Ci troviamo a Venezia, in un pomeriggio di dicembre, nel cuore del Castello, in un angolo dove il flusso dei turisti rallenta, e possiamo alzare lo sguardo, respirare e perderci in una storia diversa, in un’immagine. Lo Spazio SV – San Vidal ospita la prima personale di Cinzia Laliscia, Breathe, You Say, un invito a rallentare e, con coraggio, per quanto oggi sembri arduo, semplicemente respirare.
Curata da Silvia Previti, questa esposizione raccoglie la fotografia intimista di Laliscia e la incastona nell’architettura veneziana, come fosse una quieta mappa del ritorno, un’indagine sui legami tra noi e il mondo che scorre oltre il vetro di una finestra.
La mostra è un atto di resistenza nel modo più onesto, quasi involontario. Invece di affermarsi con clamore e cercare attenzione, le immagini si fanno eco di una storia che appartiene a Laliscia, ma risuona per molti. Perché Breathe, You Say è un invito, una richiesta che quasi sussurra: “Respira, per favore, solo un secondo. Guarda, e respira.”
Breathe, You Say si snoda in due atti, come un racconto che passa dalla casa dell’infanzia a un rifugio verde, in una mappa di luoghi perduti, ricordati e quindi immaginati. Il primo atto, Finalmente posso andare, nato nel 2020, è un viaggio che inizia in luoghi familiari, ma ormai divenuti estranei: il passato affiora, filtrato dalla luce tenue di Laliscia, che colleziona ombre delicate, gesti minimi e, in tutto questo, recupera l’assenza, la perdita. Ci sono scatti che raccontano una casa, non con la precisione di un inventario, ma con il rispetto di chi la vive attraverso il tempo. Ricordi? Forse. Echi? Sicuramente. E quella finestra su cui scivola la luce, un dettaglio quasi inaudibile, diventa memoria cristallizzata. Laliscia riesce a farci vedere il passato nel presente, come se il tempo potesse piegarsi in una forma più tenue, in cui la perdita e la presenza si mescolano.
Il secondo atto, dedicato al progetto più recente e in corso, è una fuga nei ritmi lenti della natura, che sembra dire: “Resta ancora un po’.” Qui, nei dettagli più minuti – un filo d’erba scosso dal vento, il tronco di un albero che sembra aver vissuto più di chiunque – Laliscia costruisce un rifugio visivo, un angolo di quiete. Non è un’immagine patinata né una cartolina idilliaca da conservare, è piuttosto un diario che esplora la natura come fosse un mondo da ascoltare, come se davvero potessimo fuggire il rumore e ricominciare a vedere.
Se a volte sentiamo che l’immagine si è staccata dalla sua funzione, qui Laliscia sembra ricordarci che fotografare è, in fondo, un “atto di attenzione”, come sosteneva Susan Sontag. Non è solo un modo per fare memoria o documentare il reale, ma un esercizio che restituisce respiro all’atto di osservare. In questo invito alla lentezza, Breathe, You Say non si limita a fermare un istante: è una piccola lezione su come rallentare e non lasciare che il mondo ci scivoli via senza essere vissuto.
La fotografia di Cinzia Laliscia non urla. Non esige un posto nella tua testa, ma si deposita lì come un granello di sabbia che trovi nella tasca molto tempo dopo una giornata in spiaggia. Ti porta a chiederti se esiste ancora un ritmo che non divori, un tempo che non spinga oltre, ma trattenga, in un presente che si fa rifugio. Un modo per, in fondo, semplicemente respirare.