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Bevilacqua La Masa Edition: Palazzo Carminati
Salire gli scalini di Palazzo Carminati è un’impresa. Una volta arrivati alla vetta si viene, però, completamente ripagati della fatica. La Fondazione Bevilacqua La Masa ospita qui sette degli artisti selezionati per lo storico programma di residenze a Venezia.
Amedeo Abello
Da Amedeo Abello (Torino, 1986; vive a Venezia) vige un rigore quasi monastico. Arredano il suo studio i colori del tramonto e alcuni dei suoi lavori, con i quali ha preso possesso dello spazio.
«Appena sono arrivato ho appeso alle pareti alcune foto, stampate in bassa qualità, e ho realizzato un’installazione che avevo ideato per palazzo Bembo. Un esercizio di stile sul corpo del testo e sul dare matericità alle parole. Il filo del discorso viene reso visibile attraverso un filo di cotone che collega dei chiodini, componendo la scritta “Luxury is the ride for people without style”».
Il contenuto è ininfluente?
«Non è essenziale, anche se in questo caso può essere interpretato come critica della moda e di uno stile di vita fondato sull’apparenza. All’inizio della residenza presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, invece, ho realizzato un progetto in collaborazione con Federico Morando, che è stato presentato a Torino al premio Bonatto Minella, a “TO-NYC Breaking Boundaries”, poi a Palazzo Lucarini – ex Flash Art Museum a cura di Celeste Ricci. Si intitola “Life/File”, sono otto lightbox per una riflessione sul rapporto tra reale e virtuale derivata dalla consapevolezza che fosse possibile programmare e sfruttare l’errore. Abbiamo, infatti, composto le due parole life e file stabilendo che alcuni scatti all’interno di un rullino fotografico dovessero essere sovraesposti. I segni che ne derivano compongono le lettere.
Le due parole che abbiamo scelto, oltre a essere l’una l’anagramma dell’altra, sono completamente opposte, così come anche le foto che le costituiscono: per life abbiamo scelto immagini della vita quotidiana di entrambi, per file, invece, scatti dello schermo del computer. Io e Federico siamo cresciuti in un paese vicino a Torino, dove abbiamo vissuto insieme l’avvento di internet: le prime connessioni, i primi videogiochi. Questo lavoro è significativo anche per questo».
Persegui una poetica dell’errore.
«La mia ricerca trae ispirazione dalla serendipity di Man Ray, dal tentativo di vedere le cose con un altro punto di vista e di cercare il bello in ciò che appare sbagliato.
Partendo da “Life/File”, durante un periodo che ho trascorso a Parigi, ho sviluppato il progetto “Photomaton” che trae spunto dall’installazione di Franco Vaccari per la biennale di Venezia del 1972. Sono affascinato da questo apparecchio per creare documenti che identificano la persona, con un formato prestabilito, senza negativo, allora ho pensato di usarlo come macchina fotografica vera e propria. Le cabine sono disseminate in luoghi particolari, di transito, non luoghi, quindi ho scelto di dare un’identità al luogo in cui si trovano, facendo sbagliare la macchina fotografica e obbligandola, con uno specchio, a immortalare l’esterno».
Tutte le tue fotografie sono scattate in analogico?
«Sì, mi piace sporcarmi le mani, pensare prima di scattare, attendere lo sviluppo del negativo, vedere l’immagine comparire dagli acidi, pur non stampando personalmente. Avevo iniziato a fotografare con una Leica M3, dono di un amico, ma ora ho acquistato una nuova macchina fotografica, un’analogica degli anni Ottanta: la Leica, che continuo comunque a utilizzare, è l’oggetto a cui tengo di più e non riuscivo a non essere preoccupato di perderla o romperla.
Proprio da questa mia attitudine alla manualità ha avuto origine una serie di cartoline, su cui ho ricamato a punto croce – abilità acquisita dai miei studi alla scuola steineriana – frasi del linguaggio hip hop. Mi diverte il contrasto tra lo stereotipo gangsta, le scritte solitamente tatuate sulla pelle e l’immagine di Venezia. Sono tatuaggi su carta, che hanno richiesto molto tempo per la realizzazione: attraverso questo gesto attribuisco nuovamente importanza alle cartoline, ormai in disuso».
Un altro progetto nato dal desiderio di recuperare un supporto trascurato è “Lucky Shoes”, ideato inizialmente con Riccardo Banfi.
«Dalla comune passione per le fanzine e il cartaceo abbiamo deciso di fondare una micro casa editrice che ha come criterio l’utilizzo del medium della figurina, spesso sottovalutato. In realtà le figurine sono presenti nei ricordi di tutti e permettono di interagire per terminare una raccolta che rimane personale. Vorrei utilizzarle come catalogo, oppure ideare un album pornografico, realizzando io le foto. Devo solo trovare la giusta occasione».
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