
Fino al 21 luglio il Madre presenta la più ampia retrospettiva museale mai dedicata all’artista Bianca Pucciarelli Menna, al secolo Tomaso Binga
“Ho 94 anni, non mi presento al meglio della forma ma quando ero giovane ero abbastanza carina”, esordisce Bianca Pucciarelli Menna tra l’ilarità generale, in una conferenza stampa gremitissima. Con l’ironia di chi, graziata dalla vita, l’ha attraversata con integrità e leggerezza, planando dall’alto sulle cose per riformularle da prospettiva nuova. A questa importante protagonista della scena artistica, la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee – museo Madre di Napoli dedica (sino al 21 luglio 2025) la più ampia retrospettiva museale mai realizzata, a cura di Eva Fabbris e Daria Khan.
Euforia, questo il titolo, getta luce sugli oltre 40 anni della sua ricerca, mettendo insieme più di 120 opere tra installazioni, fotografie, collage, documenti, testimonianze di performance – molte delle quali mostrate per la prima volta o a decenni di distanza dalla loro prima esposizione – provenienti da musei, gallerie (Tiziana Di Caro, Frittelli arte contemporanea ed Erica Ravenna) e collezioni private.
Nata a Salerno nel 1931, artista, poetessa (i primi versi li scrive all’età di 10 anni per l’amatissima madre, cui fanno seguito le composizioni “escatologiche” piene di sensi doppi e tripli), inventrice di un alfabeto unico al mondo fatto con il corpo, di sé dice: “ho trascorso l’esistenza a cimentarmi nelle cose più stravaganti che mi passavano per la mente”. Tra cui inscenare un matrimonio con il suo alter ego illusoriamente e volutamente maschile per farsi largo in un universo, quello dell’arte, dominato quasi esclusivamente da uomini (uno è suo marito, il noto critico Filiberto Menna.

Da Marinetti, padre della poesia futurista, mutua il nome, salvo tralasciare una delle due “m”. Rendendo così manifesta sin da subito la volontà di non adeguarsi alle forme linguistiche e simboliche della cultura patriarcale. E a quello aggiunge una lallazione, udita da qualche parte da qualche bambino, che trasforma il suono di Bianca. É così che Tomaso Binga irrompe nel bel mezzo della complessa stagione femminista degli anni Settanta, alla quale aderisce in maniera inclusiva, ragionando sulla ri-alfabetizzazione del nostro modo di guardare al mondo e di guardare all’altra e all’altro, concependo la pratica dell’arte come scrittura.
“Ciò che vediamo in questa mostra è un modo di reagire al presente – spiega la curatrice Eva Fabbris. E in questo c’è forse anche un modello per il futuro. L’euforia, la gioia, la pugnace capacità di portare la parola al centro della creazione di un discorso altro, nuovo. Quando Bianca incontra l’artista femminista Verita Monselles si fa fotografare mentre assume con il suo corpo nudo la forma delle lettere dell’alfabeto. Trova in lei la giusta interlocutrice, lo sguardo amico e complice che le permette di denudarsi difronte all’obiettivo della macchina fotografica. Non è in alcun modo un nudo erotico. Si tratta di una nudità che toglie al corpo qualsiasi orpello oggettivizzante, una nudità che trasforma il suo corpo in essenza. Da quel momento in avanti Bianca diventa il corpo della parola”.

A partire dai disegni vivaci e giocosi dei primi anni Sessanta, passando per le sculture in terracotta colorate di piccole dimensioni. Sino ai Polistiroli presentati per la prima volta nel 1972, l’antologica dà conto della vocazione sperimentale dell’arista. A cominciare dall’incontro con un materiale inusuale, come il polistirolo, che si diffonde nella società consumistica degli anni Settanta e che Binga utilizza (o meglio, ri-utilizza con largo anticipo sulla questione ecologica) come strumento di indagine della condizione femminile (i titoli delle opere parlano da sé: Donna al guinzaglio, Donna in scatola, Miss…in posa), riempiendo i vuoti con elementi grafici, fotografie, frammenti di stampe.
Scrittura desemantizzata (1971), una forma di scrittura automatica e illeggibile; Scrittura vivente (1975) dove braccia, gambe, mani e piedi diventano parte integrante di un nuovo alfabeto; Scrittura arrampicata (1976) in cui il corpo si aggrappa a rotoli di carta assumendo la forma di lettere e numeri; fino ai Dattilocodici, stratificazioni di caratteri dattiloscritti concepiti nel 1978 utilizzando vari colori di inchiostro, vedono Binga impegnata in un ripensamento radicale del linguaggio, alla ricerca di un sistema di scrittura che includa, simbolicamente e concettualmente, le donne.

Ma c’è anche la documentazione fotografica della sua prima performance Vista Zero, presentata a Palazzo Comunle di Acireale nel 1972. Una delle prime azioni in Italia ad essere registrata in diretta ed essere trasmessa fuori dallo spazio espositivo. Oltre all’iconica installazione Carta da Parato, presentata per la prima volta nel maggio del 1976 a Casa Malangone, una residenza privata di Roma in cui l’autrice ricopre le pareti tappezzate con la sua scrittura indecifrabile. E il progetto Ti scrivo solo di domenica (1977-78) in cui per un anno, ogni domenica, perché l’unica giornata femminile della settimana, l’autrice scrive a macchina una lettera a un’amica immaginaria.
Val la pena ricordare che sarà Mirella Bentivoglio, figura cruciale nel panorama delle indagini verbo-visuali, tra le prime a riconoscerne il valore. Includendola tra le 80 artiste della mostra Materializzazione del linguaggio, da lei organizzata presso presso i Magazzini del Sale alle Zattere in occasione della Biennale di Venezia del 1978. Una rassegna nata per ovviare alla scarsità di presenze femminili in quella edizione della Biennale e che Carlo Ripa di Meana, allora presidente della manifestazione veneziana, aveva cercato di risolvere convocando d’urgenza e in extremis Bentivoglio, per affidarle la curatela di un’esposizione che fungesse da intervento correttivo, così da evitare le contestazioni del movimento femminista.

Non manca infine la produzione più recente: dall’opera Riflessioni a puntate (1991), progetto realizzato attraverso la distribuzione mensile di 12 cartoline, inviate a 280 destinatari in tutta Italia e all’estero, che affrontano gli eventi globali in frammenti di corrispondenza, all’installazione immersiva Diario romano 1895-1995 (1996), che nasce dal ritrovamento casuale di un diario anonimo di fine Ottocento in un negozio di antiquariato. Sino ad AlphaSymbol #12 (2022) che esplora la ripetizione e l’erosione del significato.
“Un linguaggio sempre declinato al femminile – racconta Daria Khan, che ha co-curato il progetto espositivo. E che ha il merito di aver dato lustro al suo lavoro sul piano internazionale. Nel 2017 l’ho invitata a far parte di una collettiva che ho organizzato a Londra dove abbiamo esibito l’opera ‘Bianca Menna e Tomaso Binga oggi spose’ (1977), alla quale ha fatto seguito, l’anno successivo, la sua personale ‘Una vittoria zittita’ (che è anche il titolo della sua poesia acrostica) presso Mimosa House. A dimostrazione della transculturalità che può essere incarnata dalla sua ricerca. In cui il corpo della donna diventa indispensabile per costruire un nuovo linguaggio, un nuovo mondo”.

L’allestimento dello Studio Rio Grande, che ha lavorato in maniera autoriale, quasi artistica si potrebbe dire, sussumendo dalla pratica di Binga, dalle sue linee, dalla sua giocosità e dalle cromie, diluisce la densità del materiale offerto al visitatore e, rompendo gli schemi, immagina un percorso circolare dove inizio e fine si confondono e contaminano, travasando l’uno nell’altra i rispettivi confini. “Una mostra di ricerca – ci tiene a precisare Angela Tecce Presidente del Museo Madre -. Che si propone anche come momento educativo con visite guidate per adulti e laboratori per bambini. Corredata da un importante catalogo (edito da Lenz Press ndr). Un modo per valorizzare l’arte italiana, oltre che per fare il punto sulla lunga carriera di Bianca. Perché un museo deve essere globale ma al contempo locale, deve saper prestare attenzione anche alle urgenze del territorio”.

“Euforia Tomaso Binga è una mostra ‘necessaria’ come ha detto qualcuno durante l’inaugurazione” – chiosa la gallerista Tiziana Di Caro. A cui va riconosciuto l’impegno profuso negli ultimi 10 anni per valorizzare e diffondere l’opera di Binga. E che la celebrerà, a partire dal 23 maggio, con una personale in galleria dal titolo Io sono Io. Io sono Me. “Ed è un progetto che se da un lato chiude un cerchio, perché racconta la storia di Tomaso Binga dall’inizio alla fine come non aveva fatto nessuno prima di ora, dall’altro apre nuovi scenari, gettando le basi perché questo lavoro possa essere conosciuto dal pubblico più ampio possibile. Sono felice che il lavoro di tanti anni abbia contribuito ad un progetto così importante”.

Nel contesto sociale e culturale odierno in cui la dialettica uomo/donna pare essersi incistata in un dialogo muto, Binga ci insegna la sacralità del femminile. “Un luogo mio e tuo. Un luogo accogliente, perché non mente. Un fiore, che va curato con amore”, recita davanti al pubblico estasiato, con la sua contagiosa energia. Con la postura fiera di chi continua a correre incontro alla vita. Col sorriso. Con Euforia. Con lo sguardo ancora e sempre rivolto in avanti.














