
C’è una certa ostinazione, quasi eroica, nel lavorare sulla durata in un’epoca in cui tutto è istantaneo, scorrevole, scartabile. Giuliana Storino – artista, docente, anatomista dell’invisibile – sceglie di mettere il tempo al centro, di scolpirlo, di cantarlo. Letteralmente. Canto alla durata non è una mostra: è un esperimento di resistenza poetica, una dichiarazione d’amore al tempo che scava e trasforma, che fa del gesto artistico una forma di memoria attiva.
La galleria veneziana 10 & zero uno, che da qualche anno si è imposta come uno dei luoghi più vitali della scena indipendente, diventa per due mesi una macchina del tempo. Non metaforicamente: concretamente. Il suono delle cicale invade l’ex cella frigorifera, l’acciaio si piega e si dondola, la carta si fa pelle bifronte, specchio e ferita. È come se lo spazio stesso ricordasse di essere stato un corpo, un luogo di tagli e di carni, e adesso, grazie a Storino, imparasse di nuovo a respirare. La mostra si articola come un viaggio in tre atti.
C’è Cicàdidi, un’installazione sonora e scultorea che porta il canto delle cicale dentro la cella frigorifera: una specie di ossimoro vivente, una meditazione sul calore del ricordo e la freddezza della memoria.
Poi Cavalletto a dondolo, una scultura oscillante in acciaio specchiante che unisce, con un gesto tanto semplice quanto commovente, il mestiere dell’artista e quello paterno del macellaio. L’arte come eredità, come gesto che taglia, divide, ma al tempo stesso sutura. Accanto, le carte bifronti si aprono come finestre che respirano: superfici che diventano soglie, che non si accontentano del “fronte” o del “retro” ma vogliono abitare entrambi, restituendo un’esperienza ambivalente di presenza e assenza. È come se ogni foglio dicesse: “Guarda, il tempo non è lineare. È un respiro, un avanti e indietro.”

E poi c’è Sogni d’acciaio, forse l’opera più fragile e potente insieme. Un foglio argentato per incartare la carne – un ricordo d’infanzia, un gesto domestico – diventa lastra incisa. L’oggetto quotidiano si trasforma in reliquia, in segno universale. Come dire: anche il gesto più banale, se attraversato dal tempo, diventa simbolo. Storino fa qualcosa che troppi artisti dimenticano di fare: lavora con il tempo invece che contro di esso. Le sue opere non cercano di essere attuali, ma di restare. E questa è forse la più radicale forma di contemporaneità. La sua ricerca, che mescola scultura, suono, installazione e carta, è un sistema di nervi e di ossa, un’anatomia dell’impermanenza. Come docente di Anatomia artistica a Brera, conosce il corpo; come artista, conosce il suo lento disfacimento.
Ma invece di nasconderlo, lo canta. È questa la grande lezione di Canto alla durata: l’arte non serve a fermare il tempo, ma a viverlo fino in fondo, con tutte le sue crepe. Nel mondo dell’arte di oggi – ossessionato dal “nuovo”, dal “giovane”, dal “post-qualcosa” – Storino ci ricorda che la vera rivoluzione è restare, ascoltare, aspettare. Alla fine, la durata è il nostro unico lusso. E il suo canto, nelle mani di Giuliana Storino, suona come una promessa mantenuta.














