
Il Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, arrivato alla sua 19esima edizione, si è concluso sabato 2 agosto. E anche quest’anno ha chiuso con successo registrando 21.043 presenze, ovvero + 18% rispetto alla scorsa edizione. La cosa interessante è che vi è stata una crescita del 26% in più rispetto al 2024 riguardante la partecipazione dei giovani, studenti e under 26. Evidentemente continua a piacere la conduzione di Wayne McGregor, che quest’anno ha portato in laguna oltre 160 artisti presentando 8 prime mondiali, 7 europee, 5 italiane. Un’edizione intitolata Myth Makers, dedicata alla potenza generativa degli artisti visti come creatori dei miti contemporanei.
Mercoledì 30 luglio(ore 19), al Teatro Tese Arsenale, Tânia Carvalho ha presentato Ventre do vulcão, 50′ di spettacolo in prima assoluta. Un assolo che mette in luce carattere e personalità dell’artista portoghese che non è solo una danzatrice, ma compositrice musicale, disegnatrice e realizzatrice di film. Per questo la sua danza è il risultato di ciò che viene fuori dall’incontro fra teatro, cinema e pittura e che lei racconta in movimento. Un universo intrigante e complesso, che codifica un linguaggio proprio, sviluppato su più livelli. Ventre do vulcão è diviso in brani, il primo dei quali è senza dubbio il più interessante. Il suo movimento di braccia ricorda il celebre balletto classico La morte del cigno in chiave “dark”. La danzatrice sembra davvero un cigno al limite della sua vita, disperato per questo ed ancora in cerca di affermazione. Scattanti e sincopati i suoi gesti che si fanno sempre più “schizzati” nei brani a seguire fino al quadro finale circoscritto da una luce azzurra che contornia il suo viso che distorce sempre più. Sembra di assistere ad uno dei primi cortometraggi di Luis Buñuel in cui surrealismo misto a follia hanno il predominio. La danzatrice ha spiegato che attraverso questo processo, invita il corpo a diventare un luogo di scavo (appunto ventre do vulcão), dove trovano forma energie dimenticate o represse. Una coreografia che segue un assetto strutturato, ma che lascia anche molto pazio all’improvvisazione, mantenendo in questo modo la performance grezza e spontanea.

A seguire, sempre il 30 luglio(ore 21), al Teatro Piccolo Arsenale è andato in scena Simulacro del collettivo KOR’SIA. 60′ in prima italiana per la regia e coreografia di Antonio de Rosa & Mattia Russo su drammaturgia di Agnès López-Río. Il collettivo italo-spagnolo fondato nel 2015 e attualmente con sede a Madrid, ha visto De Rosa & Russo iniziare un percorso di creazione coreografica che amalgama movimento, drammaturgia e arti visive. Con Simulacro, presentato per la prima volta in Italia, Kor’sia affronta la tensione sempre più ambigua tra realtà e artificio, tra fisicità e immagine nel tempo dell’iperconnessione. La performance esplora la fragile linea tra reale e virtuale, in un mondo saturato da dati, algoritmi e stimoli ininterrotti facendosi strumento per interrogare il senso della nostra epoca in un mondo che si avvia sempre più alla distorsione della realtà. I sette danzatori in scena sembrano venuti fuori da un era postatomica. Vestiti con tutte da combattimento si affrontano gli uni contro gli altri come nemici, senza un vero perchè, solo desiderio di confronto e affermazione. In seguito tolte le tute, rimangono con abiti più comdi e adatti ad una convivenza tranquilla. Qui cominciano a cercarsi più che a guerreggiare, dando spazio a incontri sessuali – amorosi che vorrebbero presupporre un cambiamento. Non sarà così, anzi, tutto tornerà come prima, chiudendo così con una nota pessimistica sul senso della vita. Uno spettacolo coinvolgente ma che non ha nulla di sperimentale per quanto riguarda la ricerca sulla danza. Qualcosa di innovativo lo si percepisce nelle luci e nella musica elettronica, per il resto risulta un lavoro poco interessante.
Più avvincente Sisifo felice, 60′ minuti di danza pura in prima assoluta giovedì 31 luglio (ore 20) al Teatro alle Tese. Lavoro firmato Philippe Kratz & Pablo Girolami su musiche di Anna von Hausswolff, Maxime Denuc con live music mix di Vermouth Gassosa. Un dittico che ha evidenziato due modi diversi di fare danza, connessi però da questo fil rouge: esplorare l’assurdità dell’esistenza, ispirandosi al Teatro dell’Assurdo e alla celebre frase di Camus: “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Un tema che come ha detto Girolami nel dibattito finale ha acceso tante discussioni sul tema fra lui e Kratz e in cui è prevalasa la parola trasfusione per ispirarsi l’uno con l’altro arrivando, si può dire, a mischiare un po’ di sangue insieme. Due brani di circa mezz’ora l’uno, più tradizionale e di facile lettura il primo di Kratz, mentre più sperimentale e disorientante il secondo di Girolami, in cui si è letto maggiormente il ciclo di fatica e rinascita del corpo portato all’esasperazione in una danza che non dà tregua e che ha messo a dura prova gli otto splendidi ballerini della compagnia. La felicità di Sisifo quindi non è scontata, ma di difficile raggiungimento, un’accettazione della fatica costante esternata attraverso una gestualità che vuole libertà per questo cresce in spontaneità trasportando il ritmo come meglio lo intende. “Un’arte che sceglie, ma che comporta fatica” come ha aggiunto sempre Pablo Girolami al termine dello spettacolo.

Chicca di questa edizione l’istallazione On the Other Earth di Wayne McGregor in prima assoluta per questa edizione di Biennale Danza. 57 minuti in cui il pubblico viene immerso all’ interno di un’architettura cilindrica alta quattro metri e larga otto, dentro la quale si espande il progetto di estetica dell’interazione e tecnologia nVis 360 3D curato da Jeffrey Shaw e Sarah Kenderdine, che evolve e reimmagina la danza come esperienza diversa e originale. McGregor si è servito dei componenti della sua compagnia (Rebecca Bassett-Graham, Naia Bautista, Kevin Beyer, Julia Costa, Salvatore De Simone, Chia-Yu Hsu, Jayla Jacobs, Hannah Joseph, Jasiah Marshall, Salomé Pressac, Mariano Zamora Gonzalez) e di 8 elementi dell’HONG KONG BALLET (Luis Cabrera, Jeremy Chan, Albert Gordon, Vanessa Lai Nok Sze, Nana Sakai, Gouta Seki, Sun Jia, Wang Qingxin) combinando danza, coreografia, imaging digitale, suono spazializzato e IA . Ed ecco che il corpo e la danza vengono ridefiniti, ripensati, riletti in rapporto con lo spettatore che viene catapultato all’interno della performance trovandosi faccia faccia coi ballerini di cui può abbracciale l’ologramma. On The Other Earth rompe la quarta parete facendo vivere agli spettatori una serie di incontri surreali in un’intima interazione, che fa riflettere su quello che il mondo è, potrebbe essere, o sarà, sovvertendo le percezioni del futuro dell’intrattenimento. Alcuni momenti sono più intensi come quello che ci trasporta virtualmente in cima ad un grattacielo di Hong Kong dove pian piano prendono vita(da zombi iniziali) i ballerini che danzano geometrici passi a due in perfetta tecnica accademica. O quello, verso la fine, coi danzatori a testa in giù. I presenti sono costretti inevitabilmente a uno sforzo cognitivo più profondo in cui solo il suono dei passi sul soffitto aiuta a processare questa situazione tanto incredibile e paradossale, quanto affascinante.

L’unico appunto che si può fare all’installazione di McGregor è che questa immersione fantastica ha causato qualche disagio fisico ad alcuni del pubblico: stare quasi un’ora in piedi con indosso gli occhiali 3D, colpiti da luci stroboscopiche e lampeggianti, risulta piuttosto faticoso. Pensiamo che un quarto d’ora in meno non toglierebbe nulla al valore dello show coreografico post-cinematico che ci ha portati “sull’altra terra”, ma anzi lo renderebbe più leggero e godibile.
Concludiamo con questa considerazione: i ballerini iperrealisti della Company Wayne McGregor e del Balletto di Hong Kong sono quindi il futuro della danza? Chi lo sa, certo come afferma il direttore di Biennale Danza “questa tecnologia innovativa ci aiuta a imparare cose nuove su di noi ”, facendo riflettere sulle potenzialità dell’essere umano, ma apre anche un varco poetico in cui l’umano si decentra e si ripensa come parte di un ecosistema cosmico in costante mutazione. In questo caso specifico, On The Other Earth invita a contemplare un’ontologia del possibile in cui la tecnologia non è un effetto spettacolare, ma una matrice generativa che permette lo sviluppo dell’opera in tempo reale. Ed ecco che semplicemente si prova quello che lo stesso coreografo ha provato la prima volta che incontrò Jeffrey Shaw alla Hong Kong University, “la stessa meraviglia che prova un bambino di fronte a un qualcosa di inaspettato”.














