In Italia, diciamolo, l’arte contemporanea non è molto amata.
O semplicemente non viene proposta?
Il problema non è tanto stabilire se sia vero o meno, il problema è capirne il motivo. La domanda che forse è più giusto porsi è: se tutto il sistema museale italiano iniziasse a puntare sull’arte contemporanea, le persone andrebbero a vedere le mostre?
Cerchiamo di essere più chiari. Se si fa una ricerca con “le migliori mostre del 2018” i risultati tra Italia e Londra, ad esempio, sono molto differenti. Per la maggior parte delle riviste online (di settore e non) le mostre da non perdere, in Italia, sono: Frida Kahlo, Dürer, Carlo Carrà, Picasso, Rodin, Van Dyck, Ligabue, Andy Warhol, Escher, Cartier-Bresson e Steve McCurry, Guttuso, Raffaello, l’immancabile arte italiana del dopoguerra, Tintoretto, e altri.
A Londra la scena è un po’ diversa: Gursky, Another Kind of Life (una mostra collettiva), Fashioned from nature (un’altra mostra collettiva), Dorothea Lange e Vanessa Winship, Cynthia Pell, Peter Fraser, Lee Bul, a cui si aggiungono Rodin e altre mostre più o meno contemporanee.
Il divario “temporale” tra le due realtà è enorme e questa differenza non è del tutto giustificata. Ragioniamo: il popolo delle mostre si può scomporre (in modo brutale) tra visitatori cittadini e turisti. E i turisti in nazionali ed internazionali. Molti dei visitatori delle grandi mostre sono turisti stranieri, ed è improbabile che i turisti che vadano a Londra vogliano tutti visitare mostre d’arte contemporanea e quelli che vengono in Italia vogliano soltanto visitare mostre più tradizionali. Stesso si può dire anche per i turisti nazionali. Allora perché l’Italia è così debole sul versante del contemporaneo? Probabilmente, per pregiudizio. Si ritiene che le mostre che attirino più visitatori siano quelli di nomi che godono di una grande reputazione (Van Gogh, Picasso, ecc.) e che mostre che, invece, possano contribuire alla formazione di una cultura sui linguaggi contemporanei non possano riscuotere lo stesso esito.
>>> Questa è però una spirale che si avvita su se stessa. Se l’offerta delle mostre “must-visit” si ripete, più o meno invariata, anno dopo anno, diventa difficile educare visitatori e cittadini ad un tipo di linguaggio che risulterà quindi, nel tempo, sempre più difficile da interpretare.
In fondo, quello delle arti visive, è forse l’unico settore in cui si ritiene che le persone preferiscano il classico al contemporaneo, e tutto ciò è controintuitivo. Come dire che ai ragazzini di 15 anni risulta più facile comprendere, amare ed identificarsi con Beethoven che con Fedez&Co, che impazziscano di fronte alla Corazzata Potemkin o Metropolis piuttosto che un action movie, che leggano con più passione Eraclito piuttosto che Fabio Volo.
Sembra assurdo tutto questo. Allora perché siamo sicuri che artisti come Raffaello siano in grado di “comunicare” meglio con le nuove generazioni rispetto a quanto facciano artisti contemporanei? “Leggere” un quadro “famoso” implica conoscenze che non tutti, sempre, hanno: stile, contesto storico, la vita dell’artista, i costumi dell’epoca, ecc. ecc. ecc. Hitler in ginocchio che prega (un’opera di Maurizio Cattelan) condivide la nostra stessa cultura (non l’erudizione, la cultura), lo squalo in formaldeide di Damien Hirst è immediato (visivamente e concettualmente), così come sono immediate tantissime altre opere dei principali artisti contemporanei, con cui le nuove generazioni condividono non solo le conoscenze per interpretarli, ma spesso anche i linguaggi.
Se smettessimo di riproporre sempre le solite “grandi mostre”, allora, (come dimostrato anche dal fenomeno Human Body), probabilmente, nei musei, ci sarebbero più ragazzini interessati e divertiti. Magari farebbero battute (“e questa è arte?”) ma sicuramente interagirebbero di più. E inizierebbero a frequentare (magari anche fuori dalle domeniche gratuite) quei Musei che in Italia sembrano aver perso il loro ruolo statuario.