delvè (1984) e Özgür Kar (1992), invece, presentano opere che esplorano il pericolo di sentirsi esistenzialmente intrappolati. Sara Persico (1993) trasla nel sonoro la ruvida dimensione urbana che, Angharad Williams (1986) ritrae attraverso la dimensione impermanente del riflesso su una automobile. Franco Mazzucchelli (1939) concepisce le sue sculture gonfiabili come dispositivi di occupazione dello spazio vissuto e condiviso.
Ad accogliere i visitatori sono i progetti di Rossi e Mazzoleni, presenti in tutte le sale dell’exihibit. “La complessità geometrica e la qualità del disegno, inteso come rappresentazione e definizione formale” caratterizzano, secondo Bruno Zevi (1918-2000), il modus operandi di Rossi. Disegni su carta, lucidi e stampe su radex sono esposti e testimoniano l’indagine sui nuclei abitativi e mega-strutturali dove gli essere viventi coesistevano in un ambiente considerato “organico” per la sua capacità di auto-generarsi attraverso un sistema di moduli e sezioni diagonali sviluppate in tutte le direzioni. Le sue tavole rappresentano una realtà ai limiti della fantascienza, in cui città futuristiche accolgono dirigibili gonfiabili come sistemi di trasporto che collegano unità abitative verticali per l’essere umano. Trai i suoi progetti di “utopie concrete”, come Rossi stesso le definiva, ci sono Materiale abitabile: Città struttura n.1, del 1968, e n.2, del 1973. Ha inoltre progettato, in sinergia con la Mazzoleni, diverse strutture per la città di Napoli, tra cui il primo e secondo lotto della Casa del Portuale (1968-1980), esplorato in mostra con modelli in scala 1:5, e il complesso residenziale di Piazza Grande per il quartiere Ponti Rossi (1979-1989). Nei suoi progetti si rivelano influenze futuriste, in particolare si riferiscono a una “città nuova”, dinamica e monumentale, come quella immaginata da Antonio Sant’Elia (1888-1916), oltre che una ripresa del concetto di “architettura organica” di Franck Lloyd Wright (1867-1959), che mira ad una armonia tra ambiente costruito e naturale.
In questi progetti, la Mazzoleni si è concentrata nella realizzazione di nuclei abitativi polifunzionali che consentono la coesistenza di diverse attività umane, dalle più intime legate allo spazio domestico e privato, a quelle sociali come gli ambienti di lavoro. Osservando i suoi lavori, si vede una città inserita nella natura del paesaggio preesistente, con tecnologie e materiali all’avanguardia per l’epoca. Concepisce le sue architetture partendo dalla morfologia del territorio. I suoi studi interdisciplinari sono stati pubblicati in riviste specializzate e in numerosi libri.
Accanto ai lavori dei due architetti, è collocata su una parete Overshoot 3, una fotografia di Tobias Zielony che racconta la complessità della società in trasformazione. Il titolo dello scatto rimanda alla trasmissione radiofonica su Radio Radicale, a cura di Enrico Salvatori, alla quale Aldo Loris Rossi partecipava regolarmente. Zielony ha analizzato i progetti dell’architetto, come Casa del Portuale e il complesso residenziale di Piazza Grande di Napoli, esaminando come questi edifici sono abitati, vissuti e attraversati a quarant’anni dalla loro costruzione. Dalla foto emerge la libera associazione dei volumi organici e del processo compositivo di Rossi, come le tracce lasciate da chi ci vive, evidenziando l’interazione fra architettura e vita quotidiana. I suoi lavori esplorano l’intersezione tra affermazioni finzionali e documentarie, e indagano il potenziale politico ed estetico, nonché i confini di una autentica auto-rappresentazione.
Nella seconda sala, le animazioni video di Özgür Kar focalizzano l’attenzione sui temi quali l’influenza della tecnologia sull’esistenza umana e, malinconicamente, la progressiva perdita delle relazioni interpersonali e di empatia. Una rete vandalizzata, The Gate, è ritmata musicalmente e visivamente da un ronzìo brulicante di mosche e da note di sottofondo, aprendo a scenari urbani in stato di abbandono. Dall’altro, in un’altra opera, un ragazzo addormentato, Guy under the influence, è rappresentato inerme, immaginariamente schiacciato dall’influenza dei media e avvolto in un pigro mormorio che riproduce confusamente una cantilena intervallata da brevi affanni e frasi indistinguibili in lingua inglese. Nelle sue installazioni video, Kar utilizza il bianco e il nero in maniera sperimentale, animando le sue figure in un loop di movimenti impercettibili e paesaggi sonori. Le sue opere si assemblano nello spazio per funzionare come scene teatrali. Ognuno funge da personaggio che interpreta un proprio ruolo all’interno di una partitura e di una sceneggiatura non lineari.
Il duo artistico RM-Bianca Benenti Oriol e Marco Pezzotta è presente con le due sculture A Shack of Wealth, affiancate ad altre tre opere di nuova produzione, A dog, a car, an epidemic of body lice; RATS, e Il parco, la panchina, la stazione. Si tratta di una serie di ombrelloni con un tavolo rotondo incorporato che circoscrive uno spazio conviviale all’interno della sala del museo. Queste opere, evocative dei lidi estivi, nonostante siano esposte in uno spazio interno, presentano in alcuni casi una calotta storta o ribaltata dove filtra la luce del sole, trasformandosi così da semplici oggetti funzionali a ricordi di una atmosfera. Le due sculture in vetro soffiato, You Make the Program for Life. You Make the Program, sono presentate in chiusura del percorso espositivo. Esse rappresentano due lacrime solidificate che toccano la superficie del pavimento, rendendo visibile un atto di fragilità come il pianto o la commozione in un ambiente esposto allo sguardo altrui. Il duo RM lavora con la produzione di simboli e l’utilizzo di schemi mediatici individuati nella realtà quotidiana.
La sala dedicata ad Angharad Williams accoglie una parte della serie più ampia intitolata Cars, i disegni in scala 1:1 di automobili. Sono il risultato di una meticolosa indagine dell’artista nel suo girovagare per i quartieri di Berlino, dove ha osservato i diversi modelli dei veicoli, intesi come “prismi” che rispecchiano una dimensione che gioca tra interno ed esterno. Le opere offrono una traccia o un “ritratto” parziale e inaspettato della città da angolazioni insolite. Realizzate a carboncino, questi lavori tracciano un profilo sociale della metropoli, catturando le sue storie e la sua umanità. Williams si concentra sulle forme che fungono da schermi protettivi o da filtri per i nostri desideri e per le paure inconsce. I suoi lavori stimolano l’introspezione e la riflessione critica sulle dinamiche che governano le nostre vite e i nostri ambienti.
Accanto ai lavori di Willliams sono visibili le installazioni di Nanda Vigo (1936-2020), che superano i confini disciplinari dell’arte, del design e dell’architettura per avvicinarsi ad una concezione di “opera totale”. I suoi manufatti, infatti, non coinvolgono solo la percezione visiva, ma tutti i sensi concorrono alla definizione di una esperienza che si fa anche fisica. Vicina alle ricerche di Lucio Fontana (1899-1968), lo Spazialismo della Vigo non si limita alla ricerca scultorea, ma cerca di trascendere simili specificità linguistiche, proponendo una ricerca atta ad offrire una esperienza sensoriale totale. A partire dal 1959, Vigo progettò i Cronotopi, presenti in mostra, strutture in alluminio e vetro a forma di parallelepipedo. Il titolo delle opere esplicita le dimensioni di tempo (cronos) e spazio (topos), considerate dall’artista come fondamenti per un viaggio verso l’universo. La serie dei Deep Space, invece, fanno parte le sculture luminose che evocano cosmogonie e disegni astrali. La sua ricerca sulla luce, insieme alla interdisciplinarità, definisce linguisticamente tutto il suo lavoro, rendendolo sempre esperienziale e ambientale, definendo così lo spazio reale e percettivo.
Monumentali e al contempo leggere, le sculture gonfiabili di Franco Mazzucchelli (1939) dialogano in tutta la loro fisicità con i volumi dello spazio espositivo. Le opere Catena, realizzata ad hoc per questa mostra e, Elica, giocano con il perimetro delle sale che le ospitano e ne sfidano i confini. Rievocando una serie di esperienze di “collettivizzazione” che l’artista iniziò dagli anni Sessanta con la sperimentazione di grandi installazioni pubbliche, il gonfiabile Doppio cuscino, collocato all’ingresso del museo, si apre alla sfera della interazione. I visitatori sono invitati ad intervenire direttamente sulla sua superficie con scritte, dediche e disegni. Mazzucchelli è conosciuto per la sperimentazione pioneristica con i materiali sintetici negli anni Sessanta e le installazioni spaziali pubbliche su larga scala. La sua serie più nota è A. to A. (Arte da Abbandonare), e consiste in sculture gonfiabili in PVC, spesso installate e abbandonate presso laghi e deserti prima di essere trasferite in spazi pubblici. L’opera d’arte non è più un manufatto artistico, quanto l’interazione tra ambiente, essere umano e l’oggetto ideato e realizzato dall’artista.
Nella stessa sala delle opere di Mazzucchelli, una portiera di auto dei Carabinieri è accostata a quella della Polizia, un avvicinamento simbolico che riflette sulle modalità di reinterpretazione linguistica e formale di una idea e dei suoi valori. Carazia, di Giulio Delvè (1984), unisce, fino quasi a connetterle, la sfera dei rapporti familiari e quella lavorativa dei corpi di Stato italiani che con i loro veicoli percorrono lo spazio pubblico. Ciò testimonia come la ricerca dell’artista procede come “un pensiero laterale” che ha la capacità di intercettare e condensare in oggetti e situazioni una serie di significati apparentemente scollegati fra loro, aprendo a nuove possibili associazioni. Sospesa tra dimensione collettiva e forte individualità, la ricerca di Delvè guarda alla scultura come esperienza partecipativa, consapevole che l’efficacia del linguaggio artistico sta nel rivelare prospettive impreviste e nuovi modi di pensare, acquisendo un imprescindibile valore sociale.
Nella parete di fondo, prima di accedere alla sala successiva, è visibile l’opera Sigarette e Signore, di Domenico Salierno (1967). Il video fa parte di una serie più ampia, concepite dall’artista per il programma televisivo napoletano “Tele Luna Partenope”. Ad Afragola, in provincia di Napoli, una contrabbandiera di sigarette mette in scena un frammento di vita quotidiana che riflette sull’esistenza, le classi sociali e i ruoli degli emarginati in contrasto con i cosiddetti “signori”. La voce fuori campo di Salierno costruisce un monologo immaginario rivolto ai passanti e al loro coinvolgimento nelle attività cittadine. L’artista lavoro con la pittura, la scultura e il video, utilizzando tecnologie analogiche di ripresa che danno vita ad una serie di “video-riprese”.
Un’opera realizzata appositamente per la mostra è quella di Sara Persico (1993), artista nata a Napoli e che vive a Berlino. Brutal Threshold è una installazione sonora composta da registrazioni vocali e campionamenti acustici raccolti dall’artista a Tripoli, in Libano. L’arte sonora è una forma di arte che plasma e modifica lo spazio, simile a quanto fa l’architettura con i suoi elementi costruttivi. Le registrazioni sono riprodotte da due altoparlanti allestiti in una scala del museo, all’ingresso dell’esposizione. Gli audio si fondono e si sovrappongono, creando sia dissonanza, sia armonia, offrendo allo spettatore una esperienza immersiva. Nella sua ricerca, Persico ha sviluppato una tecnica che integra la sua voce con elementi elettronici e registrazioni sul campo.
Un altro artista che si cimenta con il mezzo fotografico è Jim C. Nedd (1991). La sua pratica accosta momenti di vita quotidiana ad elementi onirici catturati nel reale. Egli trasforma le scene e i paesaggi che lo circondano in opere che rievocano ed intrecciano temi ricorrenti, spesso ispirati a memorie ed esperienze collettive. La fotografia in esposizione, intitolata Fuorigrotta #2, è stata scattata nell’omonimo quartiere a Napoli, il 3 giugno 2023, mentre la città festeggiava la vittoria dello scudetto della squadra di calcio locale. La foto immortala l’ombra di un gruppo di persone esultanti con una bandiera alzata e sventolante, evocando una coreografia spontanea e condivisa. Nedd agisce in uno spazio creativo che si snoda tra finzione e fotografia documentaria. Realizza immagini con una visione illusoria e carnevalesca, creando storie visive di energia e identità, ritmo e rapimento, scintillio e grinta.
Chiude il percorso espositivo l’artista Vincenzo Agnetti (1926-1981). All’inizio degli anni Settanta risale la serie dei Feltri: consistono in pannelli incisi a fuoco o dipinti con del colore che recano parole e frasi poetiche. Spesso si tratta di aforismi diretti e paradossali che infondono ai feltri un tono esistenziale, connotandoli come autoritratti, ritratti, paesaggi o situazioni. Queste opere indagano la natura e il funzionamento del linguaggio e la scelta del tono impersonale delle dichiarazioni. Agnetti propone un nuovo modo di interagire col pubblico. In quanto artista concettuale, l’uso della parola e del suo codice espressivo nella sua pratica riporta l’arte ai suoi valori essenziali, fino a farla diventare essa stessa idioma. Tra i massimi esponenti dell’arte concettuale italiana, Agnetti muove le prime esperienze nel campo della pittura informale degli anni Quaranta. Nel 1962 si trasferisce in Argentina dove lavora nel campo della automazione elettronica. Nel 1967, tornato in Italia, inizia una riflessione profonda sul significato stesso di produrre arte e sulla sua relazione con l’idea, il pensiero e il concetto, piuttosto che con l’abilità tecnica o di una ricerca estetica accademica convenzionale.
Questa mostra, Il resto di niente, arricchisce i visitatori con nuovi spunti di riflessione, dove si osserva la città di Napoli come una metropoli mediterranea che sta reinventando una narrativa con cui concepirsi e raccontarsi, con nuove scene e nuove stereotipie.