
Iniziamo oggi una nuova rubrica dedicata alle voci più underground della cultura visiva di oggi, molto spesso “tangenti” alle pratiche più comuni ma, simultaneamente, più vicine ad altri universi che mantengono vivo l’humus di quelle che vengono identificate come “sottoculture”. Il primo protagonista di “Underground, ma non troppo”, a cura di Marco Boldini, è il giovane Marco Cesari. Buona navigazione nei (veri) mari agitati della scena contemporanea!
Nel sottobosco dell’arte contemporanea esistono figure che sfuggono alle definizioni tradizionali e si muovono su un confine sottile tra progettazione, sperimentazione e istinto creativo. È in questo spazio liminale che opera Marco Cesari (Ferrara, 1993), artista, designer del verde, ma anche skater. La sua ricerca unisce due mondi apparentemente distanti – la botanica e la subcultura punk/skate – dando vita a opere che esplorano nuove forme di rigenerazione ambientale in linea con movimenti che hanno unito natura e contesto urbano (dalla Land Art all’eco-art).

Da sempre affascinato dal mondo botanico, Cesari si dedica alla coltivazione e alla progettazione del verde.
È però il contatto con la cultura skate – che fa della riappropriazione degli spazi urbani e dell’autogestione un valore fondante – a spingerlo verso luoghi abbandonati o marginali. Non si tratta soltanto di trovare nuovi spazi per praticare acrobazie sulla tavola: quelle fabbriche dismesse, con il loro ferro, il loro cemento, i loro vetri rotti, diventano laboratori di sperimentazione dove la sensibilità botanica si intreccia alla filosofia “punk”. L’influenza skate risulta evidente anche nel modo in cui l’artista progetta gli spazi, adottando una logica simile all’autocostruzione di rampe e skatepark: un approccio dal basso, in cui la cura per i materiali e la capacità di trasformare ciò che è in disuso emergono come atti quasi politici. Ecco che il desiderio di vedere alberi e piante crescere dove un tempo si trovavano solo cemento e ruggine si traduce in un’attenzione costante alla sostenibilità e alla rigenerazione, elementi cardine del suo lavoro. Nel 2017 fonda The Mosshelter, primo laboratorio italiano dedicato ai terrarium, dove realizza installazioni che fondono organismi vegetali con metalli arrugginiti, componenti elettroniche e materiali di recupero, trasformando le ferite del metallo in superfici fertili e promuovendo un’idea di sostenibilità e rigenerazione urbana.
La sua pratica artistica dimostra come la natura possa riappropriarsi di spazi e materiali obsoleti, ribaltandone il destino. A livello sensoriale, le installazioni di Marco Cesari sono spesso immersive: l’odore di umidità, il vapore acqueo, le superfici ruvide del ferro corroso e la morbidezza del muschio offrono un’esperienza tangibile di come il verde possa intrecciarsi a un contesto duro, industriale. Nel 2022, con RIGENERAZIONE. Colonizzare le macerie (Ferrara), Cesari interviene in un’ex distilleria abbandonata, dove enormi cilindri di vetro e tubi simili a dendriti dialogano con alghe e macchie verdi, richiamando un organismo parassita che invade le rovine.

Un anno dopo, nel 2023, la poetica del recupero si arricchisce con Capsule moss purification (Ex Cartiera, Marzabotto, Bologna), in cui una vecchia cabina telefonica, un tempo usata dagli operai, viene riabitata e sospesa al centro della fabbrica come un santuario di purificazione. Al suo interno, muschi e vapore acqueo creano un microcosmo di aria viva, simbolo di una possibile sintesi tra passato industriale e futuro ecologico.

Infine, nel 2024, a Palazzo Pianetti (Jesi), l’artista e Carlo Chievano realizzano Algae Birth Tank Funeral / Decay Chamber, un’installazione che racconta una nascita semelpara e la successiva decomposizione del corpo generatore: un rituale in cui la fine e l’inizio coincidono, rivelando come il ciclo vita-morte-rigenerazione non possa mai essere ridotto a semplice cornice. In questi progetti, Cesari non si limita a rappresentare la natura, ma la rende protagonista di una trasformazione radicale, dove passato industriale e istinto vegetale si incontrano in un abbraccio poetico e sovversivo.

In che modo la comunità skater influenza il modo in cui concepisci e realizzi i tuoi progetti artistici?
La cultura skate mi accompagna fin da bambino, quando frequentavo aree dominate dal cemento. L’idea di poter trasformare quegli ambienti in luoghi con alberi e piante mi ha sempre affascinato. Quando arrivo in uno spazio dismesso, immagino cosa potrebbe diventare al di là della semplice pratica dello skate. È un processo in cui mi proietto mentalmente, rivedendo l’ambiente in chiave più naturale.
Ci sono artisti o movimenti artistici che hanno influenzato particolarmente la tua ricerca?
Più che nomi altisonanti, mi ispirano le persone intorno a me: i miei amici, i colleghi, chi condivide il mio percorso. A influenzarmi molto è stato anche un giardiniere con cui lavoravo in Australia. Mi ha mostrato un approccio diverso alla cura delle piante: lasciare che le foglie ingialliscano o che la decomposizione faccia il suo corso, perché tutto ciò nutre la vita vegetale. Questo mi ha spinto a superare l’idea di estetica controllata, per abbracciare un concetto di botanica più autentico e circolare.
C’è un messaggio o un’emozione specifica che desideri che chi osserva le tue opere porti via con sé?
Forse l’incertezza, quella lieve ansia che proviamo nel cercare di garantire la sopravvivenza a una pianta. Mi capita di utilizzare oggetti come guanti veterinari o elementi che evocano un’incubatrice, proprio per richiamare l’estrema vulnerabilità dei primi momenti di vita. È un modo per trasmettere l’idea di precarietà, ma anche di cura e speranza. Vorrei che lo spettatore percepisse il legame tra la fragilità vegetale e la nostra responsabilità verso di essa: un’esperienza in cui l’eleganza della natura e la sua precarietà convivono, stimolando empatia e riflessione.














