Parlare male della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia piace un po’ a tutti, pare. E noi italiani siamo un po’ così, subito pronti a puntare il dito. Pare certo però che la parvenza di decadenza attorno al Festival del cinema sia diventata ormai ben più di una sola sensazione… Accrediti e visitatori in netta diminuzione e, nonostante un cartellone dignitoso, premi che sembrano non convincere a fondo.
Il grande problema del Festival del cinema di Venezia da anni ormai pare essere il suo obiettivo: un festival snob? Un festival vicino al pubblico? Riscoperta della tradizione? Slancio verso l’innovazione? Est? Ovest? Ognuno lo vorrebbe in modo diverso, la concorrenza (da Roma a Toronto) e sempre più pressante e le vie del cinema sembrano quindi farsi più impervie. Muller, il direttore più longevo della storia del Festival -in carica dal 2004 al 2011- sembra essere riuscito in un’opera di mediazione, alterando Leoni d’Oro apprezzabili al grande pubblico (Vera Drake, Brokeback Mountain, Somewhere…) ad altri che non hanno mai visto il buio della sala (Still Life, Faust, Lebanon…). Un colpo al cerchio e uno alla botte insomma.
Una delle piccole polemiche di quest’anno riguarda l’assenza di premi agli americani, che da anni ormai non vedono l’ombra di un premio… Nell’era Muller ben 4 i Leoni d’Oro americani (almeno sulla carta): Brokeback Mountain (uno dei film più visti di Ang Lee), Lussuria (uno dei film meno visti di Ang Lee), The Wrestler e Somewhere (il più grande flop di Sofia Coppola). Dal 2010, anno del discusso “trionfo” di Sofia Coppola, nessun premio è più stato assegnato a una produzione americana. Unica eccezione per The Master di Paul Thomas Anderson – Leone d’Argento e Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile assegnata ex equo a Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman – tra i film meno visti in assoluto del regista: peggio di così ha fatto solo Hard Eight, suo film d’esordio, quando ancora era un emerito sconosciuto, con protagonista femminile un’ancora emerita sconosciuta Gwyneth Paltrow.
Quest’anno il Leone d’Oro se l’è aggiudicato la Svezia, con il surreale e grandioso A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence di Roy Anderson – che, accolto negli anni ’70 come il nuovo Ingmar Bergam, con il botteghino non è andato d’accordo da mai.
Il titolo del film è un riferimento al quadro Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio. Il dipinto difatti raffigura una paesaggio invernale, con alcuni uccelli appollaiati sui rami degli alberi. Anderson ha detto di aver immaginato come gli uccelli della scena guardassero le persone al di sotto chiedendosi che cosa stessero facendo. Il film sarà distribuito in Italia da Lucky Red. Vedremo in quante sale.
Qualcuno dice che il Leone d’Oro avrebbe potuto vincerlo il documentario The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, che prosegue il lavoro sul genocidio indonesiano già portato alla ribalta con l’acclamato The Act of Killing; ma dare il Leone d’Oro a due documentari di seguito pareva brutto. L’anno scorso aveva vinto difatti SacroGRA, primo documentario ad aggiudicarsi un Leone d’Oro nella storia del Festival del Cinema di Venezia.
Strisciante poi, come sempre, il sospetto che i premi agli italiani siano obbligati per campanilismo più che per spontaneo volere di giuria (almeno un’Osella non manca mai).
Quest’anno è toccato alla Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile e a quella per la miglior interpretazione femminile, andate rispettivamente a Adam Driver e Alba Rohrwacher protagonisti del film di Saverio Costanzo, Hungry Hearts.
Probabilmente la Coppa alla Rohrwacher sarebbe stata sufficiente e, pur rimanendo tra gli italiani, Elio Germano nei panni del Leopardi ne Il Giovane Favoloso di Martone sarebbe stato meritevole della Coppa per la miglior interpretazione maschile. Ma… Non si può accontentare sempre tutti.
Delude il Pasolini di Abel Ferrara, che si conferma un autore talentuoso quanto incostante, e un po’ confuso (o confusionario).
Tra i film presentati nella selezione Giornate degli Autori delude anche Kim Ki-Duk con il suo One on One che pareva dovesse far discutere per l’estrema violenza (come al solito d’altra parte, nel caso del maestro coreano) e invece strappa giusto qualche sbadiglio per le troppe chiacchiere – in completa antitesi col precedente Moebius privo di dialoghi.
Sempre sotto silenzio in questi anni i giovani, come Xavier Dolan e James Franco -quest’anno fuori concorso con The Sound and the Fury – che nonostante l’evidente talento vengono sempre trattati come se passassero dal Lido per caso – colpa del ben faccino, probabilmente.
Tante polemiche annunciate anche per la proiezione della versione integrale di Nymphomaniac, ma nulla di fatto. Questo festival del cinema sembra essere condannato ad essere, più che denigrato, poco chiacchierato. Asia Argento, in passato già madrina del Festival, dal suo profilo Twitter chiosa, con il savoir-faire che le è proprio, in questo modo… Noi nel dubbio, se darle ragione o meno, ci pensiamo su un attimo. In attesa dell’anno prossimo.