
Quando ci si trova di fronte a una maschera, bisogna subito decidere da che parte stare: da quella dell’antropologo, che cerca nell’oggetto il codice simbolico della tribù; o da quella del collezionista, che nella maschera vede la superficie estetica, l’ornamento; oppure, e questa è l’opzione più complessa, da quella del semiologo, che legge nella maschera il segno di una relazione. In questo senso, MASQUERADE, mostra personale di Nero (al secolo Alessandro Neretti), ci offre un campo di analisi notevole: un corpus di segni stratificati, opachi, mobilissimi, che giocano con la storia, la geografia, la politica e il desiderio.
Nero ha lavorato a Dakar, capitale di un Senegal attraversato da un postcolonialismo ancora vivo e da un neocolonialismo cinese, per certi versi più silenzioso ma altrettanto pervasivo. Dalla sua residenza all’Espace Médina sono nate opere che si pongono a cavallo tra documento e artificio, tra oggetto culturale e sua simulazione. E già qui potremmo evocare Baudrillard, con i suoi simulacri e le sue maschere senza volto: ma sarebbe troppo facile.
Il titolo stesso della mostra – MASQUERADE – è un segno complesso: indica al tempo stesso il travestimento e la rivelazione, la finzione e il cerimoniale, il teatro e la truffa. Come in un carnevale barocco (e mi si perdoni l’accostamento), l’artista non nasconde, ma mostra mostrando che finge. E in questo atto performativo, ogni oggetto in mostra – maschera, fotografia, acquerello, video, scultura – diventa un enunciato polisemico. La maschera africana appesa alla parete bianca della galleria non è un oggetto etnografico: è un oggetto in transito semantico, che ha attraversato l’Atlantico, la storia, il mercato dell’arte, per arrivare a interrogare lo spettatore europeo sul proprio sguardo. Questa è la chiave: lo sguardo. Non l’opera in sé, ma il modo in cui la osserviamo, decodifichiamo, interpretiamo. È un gioco a rimandi, come in un ipertesto barocco: ogni riferimento culturale – la tradizione senegalese, il design industriale, la ceramica, la politica globale – è messo in relazione con l’altro, in un sistema aperto. E in questo senso, MASQUERADE è una mostra semiotica: non perché si parli esplicitamente di segni, ma perché tutto è segno, e tutto rinvia ad altro.

Prendiamo ad esempio le fotografie: grandi formati che raffigurano dettagli urbani, tracce di presenza, residui di ritualità. Queste immagini non mostrano Dakar, la raffigurano come problema. Cosa vuol dire rappresentare una città, un’alterità, un contesto? L’atto stesso della rappresentazione è un campo di conflitto. La camera fotografica, come l’occhio dell’artista, è insieme testimone e colonizzatore. Siamo dunque nel cuore del dramma dell’appropriazione culturale: ma Nero lo sa, lo dichiara, lo mette in scena. Non prende, ma si espone nel prendere. E in questa consapevolezza risiede la possibilità di riscatto semiotico.
Non c’è nulla, in questa mostra, che sia innocente. I materiali usati, spesso oggetti trovati o assemblati, evocano l’object trouvé di duchampiana memoria, ma lo superano: non si tratta solo di attribuire un nuovo significato a ciò che è già significante, ma di reintrodurre la storia, la geografia e il trauma nell’estetica. Le maschere di MASQUERADE sono segni-carne: raccontano il corpo, il rito, la migrazione, la nostalgia, la violenza simbolica e materiale. E qui entra in gioco la riflessione sul corpo: un corpo che non è mai davvero presente, ma evocato, mutilato, ricostruito, come nell’iconografia medioevale dei santi martiri.
Lo spazio che accoglie tutto questo, Atipografia, è esso stesso un segno. Ex tipografia di famiglia, oggi spazio espositivo ibrido, il luogo conserva la memoria del segno scritto, della parola impressa. E questa eredità tipografica si riverbera nell’allestimento: le opere non sono solo esposte, ma tipografate nello spazio, ordinate come in una pagina, costruite come una narrazione. L’opera visiva diventa testo, e il testo diventa corpo critico.

Non è forse questa, infine, la funzione dell’arte? Produrre senso laddove il senso è incerto, instabile, conteso? E non è forse questa l’unica maschera che non possiamo togliere: quella della nostra necessità di interpretare? MASQUERADE è, dunque, più di una mostra: è una meditazione visiva sul concetto stesso di identità culturale nel tempo della globalizzazione. Ogni opera è un segnale lanciato in un sistema sovraccarico di significati, dove l’unico gesto sovversivo possibile è quello di ricordare che non si guarda mai da un punto neutro. E forse, come suggeriva Borges, ogni maschera non è che il volto di Dio che ha scelto di non rivelarsi.













