Che ne dici se iniziamo questa chiacchierata dalla fine? Dagli ultimi tuoi lavori, l’India.
Sono stato in India tre volte recentemente, l’intento dei miei viaggi era di trovarmi là dove succedono situazioni inaspettate, e lasciarmi sorprendere. In India mi sono trovato improvvisamente in un contesto talmente spiazzante da rivelare come ciò che pensavo di cercare in realtà era solo la superficie, e non quello che realmente pensavo di star cercando, che è un po’ il percorso che faccio nel mio lavoro, da sempre.
Quanto tempo ci hai messo a smettere di cercare e lasciare che le cose si rivelassero?
Minuti. Si parla spesso dell’India e di quanto sia caotica, ma io credo sia solo un’apparenza, presto realizzi che tutte le cose si ripetono tutti i giorni allo stesso modo, in un loro ordine interno, che è tutt’altro che caos. Tutto succede insieme, vita e morte. Ho trovato un’umanità davvero incredibile, nessuno si nasconde cercando di reprimere o di misurare l’espressione dei sentimenti, ma c’è un profondo accettare la realtà, e le cose che toccano tutti finiscono per toccare anche te, creando una dimensione di incontro per cui si accoglie tutto ciò che si vive e che succede, anziché cercare. Ritengo sia un tipo di esperienza che cambia l’apparato percettivo: improvvisamente trovi il bello anche e soprattutto dove meno te lo aspetti, e non fai fatica a vederlo sebbene tu sia circondato da ciò che spesso si considera essere l’opposto del bello. È un qualcosa che ha anche del tragico dentro, nel senso vero della tragedia e non nel senso spesso banale che intendiamo oggi.
Guardando le tue immagini, sfogliandole in serie, ho avuto la sensazione che fosse una archivio di storie di cui non conosco i protagonisti. Mi immagino persone che attraversano i luoghi che fotografi, anche se non so cosa siano. Ora sto pensando al corridoio con gli archi che si incrociano, creando giochi di luci.
Molto bello, sì, in effetti non ho mai pensato al racconto di una storia, però in effetti ce n’è una in tutte le mie immagini. Questi luoghi, o la materia di questi luoghi, denotano sempre un accumulo di cose successe e di intenti, se vuoi. L’immagine che menzioni è emblematica: è uno spazio distaccato sopra una moschea, è un luogo privato per quello che era il re dove andava a meditare. Il nome di quel luogo significa labirinto, perché è un luogo dove entri con lo scopo di perderti, forse perché solo così poi ti ritrovi. L’idea di questi superfici così curve e arancioni, hanno un calore e una sensualità quasi organica, non è uno spazio che raffredda, austero, bensì è vivo, eppure fuori dal tempo, è un luogo totalmente metafisico.
Cosa ti ha portato a passare da scatti orizzontali a verticali?
Lo scatto verticale diventa una sorta di soglia e dove puoi decidere se entrare o meno, o se fermarti sulla soglia stessa, ma comunque è un’estensione di uno spazio. Inizialmente scattavo quasi solo orizzontale, che è molto più legato alla fotografia in senso storico o tradizionale, mentre il verticale smette quasi di essere paesaggio e diventa una presenza, un incontro. Dico sempre che le mie immagini vanno viste dal vivo perché anche le grandi dimensioni, quasi ad altezza uomo, giocano un ruolo fondamentale nella fruizione e nella percezione stessa di essere dentro un’immagine autosufficiente, non danno mai la sensazione che ci sia qualcosa di fuori dall’inquadrato, e diventa un’esperienza fisica e non solo visiva, anche perché un forte contrasto tra l’alta definizione dei dettagli, che te la fanno percepire come materiale e la componente astratta dell’immagine stessa.
Devo essere sincera, sarà che mi piace sempre immaginare cosa possa succedere fuori dal riquadro, ma non ho avuto questa sensazione di autosufficienza.
È curioso, perché ho già avuto questa conversazione in passato, e secondo me è proprio un fatto empirico: devi trovarti davanti alla stampa per capirlo. Credo succeda perché è un modo diverso di fruire dell’immagine da come siamo più spesso abituati, quindi online e in piccole dimensioni, che compattano moltissimo i dettagli e portano a vedere più un’immagine fotografica che a fare un’esperienza di fruizione piena. Citando Cartier Bresson, spesso pensiamo alla fotografia come un captare, fermare un attimo e renderlo eterno, il famoso “momento decisivo”, ma io non ho mai avuto veramente questo tipo di interesse, anzi, ho sempre pensato che fosse una cosa più adatta al cinema.
È molto interessante questa prospettiva sul raccontare una storia senza però sentire la necessità di cogliere l’attimo. Ci sono molti contrasti che mi colpiscono, come il fatto che siano fisiche e astratte allo stesso tempo, o il rapporto tra il caos e la quiete, e infine come siano scatti estremamente estetici, ma anche spirituali.
Per me l’estetica, il bello, è qualsiasi cosa che tende a un’armonia, è una manifestazione dell’ordine che si immerge dal caos, il punto di incontro fra i due mondi, in senso classico. Il post moderno ne è l’opposto di questo, oggi l’estetico è visto quasi con negatività perché seduttivo, ma per me è una cosa che si manifesta all’interno del caos con una luminosità pazzesca, e dove meglio che in India, dove tutto è in uno stato di semi decomposizione? Ovunque tu guardi trovi dei piccoli templi, niente più di qualche roccia colorata e dei fiori che bruciano, ma tutti ci prestano grande attenzione, sono una presenza continua che permettono un costante passaggio tra mondo e spirito, con una prospettiva che è sempre ricca di dimensione religiosa e che aiuta a cedere le cose in una forma e immagine più ampia. Non è una dimensione, diciamo, decorativa. Una cosa che mi ha colpito molto in India è che l’estetica che gioca molto con la ripetizione, perchè è la cosa che ci avvicina di più all’idea di infinito, ma è presente sempre con variazioni, non è mai una cosa rigida e meccanica, ma un’infinità di variazioni all’interno di tutto è una ripetizione non di astrazione pura cristallina, ferma ma piuttosto in movimento. Vedo l’estetica come una cosa viva.
Nato a Belgrado nel 1965 in una famiglia di artisti, Ljubodrag Andric ha mosso i suoi primi passi nell’arte e nella fotografia all’età di 15 anni. Ha studiato lettere presso l’Università di Belgrado e si è dedicato interamente alla fotografia dal 1987. Il suo lavoro è stato esposto per la prima volta all’età di 23 anni presso la galleria del Museo di Arte Contemporanea di Belgrado. Nel 1987 si trasferisce in Italia, dove pratica con successo la fotografia in studio per 15 anni, sia a Roma che a Milano. Nel 2002 si trasferisce in Canada e gradualmente si dedica alla sua unica pratica artistica. Cittadino canadese, italiano e serbo, il fotografo risiede attualmente a Toronto, in Canada. Il suo lavoro è stato ampiamente esposto in musei, gallerie, festival e fiere d’arte contemporanea in tutto il mondo. Una monografia del suo lavoro è stata curata da Demetrio Paparoni, nel 2016, e pubblicata da Skira (Milano, Italia). Ljubodrag Andric è rappresentato da Nicholas Metivier Gallery, in Canada, Robert Koch Gallery, San Francisco, negli Stati Uniti, e Building Gallery a Milano, in Italia.