
Bologna. Dentro un edificio che sembra un’astronave atterrata negli anni Venti, progettata da un Le Corbusier con deliri di onnipotenza, succede qualcosa di strano, ipnotico, a tratti comico. Succede BLACK NOUVEAU. Qui, nel Padiglione Esprit Nouveau — che è la ricostruzione di una ricostruzione di un’idea che forse era già obsoleta nel 1925 — l’artista austriaco HECK sta prendendo tutto ciò che pensavamo di sapere sulle avanguardie, sull’arte e sull’informazione, e lo sta triturando dentro una gigantesca stampante 3D spirituale che sputa fuori glitch, piramidi di rifiuti e valute annerite.
Herwig Egon Casadoro-Kopp, in arte HECK, ha una biografia che suona come una distorsione algoritimica di Wikipedia: ex neuroscienziato, artista concettuale, poeta, attivista, musicista, costruttore di universi narrativi e speaker, forse anche illusionista e barista nei fine settimana. La sua mostra, il cuore pulsante di BLACK NOUVEAU, si intitola con spavalderia “excluding/including information as architecture”, ovvero: costruiamo con i dati, ma anche con le omissioni. E qui, dentro l’Esprit Nouveau, costruisce cinque ambienti/installazioni/simulacri/azioni che sono tutto tranne che rassicuranti.
C’è BLACK DISTORTION, dove l’edificio stesso viene dato in pasto all’intelligenza artificiale che lo rigurgita come un livello di Doom 3 ambientato a Tirana. C’è FALSE FLAG ACTION, che sembra una barzelletta su guerra, simboli e disinformazione, ma poi smetti di ridere e cominci a dubitare di ogni bandiera mai vista. E c’è NEW WAVE 2000, che è il tentativo più raffinato di hackerare i linguaggi del potere usando i metodi stessi del potere. Un’arte da controspionaggio estetico.

E poi ci sono le valute annerite, i documenti resi illeggibili, i dati come rovine archeologiche. HECK ci sbatte in faccia un messaggio chiaro: l’informazione non è più un bene, è una trappola. Una gabbia di valore estratto dai nostri like, dai nostri swipe, dai nostri “accetto i cookie” senza leggere niente. “Ci siamo venduti”, dice. E lo fa senza retorica, ma con un DJ set interamente generato da AI, suonato con una spudorata dolcezza postumana da Black Cottage Cheese — sì, ancora HECK.
Ma BLACK NOUVEAU non è solo una mostra, è anche un festival del pensiero critico con le cuffie storte e le scarpe consumate. I talk sono momenti di confronto e collisione: dal futuro degli ambienti digitali come nuovi habitat (moderato da Christian Nirvana Damato, che ha un nome che sembra inventato da un generatore di personaggi di Metal Gear Solid) alla domanda fondamentale: chi disegna gli spazi e per chi?

C’è una bellezza anarchica nell’architettura che si piega alle teorie queer, alle intersezioni, alla sovversione soft. E c’è una malinconia feroce nel constatare che nulla è per sempre, nemmeno l’avanguardia. HECK lo sa. HECK ce lo dice. Lo urla silenziosamente mentre ci mostra i relitti di un futuro pensato nel passato e già dimenticato nel presente. La verità è che BLACK NOUVEAU ci fa ridere. Ma anche ci fa paura. Come un meme troppo vero, come un deepfake in cui ci riconosciamo. Ci suggerisce che stiamo affittando il mondo invece di abitarlo. Che l’abbonamento alla modernità scade ogni giorno e ogni giorno ce lo rinnovano in automatico, con un clic.
Alla fine, quello che rimane non è solo una riflessione sull’arte, ma un’azione concreta: tornare a guardare. Guardare il glitch, guardare l’errore, guardare anche il buio dove l’informazione viene tagliata, nascosta, masticata e rivenduta come contenuto premium. E forse, mentre danziamo su quella che un tempo era chiamata avanguardia, ci accorgiamo che le uniche cose veramente nuove sono le domande che ci fanno male. Quelle che nessun algoritmo può ancora prevedere.














