
I musei: luoghi d’arte e cultura, di riscrittura di storie senza voce e di vicende, forse, ancora troppo inascoltate. Perché un museo, come definisce l’ICOM, è uno spazio dove l’esperienza culturale deve stimolare la riflessione critica e la condivisione del sapere. Ma cosa succede quando, in nome del politically correct, le scelte curatoriali sembrano rispondere più a logiche di quota che a visioni artistiche? Lo sa bene Klaus Biesenbach, curatore di fama internazionale ed ex enfant prodige della scena artistica americana, che ha deciso di tornare in Germania lasciandosi alle spalle le luci e le ombre dei musei d’oltreoceano.
In una lunga intervista pubblicata da Der Spiegel, Biesenbach racconta le ragioni del suo addio al mondo museale statunitense, un contesto che – a suo dire – si è trasformato in una trappola ideologica.
Già direttore del MoMA PS1 di New York e successivamente del Museum of Contemporary Art di Los Angeles (MOCA), Biesenbach afferma di aver anticipato i tempi in materia di inclusività. “Sono stato tra i primi a esporre più donne che uomini, e tra i primi a dare spazio ad artisti neri, perché sono grandissimi talenti a lungo ignorati”, dice. Ma poi – continua – qualcosa si è rotto: “Tutto è diventato una questione di quote obbligatorie. Solo certe parole erano ammesse. Era diventato insostenibile”.
L’atmosfera negli Stati Uniti, racconta, si è fatta pesante soprattutto durante la pandemia e sotto la presidenza Trump, anni in cui il clima culturale si sarebbe trasformato in quello che definisce un “calvario”. Emblematico un episodio legato all’omicidio di George Floyd: “Durante una riunione interna su Zoom, ci fu un momento di lutto collettivo. Le telecamere rimasero spente per venti minuti, mentre alcuni colleghi piangevano. Questo rituale si ripeté ogni settimana. Tutti erano chiamati a condividere esperienze di discriminazione o a spiegare perché la giustizia sociale fosse importante per loro”.
Biesenbach scelse di non partecipare: “In quanto uomo bianco privilegiato, e soprattutto come direttore, sentivo che non fosse il mio posto. Ma mi fu chiaramente detto che un mio intervento era atteso”. Quando decise di parlare, condivise un ricordo personale: l’esperienza vissuta a 19 anni in un kibbutz israeliano con l’Action Reconciliation Service, un’organizzazione tedesca nata per fare i conti con il passato nazista. “Una collega mi ringraziò, poi però mi accusò di non aver capito il senso della discussione…”.
Il curatore, che mantiene la doppia cittadinanza americana e tedesca, menziona anche il caso di Gary Garrels, ex curatore senior del SFMOMA, costretto a dimettersi dopo aver parlato di “discriminazione inversa” riferendosi alla rimozione di opere di artisti bianchi. “Nessuno di noi, suoi colleghi nei musei americani – me incluso – ebbe il coraggio di difenderlo. Siamo stati dei codardi”, ammette.
E Biesenbach non è stato immune da polemiche: durante la sua breve direzione al MOCA, due figure di rilievo lasciarono l’istituzione. La curatrice Mia Locks denunciò che il museo “non era pronto ad accogliere realmente” le sue iniziative sulla diversità. Poco dopo, si dimise anche il direttore delle risorse umane, lamentando un ambiente “ostile”.
Nel 2021, un’ulteriore riorganizzazione al vertice lo retrocesse da direttore a direttore artistico, affidando la guida esecutiva a Johanna Burton. La sua uscita definitiva dal MOCA venne annunciata appena una settimana dopo.
Anche a Berlino, però, il clima non si è fatto meno incandescente. Alla Neue Nationalgalerie, dove è ora direttore, ha affrontato una nuova tempesta mediatica durante l’inaugurazione della mostra dell’artista Nan Goldin. L’artista americana, nota per il suo attivismo, ha definito pubblicamente l’intervento militare israeliano a Gaza come un “genocidio”. Biesenbach ha replicato con un messaggio istituzionale in cui ribadiva che “il diritto di Israele a esistere è fuori discussione”.
Alla rivista tedesca ha spiegato di non aver mai voluto censurare Goldin, ma di essere rimasto “scioccato” dalla durezza del suo intervento. “Non pensavo che Nan sarebbe stata così fredda. Dopo quell’episodio, quasi non ci siamo più parlati. È stata una questione di diplomazia di alto livello”. Racconta anche un incontro al MET di New York, dove – a suo dire – il pubblico lo abbracciò in lacrime dopo il suo intervento, mentre Goldin restò impassibile.
Intanto, in Germania si discute sulla presunta censura verso artisti filo-palestinesi. Molti denunciano la cancellazione di mostre e programmi in loro sostegno. “Dall’America mi dicevano che qui sembrava di essere tornati agli anni Trenta. Che era pericoloso esprimere la propria opinione”, riferisce Biesenbach.
Non è la prima volta che il curatore si trova nell’occhio del ciclone. In passato era stato accusato di trasformare i musei in passerelle per celebrities, come nella contestatissima mostra su Björk al MoMA del 2015. “Quella fu una vera tempesta mediatica”, ricorda con amarezza. “Da allora ho evitato i riflettori. Ho praticato la moderazione per molto tempo”.
In un tempo in cui la parola detta – e ancora di più quella non detta – assume un peso specifico mai così determinante, diventa urgente ripensare il ruolo dei musei come spazi di mediazione, non di polarizzazione. Perché se è vero che l’arte deve confrontarsi con il presente, è altrettanto vero che non può essere imbrigliata da dinamiche che svuotano la libertà curatoriale in nome di correttezze imposte più che discusse.
Un museo non dovrebbe rispondere solo a bilanci di quote, ma a visioni che alimentano il pensiero critico, la molteplicità delle prospettive e la complessità delle storie. La sfida oggi non è solo rappresentare, ma come rappresentare, senza cedere alla semplificazione, senza sacrificare la voce dell’arte sull’altare del conformismo culturale.
In fondo, come ricorda la stessa definizione dell’ICOM, un museo è – o dovrebbe essere – un laboratorio vivo di conoscenza condivisa, capace di accogliere la divergenza e di fare dell’incontro, anche scomodo, uno spazio fertile per immaginare nuovi futuri.













