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Primo maggio: quando il progresso ha il volto degli invisibili

Lunch atop a Skyscraper, pubblicato sul New York Herald-Tribune, 2 ottobre 1932, Charles Clyde Ebbets, Tom Kelley o William Leftwich. Credits: Getty Imagers
Ponte di Brooklyn, 1869-1883, progettato da John Augustus Roebling
L’iconico Ponte di Brooklyn, simbolo architettonico di New York, nel giorno italiano dedicato ai lavoratori, aggiunge un tassello importante sulla tutela e memoria del lavoro sacrificato.

Nel cuore della storia americana esistono immagini e opere che celebrano il genio umano, ma che nascondono anche il sacrificio silenzioso di chi ha pagato un prezzo alto quanto la Vita. Il Ponte di Brooklyn, primo ponte sospeso in acciaio, fu una meraviglia ingegneristica che rivoluzionò New York, ma fu anche un cantiere di morte, dove decine di uomini morirono nell’ombra, vittime della scienza ancora acerba e dell’assenza di diritti.

Inaugurato nel 1883, il Brooklyn fu il primo ponte sospeso in acciaio della storia. Un’opera rivoluzionaria, progettata per resistere a venti impetuosi, traffico incessante e persino ai terremoti. Ma quel capolavoro d’ingegneria – nato da un sogno spezzato e portato avanti con tenacia da una famiglia – è stato pagato con la vita di almeno 27 uomini.

Tutto iniziò con John Augustus Roebling, ingegnere tedesco naturalizzato americano e pioniere dei cavi d’acciaio. Fu lui a immaginare un ponte che avrebbe unito le due sponde dell’East River, allora collegate solo da traghetti instabili. Ma nel 1869, prima ancora che i lavori iniziassero, Roebling perse la vita in un incidente sul cantiere. Un traghetto gli schiacciò il piede, l’infezione che ne seguì gli fu fatale. Una morte evitabile, figlia di un’epoca in cui la sicurezza era una parola sconosciuta.

Ponte di Brooklyn, 1869-1883, progettato da John Augustus Roebling

A raccogliere l’eredità fu il figlio, Washington Roebling, reduce della guerra civile americana, ma anche lui cadde, simbolicamente, sul fronte del lavoro. Vittima della “malattia dei cassoni” – un’embolia gassosa dovuta all’esposizione della pressione nei cassoni subacquei – e rimase paralizzato. 

I cassoni pressurizzati – definiti come la grande novità tecnologica dell’epoca – che permisero di scavare il fondale del fiume, trasformando però, al contempo, il cantiere in un inferno: gli operai lavoravano sott’acqua, in camere chiuse e cariche di aria compressa; uscendo, spesso, si contorcevano dal dolore. Alcuni perdevano l’uso degli arti, altri morivano. Almeno 27 furono le vittime ufficiali. Ma nessuna targa le ricorda, anche se fu grazie a loro che il sogno dei Roebling poté diventare realtà.

Quel sogno di acciaio che è sì ancora oggi un’icona, ma anche un monito. Un monito, proprio come lo è un’altra immagine legata alla storia delle grandi costruzioni americane: Lunch atop a Skyscraper, celebre fotografia che ritrae undici operai seduti su una trave sospesa nel vuoto, a centinaia di metri d’altezza, durante la costruzione del Rockefeller Center. Pubblicata il 2 ottobre 1932 sul New York Herald Tribune, la foto non divenne subito famosa. Fu solo tra gli anni ’80 e ’90, con la diffusione come poster, che si trasformò in simbolo.

Lunch atop a Skyscraper, pubblicato sul New York Herald-Tribune, 2 ottobre 1932, Charles Clyde Ebbets, Tom Kelley o William Leftwich. Credits: Getty Images

Dopo l’11 settembre 2001, quell’immagine assunse un nuovo significato: resilienza, speranza, ricostruzione. Ma anche riflessione. Sulla sicurezza, sulle condizioni di lavoro, sull’anonimato di chi ha costruito l’America moderna. Per decenni, nessuno ha saputo chi fossero quegli uomini. Solo nel 2012 due di loro sono stati identificati. Il terzo, quello con la bottiglia in mano, resta ancora un mistero, come tante vittime invisibili del lavoro.

La foto, e con essa anche la storia del Ponte,  raccontano, di fatto, una stessa, cruda ma attuale verità: la grandezza di un’opera non può prescindere dal riconoscimento di chi, per realizzarla, ha rischiato tutto. Perché in un’epoca in cui si continua a morire sul lavoro, nei cantieri e nei capannoni, queste storie non appartengono al passato, ma sono un’eco del presente, oltre che un appello per il futuro. A ricordare che il lavoro non può essere celebrato se prima non viene prima rispettato.

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