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Pop Art! Andy Warhol in Brasile

Andy Warhol, Silver Liz [Ferus Type], 1963, The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy Warhol - Foundation for the Visual Arts, Inc.
Andy Warhol, Marilyn Monroe (Marilyn), 1967, The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.
Alla FAAP di San Paolo (Fundação Armando Alvares Penteado, nata nel 1947 e tra le più prestigiose università private dell’America Latina in fatto di corsi di Arti, Design, Comunicazione, Economia e Diritto) c’è una mostra che – per chi fosse in Brasile durante le vacanze estive, merita assoluta attenzione: “Andy Warhol. Pop Art!”

La solita mostra di Andy Warhol, direte voi; di quel “Padre” della Pop Art, che tutti conosciamo e che tutti abbiamo visto da una parte all’altra del mondo: sì, ma no.
Primo perché “Pop Art!” è la più ampia mostra dedicata al Maestro della “cultura di massa” mai realizzata in Brasile; secondo perché – essendo una collaborazione con tra FAAP e la Andy Warhol Foundation a Pittsburgh, sono diversi i pezzi da novanta qui presenti, raccolti in un allestimento rigorosissimo, a cura di Priscyla Gomes (con il supporto dell’Istituto Totex) che proprio dalla città natale di Andrew Warhola Jr., in Pennsylvania, ha portato a San Paolo qualcosa come 600 opere, di cui alcune assolutamente seminali nella carriera dell’artista, come i suoi disegni di scarpe femminili realizzati com la una particolare tecnica del Blotted Line, che mischiava disegno a matita e ricalco a inchiostro, per creare un effetto irregolare e sfumato che gli diede visibilità attraverso le pagine di Glamour e Vogue, Harper’s Bazar e The New Yorker. Insomma, un Warhol così non si vede tanto facilmente, ed è per questo che questa esposizione è assolutamente preziosa tanto per chi già ha “masticato” molta Pop, anzi Pop Art!, tanto per chi vuole approfondirne la sua massima icona.

Andy Warhol, Michael Jackson, 1984, The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy WarholFoundation for the Visual Arts, Inc.

Tornando in sala, la moda non è finita qui: al piano terra della FAAP in scena c’è anche la “vetrina”, assolutamente artigianale, realizzata in legno e dipinta a mano, che Andy Warhol creò nel 1957 per Dior e per il suo punto vendita della Quinta Strada a Manhattan, che vide il lancio dell’iconico profumo Miss Dior. Oltre a marcare, con decadi di anticipo, l’idea dell’artista che si fa (anche) ambasciatore di brand del lusso, il prestito di questo pezzo dalla Fondazione Warhol di Pittsburgh è una novità assoluta.

Andy Warhol, Pop Art!, FAAP, foto divulgação

Non mancano, in questo primo passaggio, anche le famose “box” che furono esposte per la prima volta alla Stable Gallery di New York, nel 1964, segnando definitivamente l’identità iconica di Warhol come artista “macchina”, produttore di “beni di consumo” e che, all’epoca, spiazzavano completamente per il modo inusitato che l’artista aveva nel portare il “basso” – la merce, le scatole in questo caso, oltre i confini dell’alto, in una galleria d’arte, in un faccia a faccia con un pubblico ancora non avvezzo alle intemperanze dei risultati più audaci della Pop.
Del Monte, Brillo e le icone Campbell delle zuppe sono solo alcune delle marche che l’artista ripropone su sculture cubiche di compensato, lasciando visibile l’inganno – non si tratta di merci vere, appunto – portando l’attenzione sui “Miti d’oggi”, quei prodotti status-symbol che già nel 1953 elencava, investigandoli anche sotto il profilo psicologico del consumatore, Roland Barthes nel suo omonimo saggio.
E dei Myths in carne ed ossa, vinile e cellulosa, da Marilyn Monroe a Elvis Presley, Andy Warhol fa incetta: li usa, li immortala, li spoglia, li innalza allo status di eroi, prima – o dopo, una quasi sempre tragica fine.
D’altronde, sia che si tratti di attrici, cantanti o “comparse” della Factory, stiamo pur sempre parlando di “prodotti di consumo” e, si sa, il consumo non ha freni ma vive in un tempo limitato.
La velocità, tanto quella del successo – i famosi 15 minuti di celebrità, quanto quella del medium, era un’altra componente non sempre esplicitata nel lavoro di Warhol, ma perfettamente visibile nel risultato: basti pensare alle innumerevoli polaroid, scattate tanto a divi del cinema quanto della musica, a modelle, a stilisti, a collezionisti: il “bel mondo” illuminato a giorno, e nell’ombra le depressioni, le scomparse premature, come quella di Edie Sedgwick, una delle icone preferite di Warhol e comparsa anche negli Screen Test (1964-1968) che l’artista aveva realizzato filmando personaggi della scena newyorchese, includendo Allen Ginsberg e Lou Reed, nella famosa scena bevendo una Coca-Cola, oltre a iconiche figure del movimento Queer dell’epoca.

The Velvet Underground, The Velvet Underground & Nico, 1967. The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.
Andy Warhol, Pop Art!, FAAP, foto divulgação

E poi, la politica. Anzi, il politicamente scorretto che Warhol metteva in mostra tra colori vivivi e retini serigrafici fuori di registro, come nel caso della indimenticabile serie dedicata a Mao: a partire dagli anni ’70, l’artista si focalizzò sui ritratti di figure politiche, nell’intento di criticare il crescente consumismo che gli Stati Uniti vivevano nel quotidiano. Dopo la visita del Presidente Richard Nixon in Cina, nel 1971, la figura del leader diventò iconica anche in America e Warhol, connettendo genialmente il desiderio di possesso e la sua nemesi (il comunismo) provocò il cortocircuito: il pubblico americano, il collezionismo più all’avanguardia, poteva comprare Mao e la sua “ideologia” e collocarlo come una nuova “icona” del contemporaneo nella propria casa.
Ma come dice il detto, “produci, consuma, crepa”, ecco che arriva la morte, trattata con la lucida freddezza che appartiene al Re della Pop Art. Tunafish disaster, 1963, racconta attraverso una serigrafia brillante e in argento e nero la “strage” che uno stock di scatolette di tonno – di nuovo il consumo, provocò con due anonime casalinghe americane: la vicenda della signora McCarthy e della signora Brown, decedute per una intossicazione da botulino, colpirono profondamente Andy Warhol, che le immortalò in una serie di grandi dipinti.
Warhol, affascinato dal macabro intreccio tra tragedia e banale quotidianità, trasformò il dramma domestico nella dichiarazione della sua ossessione per la morte e i media. Le vittime del tonno divennero così, senza volerlo, protagoniste di un’opera che rifletteva il lato più oscuro del sogno americano.
Accanto alle scatolette, sullo stesso piano concettuale ed etico di una morte che viene continuamente spettacolarizzata, la serie dedicata alla Sedia Elettrica e una, singola e bellissima, Skull, 1976. Vera e propria Vanitas di tradizione occidentale, il teschio dialoga contemporaneamente con la società americana dell’epoca, con l’onda punk, anticipando – quasi prevedendo, l’ondata di misteriose morti che iniziarono ufficialmente ad essere diagnosticate nel 1981 e subito annunciate come “cancro degli omosessuali”.
Non è un caso che, nella parete di fronte, sia collocata The Last Supper, 1984. Tra le due opere il dialogo è serrato. Fu Alexander Iolas, il mitico collezionista e gallerista di origine greca a commissionare, tra le altre opere di altrettanti artisti, questo grande dipinto ispirato nell’Ultima Cena di Leonardo. Warhol, toccato, realizzò più di cento progetti sul tema, tra disegni, serigrafie, bozze e progetti, tra il 1984 e il 1986, prima della grande mostre che si aprì a Milano nel 1987, anno della morte di Andy – a causa di complicazioni derivate da una appendicite, e che mise faccia a faccia il Cenacolo Vinciano con ventidue tele del Maestro statunitense. Un testamento, o la semplicemente l’ironia di una sorte beffarda con cui Warhol aveva avuto a che fare anche vent’anni prima, con il suo tentato omicidio da parte della sua grande fan Valerie Solanas, e che aveva profondamente cambiato il suo approccio all’arte ma, soprattutto, alle relazioni umane. Consumate, forse, e consumanti.

Andy Warhol, Silver Liz [Ferus Type], 1963, The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy Warhol – Foundation for the Visual Arts, Inc.

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