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Visite guidate alla Venezia della Biennale 09

ANDÁR A DINDÓN
Considerazioni semi-casuali
nell’estate 2009 dell’arte a Venezia

 

Andár a Dindòn” = andare attorno perdendo il tempo (da: “Dizionario del dialetto veneziano” di Giuseppe Boerio, editore Andrea Santini e Figlio, Venezia, 1829)

 

In genere, Venezia accoglie pigramente e con rassegnazione le transumanze dei trekkers dell’arte, perché, in giugno, iniziano caldàna (calura) e caìgo (nebbietta da calura) che fanno il cielo bianco e l’aria insopportabilmente umida e i cittadini, per schivare i forésti e approfittare della stagione considerata – tutto sommato – bassa (provate a prenotare al Bauer o al Luna in Luglio o Agosto: stanze in abbondanza e tariffe da alberghi-tre-stelle di terraferma), dimezzano il già breve periodo lavorativo e si riversano a San Nicolò, agli Alberoni, a Malamocco, a Punta Sabbioni, sino a San Piero in Volta, dove passano le giornate ad abbrustolirsi al sole, a fare bagni in acqua marrone, a girellare sconclusionatamente in bicicletta sfidando le temperature e l’adriatica penuria d’ombra, e a magnàr qualcossetta (pessetti, anguèle, garùsoli, sardèle, seppette, sfògi, cappette, risottini co’ spàresi …). In città rimangono solo gli studenti bianchicci (e i loro scoratissimi docenti) con le ultime sessioni di laurea, a spararsi birìni la sera negli accoglienti bàcari di Rialto o della Fondamenta della Misericordia a Cannaregio. In quest’anno di grazia 2009, però, con grande sorpresa dei residenti, obbligati a una permanenza straordinaria in Centro Storico per un’inattesa calata di visitatori, qualcosa è cambiato (oltre alla miracolosa tenuta di un venticello fresco che spazza il cielo pronto a ridivenire marmoreo al primo scirocco). Si apre il contestatissimo spazio n. 2 di Pinault alla Salute (strappato non senza polemiche ai progetti forse più lungimiranti del Guggenheim: mostre temporanee soprattutto dagli States e dalle altre sedi del proprio circuito museale e installazione di parte delle raccolte storiche, oggi in continua necessaria rotazione). Inaugura l’attesissima e amata Fondazione Vedova nel “triangolo delle Bermude” dell’arte contemporanea il cui aureo perimetro è costituito da Zattere, Punta della Dogana e Guggenheim sul Canal Grande a Dorsoduro. Ha inizio una Biennale fra le più attese, dopo un ritorno all’ordine che molti sentivano nell’aria o reclamavano e dopo i tonfi di un mercato dell’arte troppo speculativo e preda di un’euforia da presenzialismo che ha ricondotto critici e grandi collezionisti negl’intellettuali empirei da dove ultimamente si erano affacciati per una rapida discesa fra il popolo dei “consumatori”. La città è costellata di manifestazioni collaterali o concomitanti alla “Madre di tutte le mostre” che sembrano più attente a non disperdere in incaute operazioni sperimentali le magre risorse destinate da (quasi) tutti i Paesi alla cultura. E, alla Biennale, aria fresca con la nuova collocazione del Padiglione Italia alle Tese delle Vergini dell’Arsenale – spazio che gode, e godrà ancora, di ulteriori ampliamenti con l’aggiunta delle Artiglierie e delle Tese Cinquecentesche – e con la destinazione definitiva dello storico Padiglione delle Esposizioni a sito principe dell’evento curatoriale che dà l’impronta a questa edizione (“Fare Mondi/Making Worlds”). Il rinnovato allestimento permetterà di godere del Palazzo delle Esposizioni e dei Giardini anche in inverno e negli anni pari. L’ASAC (Archivio Storico delle Arti Contemporanee), dopo uno scandaloso periodo di chiusura al pubblico durato ben dieci anni, riapre all’interno del Padiglione delle Esposizioni e ritorna meta di consultazione e ricerca (il sito della Biennale lo qualifica testualmente: “struttura polifunzionale e versatile”). Non c’è che dire, tutto cambia, ma è davvero cambiato qualcosa? Senza osservare troppo acutamente, senza sostare troppo intensamente, senza fermarsi per speculazioni che lasciano il tempo che trovano, mi permetterò un andàr a dindòn quasi turistico, da naso all’insù e bocca aperta, sperando di non inciampare in qualche installazione o in qualche zaino a riposo. E cercherò di fornire, a chi interessa il genere, una chiave di lettura personale, proprio da pubblico pagante, quale anch’io sono sempre stata e sempre sarò.  Perché l’arte, da che mondo è mondo, si paga e – comunque – si sconta.
 
ITINERARIO N. 1
Dalla Punta della Dogana alle Zattere
(ovvero: il gianduiotto da passeggio)
 
Informazioni:
 
1)
FRANÇOIS PINAULT FOUNDATION – PUNTA DELLA DOGANA
Dove:
Dorsoduro, 2 (Chiesa della Salute) – 30123 Venezia

Come arrivarci:
Traghetto (dalla Stazione Ferroviaria):
Vaporetto Linea 1, direz. Lido, fermata: Salute (da Stazione alla Salute, ca. 40-42 minuti)
Mapping the Studio: Artists from the François Pinault Collection
Orari:
Dal 6 giugno 2009

Dalle ore 10 alle ore 19; chiuso il martedì e nei giorni 24, 25, 31 dicembre 2009 e il 1 gennaio 2010.
Chiusura delle biglietterie alle ore 18.
Biglietti:
Il biglietto d’accesso per i due siti (anche visita a Palazzo Grassi, n.d.)  valido tre giorni

Biglietto intero: 20€ per la visita dei 2 siti / 15€ per la visita di un sito
Biglietto ridotto 1: 17€ per la visita dei 2 siti / 12€ per la visita di un sito
Ogni mercoledì ingresso libero per i veneziani, su presentazione di carta d’identità o tessera Imob.
Tempo medio di visita secondo ArsLife: 1 h 20 min.
 
2)
FONDAZIONE EMILIO E ANNABIANCA VEDOVA
Dove:
Magazzini del Sale 266, Fondamenta delle Zattere
Come arrivarci:
Traghetti (dalla Stazione Ferroviaria):
Vaporetto linea 51, direz. Lido, fermata Zattere (ca. 20 min.)
Vaporetto linea 2, direz. Lido, fermata Accademia (ca. 22-24 min.)
Vaporetto linea 1, direz. Lido, fermata Accademia (ca. 32 min.) o Salute (ca. 40-42 min.)
Orario (valido sino al 30.06.09):
Da martedì a domenica:11.30-18.30
Orari di movimentazione delle opere
Gli orari di movimentazione per l’alternanza delle tre serie di opere sono i seguenti:
dalle 11.45 alle 12.45
dalle 14.00 alle 15.00
dalle 15.30 alle 16.30
dalle 17.00 alle 18.00
Biglietti
Entrata gratuita fino al 30 giugno

Tempo medio di visita secondo ArsLife: 25 min. (o più, se in movimento i teleri)

3)
PADIGLIONE CATALUNYA
Venezia, Catalunya. La Città inconfessabile

(dal 7 giugno al 22 Novembre 2009)
Dove:
Magazzini del Sale 264, Fondamenta delle Zattere
Institut Ramon Llull
www.veneziacatalunya.cat.
Come arrivarci:
Traghetto:
Vaporetto linea 1, direz. Lido, fermata Accademia (ca. 32 min.) o Salute (ca. 40-42 min.)
Orari:
Da martedi a domenica 10.00-18.00
Ingresso Gratuito
Tempo medio di visita secondo ArsLife: 25-30 min.

4)
GIANMARIA POTENZA

“L’Arca di Potenza” (curatore Giancarlo Zaramella)
(3 giugno – 30 settembre 2009)
Dove:
Giardino alla Salute, Dorsoduro Zattere 49, Venezia

Come arrivarci:
Traghetto:
Vaporetto linea 1, direz. Lido, fermata Accademia (ca. 32 min.) o Salute (ca. 40-42 min.)
Orari:
Lun-Dom. 11.00-18.00 (martedi chiuso)

Ingresso Gratuito
Tempo medio di visita secondo ArsLife: 15 min.

“Mapping the Studio” alla Salute ha un ingresso essenziale, un foyer curato, una tariffa salata (appena meno cara per noi residenti), uno stuolo di attenti guardiasala che assomigliano più a bodyguards, come a farci capire quanto siamo inappropriati ad aggirarci fra le opere esposte in questa (rap-)presentazione del “Pinault Impero dell’Arte”. E’ un posto indicibilmente bello, ma non più veneziano (il che non è affatto un male, di per sé).

Tadao Ando qui dev’essersi sentito in cielo a contrapporre quinte di cemento traforato e pannelli di betulla e ballatoi in vetro e resine, a registrare le luci artificiali che si misurassero a perfezione con quella – a cascata – naturale. E, soprattutto, a costruire gli spazi adatti per inserire le monumentali opere d’arte, simulacri della nostra cultura contemporanea.

In realtà, la sensazione, non troppo dubbia, è che la collezione della Fondazione Pinault risenta fortemente del desiderio dell’illustre proprietario di affermare (o confermare) universalmente la propria qualifica di connaisseur. Cosa che, come tutti sappiamo, non è veramente. E tralasciamo le più trite e poco utili considerazioni sul mestiere del “paròn” (conflitto d’interessi?), sull’uso strumentale di critici di fama accertata, sull’equivalenza sociologica “arte=potere”…

La mostra alla Punta della Dogana evidenzia un’aspirazione di classicità, di ponderatezza, di “scelta definitiva” del materiale artistico che si incastona nel più consueto parterre-de-roi dei nomi che contano. Ciò è caratteristico anche di altre collezioni di largo respiro e di solido impegno economico, comela Collezione Flickall’Hamburger Banhof Museum di Berlino, ad esempio, ma qui manca, al contrario della Flick, un connotato culturalmente assertivo, una scelta personale dinamica, interessata a scoprire continuamente e a cambiare prospettiva, a farsi portatrice dell’esigenza (e dell’ansia) del collezionismo contemporaneo in perenne mutazione ma sempre alla ricerca del meglio. La musealizzazione conclamata delle opere nello spazio trasformato dal maquillage che sembra innocuo, ma innocuo non è, rende l’arte qui racchiusa già passata, già – forse – un poco spenta: tutto il contrario di un luogo aperto alle dichiarazioni del “novissimo” proclamate a gran voce sin dai tempi del cambio di proprietà di Palazzo Grassi dal Gruppo Fiat al suo successore.

Eppure, molte delle opere d’arte sono “belle”. Soprattutto al piano ammezzato, dove il poderoso impatto dei mini-paesaggi apocalittici di Jake e Dinos Chapman – avvezzi allo scandalo dei corpi martoriati e modificati geneticamente da un passaggio di nube nucleare – perde un poco di spessore solo perché didascalicamente riferito a soldati nazisti (pur “salvati” dagli unici esseri zoomorfi che abbiano caratteristiche ancora incorrotte: i maiali e il pesce martello che si aggira nelle acque putride di una teca).

Bella e solenne la sala di Twombly (troppo facile, direbbe qualcuno); magistrale la serie di Cindy Sherman, un caposaldo per coloro che fanno finta di prendere sul serio la negazione dell’identità del proprio corpo; Charles Ray (autore anche dell’inquietante bimbo con la rana eretto in Punta fuori dall’antico ingresso alla Dogana, emblema del nuovo museo e dono di Pinault alla Città) è notevole, ma, inizialmente scambiando una legenda per un’altra (credevo che l’opera, rivelatasi poi “Glass Chair”, avesse titolo “Light from the left”, che è, invece, un bassorilievo), trovavo addirittura geniale l’aver installato una sedia tranciata da una lastra di vetro esattamente dove la luce naturale cadeva alla sinistra dell’ipotetico ospite a riposo. Oops…

Raffinati Fischli e Weiss, raffinato Sugimoto (ben collocato a far da cavea ai pomposi sudari di Cattelan), raffinato Mark Grotjahn (ooh, la pittura! ma quelle sue stesure sovrapposte del 2008 sono già state viste molti anni prima da Panza di Biumo)… tutto estremamente ordinato e compito.

Meno convincente il piano terreno, dove – per il mio gusto – egregiamente si difendono le opere di Felix Gonzalez-Torres, il cui dono di sintesi poetica non sarà mai troppo rimpianto; Luc Tuymans, che però è migliore quando riconquista dimensioni fiamminghe; Glenn Brown, unico vero barocco in un contesto che assembla disordinatamente minimalismo e espressionismo di ritorno, e siccome è dichiaratamente il più “antico” sembra in assoluto il più “nuovo”. Marlene Dumas è veramente grande solo nel ritratto di Dora Maar, e Stingel è grande e basta. Niente male anche le immagini di volti reclinati e i cofani dipinti di Prince, ma la sala che li accoglie tutti insieme li penalizza. I problemi di Murakami con latte e sperma sono diventati ormai un canone estetico, che, come tale, non può più essere messo in discussione.

Dopo un rigenerante prosecchino con sandwich alla lattuga (tanta) e fesa di tacchino (un velo), acquisto nella boutique del libro e merchandising d’alto bordo (peraltro sempre identico negli spazi Electa) un paio di pubblicazioni e esco all’aria aperta dove quel misterioso venticello fresco continua, malgrado l’ora di mezzodì, a deliziare il cammino.

Raggiungola Puntacon il fanciullo (un po’ efebo, un po’ troppo cresciuto, un po’ troppo…) e la doppio dopo aver immortalato i turisti e gli enormi yachts che da poco sostano in modo irritante frala Doganae l’isola della Giudecca, impallandomi il panorama che Guidi dipingeva negli anni ’30, e mi avvio alla volta della Remiera Bucintoro, l’unica rimasta delle varie ospitate sino a non tanti anni fa nei diversi Magazzini (del Sale, delle Corde, ecc.). Dopo una breve sosta nel Padiglione Catalunya (commovente: peccato non sia arte, ma denuncia sociale), entro in una corte sgangherata alla ricerca di un posto che non sia stato restaurato negli ultimi quattro mesi e assisto a uno strano allestimento un po’ da happy hour milanese. Così infatti si apparecchiano i finti giardinetti dove la gioventù meneghina si abboffa con due birre e un chilo a testa di pasta fredda e rancida. Invece qui alberga la piccola mostra dello scultore Gianmaria Potenza, buon fonditore, onesto artista di forme e colori ingenui, che dichiara devolvere il ricavato delle vendite del proprio catalogo alle genti d’Abruzzo. Non lo compro, perché, tranne un pannello nel pòrtego d’ingresso, non mi piace. Ma poi, vigliaccamente, mi pento subito. Giuro che tornerò.

Più avanti, si apre, con portone monumentale e pesantissimo, l’ingresso alla Fondazione Vedova, della quale mi incarterei tutto e lo porterei via, come si dice volgarmente. Le opere (magnifiche, ma perché diavolo di Vedova si vedono cose così solo da Salvatore Ala – quando vuole -, a Berlino e in pochissimi altri posti?), la sede e, soprattutto, i meccanismi di Renzo Piano, quei braccioni putrellati innestati in una corsia di travi di acciaio che sfilano in continuazione rendendo mobile e sempre nuovo lo scenario delle enormi tele come un gran pavese che danza. E’ emozionante. L’intervento minimo all’interno dell’ex-magazzino ha mantenuto la regalità del posto, neanche un poco infiocchettandolo: l’allestimento è nuovo, ma sembra un macchinario come quelli che poco più in là (con meno impiego di tecnologia) i reméri mettono in moto per sollevare dalle rastrelliere impilate le loro mascaréte e portarle verso il pontile e nell’acqua… In più, l’ingresso è gratis (del resto, qui, di bodyguards, neanche l’ombra).

Italia-Francia: 1-0.

Le Zattere sono un incanto nel sole di giugno. Spinta dalla solita brezza, mi dirigo verso la meta del mio andàr a dindòn: ai Gesuati, poco prima di entrare nel rio di San Trovaso. Ho perso tutto il tempo che potevo per guadagnarmi finalmente l’esperienza tutta terrena di una prova dell’esistenza di Dio (altro che trattati di Scolastica, altro che Padri della Chiesa!): il gianduiotto da passeggio, un parallelepipedo (enorme) di semifreddo al gianduia sprofondato in un bicchiere di plastica ricolmo di vera panna fresca montata al momento. Il migliore di Venezia.

Secondo me, Claes Oldenburg poteva farci un pensiero.
 
 
ITINERIARIO N. 2
SOLO SANTI SENTONO SANDY
(ovvero: troppi “esse” per Sandy)
 
 

 Sandy Skoglund con il marito Alfred Baccili a Palazzo Giovanelli, 15.06.09

SANDY SKOGLUND – The Artificial Mirrors
Mostra a cura di Sandy Skoglund, Mario Trevisan, Marco Semenzato; prodotta da San Marco Casa d’Aste S.p.A. in collaborazione con Paci Arte Contemporary e Facoltà di design e arti dello IUAV di Venezia
Catalogo a cura di Sergio Giusti e Francesco Zanot, ed. Contrasto, 2009, € 30,00 (da comprare!)
Dove:
Palazzo Giovanelli – Campo San Zan Degolà, Santa Croce 1681/a – 30125 Venezia
Come arrivarci:
Vaporetto linea 1, direz. Lido, fermata: Riva di Biasio (dalla Stazione: ca. 3 min.)
Orari:
5 giugno – 13 settembre 2009
Martedi-domenica 10-13 e 14/19; chiusura: lunedi e festività
Ingresso Gratuito
Info: tel. +39 041 2777981, www.sanmarcoaste.com,info@sanmarcoaste.com
Tempo medio di visita secondo Arslife: 45 min.

 

Attendo la chiamata di Sandy Skoglund per poterla incontrare. L’artista statunitense sta procedendo spedita all’installazione di “Shimmering Madness”, un progetto del 1998 parte dell’importante retrospettiva “The Artificial Mirrors” a lei dedicata aperta sino a settembre a Palazzo Giovanelli, sede della Casa d’Aste San Marco. Mi avevano avvertito del fatto che fosse donna di ferro, abituata solo al lavoro, tanto che la permanenza di due settimane a Venezia per l’inaugurazione dell’esposizione costituiva un unicum nella sua vita scandita da un regime severo di attività nella sua casa-laboratorio a più piani nel New Jersey (sveglia all’alba e lavoro, lavoro e lavoro sino a tarda sera, mentre il marito Alfred, mastro liutaio – e molto di più – la segue incantato e ritiene una fortuna vivere con una fonte di costante ispirazione come sua moglie). Sandy non si assenta facilmente dal New Jersey: le brevi passeggiate veneziane e i gelati comprati per strada rimarranno per entrambi i coniugi un ricordo indelebile.

Precisa come un orologio svizzero, mi chiama all’ora convenuta e molto brevemente mi fa capire che non ha tempo per un’intervista, perché partirà il giorno seguente e utilizzerà tutto il tempo a disposizione per l’installazione, ma che volentieri mi farà rimanere ad assistere per quanto vorrò.

Decido che Sandy ha bisogno di energia o quantomeno di una pausa (ritenendo sia del genere umano normodotato quale io sono) e acquisto da Gino, il pasticcere del piccolo Bucintoro vicino a Campo San Polo, un sacchetto di “esse”, o “essi” (i tipici biscottini dalla forma omonima fatti di farina e uova e dalle radici gastronomiche dichiaratamente levantine), e mi avvio verso Palazzo Giovanelli, attraversando alcuni dei Campi più belli e più “scònti” – nascosti – di Venezia, Campo San Giacomo de l’Orio (San Giacomo dell’Orologio) e Campo San Zan Degolà (San Giovanni Decollato). Osservando le nobili architetture anche dei più semplici palazzi, mi auguro che le facciate miracolosamente ancora délabré di alcuni di loro rimangano tali e non si ricoprano del pastone rosa confetto o bianco malattia che ora va tanto di moda (e si sfarina nell’arco di pochi mesi, perché gli intonaci veneziani vanno preparati e colorati direttamente in massa e non spalmati con un velo di tinta sopra le malte di copertura). Utopia. Anche qui, prima o poi, si assisterà impotenti a qualche ristrutturazione “esclusiva” che toglierà ogni carattere antico – e unico – a queste meraviglie.
A Palazzo Giovanelli, Sandy e uno stuolo di giovani assistenti sfiancati (loro) dalla stanchezza si apprestano a montare alle pareti pesanti pannelli neri ricoperti da un manto di farfalle finte che si muovono con naturale disaccordo attraverso un meccanismo posto sul retro di ogni singolo pannello (un quadrato di ca. 50 cm. di lato) costituito da tre bracci sottili che, ruotando, sfiorano i lievi bastoncini eccedenti che reggono gli animaletti. Ogni meccanismo è collegato ad un regolatore e a un impianto elettrico, il che fa di questo cielo di farfalle un incredibile tableau-vivantche contrasta con la voluta staticità del resto dell’opera.

A terra, un pavimento di smarties (i confetti al cioccolato ricoperti di glassa zuccherina dai colori vivaci), anch’esso costituito di pannelli, sul quale è riversata una colata di resina trasparente ad impedire che le chicche (al caldo di Venezia e alle variazioni di temperatura del complesso trasporto dall’America all’Italia) si sdilinquano in un mare di nutella. Sopra il pavimento, due manichini, anch’essi punteggiati di confetti colorati, in pose di fuga o di danza. L’installazione (che vedrò montata solo due giorni dopo questo incontro) è destinata alla Collezione Paci di Brescia che collabora alla produzione di questa manifestazione.

La mostra è stupefacente. Uno degli eventi inaugurati in concomitanza con la 53a Biennale senz’altro di maggior caratura.

Il marito Alfred – provvido per l’assistenza che fornisce con affetto e partecipazione – sta registrando i meccanismi dei pannelli e verifica che ogni ingranaggio sia rimasto perfettamente regolato dopo il trasporto transoceanico. Egli si rivelerà la fonte preziosissima di informazioni sugli aspetti più singolari del lavoro della moglie che è, non a torto, considerata una delle più importanti artiste viventi della fotografia mondiale.

Alfred scambia con Sandy proficui appunti professionali: le sue capacità, che provengono dall’esperienza e dalla sensibilità tutta meccanica-e-orecchio della liuteria, a detta di se stesso sprovviste di ogni qualità creativa o geniale – ma non è vero -, spesso danno lo spunto per nuove soluzioni di assemblaggio delle idee della moglie, ambienti surreali riconducibili formalmente all’interno del filone della staged photography, nato a cavallo degli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo.

Le realtà fittizie sono più reali del Reale: la Natura, così com’è, è poco interessante se l’uomo non può ricostruirla secondo un occhio “migliorativo” – positivistico – che la trasforma in un adattamento più consono alla modernità. Ma questa teoria è lontana dalle soluzioni espressive della fotografia pubblicitaria e della comunicazione massmediatica, che hanno pretesa di realtà esse stesse, facendo della finzione un’illusoria replica di mondi perfetti. Sandy non vede mondi perfetti e non ha lezioni da impartire; vede mondi da modificare, ambienti che possono assumere altre caratteristiche da quelle usuali e quotidiane, territori che hanno come comune denominatore simboli riferibili sì alla vita dell’uomo, ma che diventano qualcos’altro dal concetto visivo di partenza (una cucina, un tinello, una spiaggia…). Senza dimenticare la componente del gioco e dell’umorismo che potrebbe divenire dissacrante e sconfinare nel kitsch, ma che rimane lieve tocco d’artista. Un po’ come Fellini fa con le sue complesse scenografie filmiche.

Però Sandy rifiuta ogni artificio nella ripresa: non c’è trucco né alterazione di colore, né di inquadratura, né manipolazione con tecniche digitali o photoshop. Tutto ciò che le sue opere mostrano è la ricostruzione paziente di ogni singolo particolare, installato secondo l’ordine dettato dall’otturatore, in modo che quest’ultimo sia la prospettiva attraverso cui l’ambiente viene costruito. Così in “Hangers” del 1979 (uno dei primi scatti di Sandy dedicati al genere) sarebbe impossibile che “naturalmente” la macchina fotografica inquadrasse con tale precisione ogni appendiabiti all’interno dei campi definiti dalle cartelle a giorno delle sedie o delle aree libere del pavimento… Sandy stabilisce precedentemente dove saranno collocati gli elementi che costituiscono la scena, cosicché anche le componenti “vive”, gli attori, si possano muovere abbastanza liberamente, ma senza interferire con il piano di montaggio fotografico. In “The Wedding” del 1994, ad esempio, gli sposi dovrebbero incontrarsi in una stanza foderata di marmellata (alle pareti di fragole, stabilizzata con resina trasparente, a terra di arance, vera e fresca e continuamente rabboccata durante le riprese): sembrano intrappolati in quel mare di melma dolciastra, ma in realtà – come spiega un filmato presente in mostra -, almeno per lo sposo, c’è ma non si vede un corridoio pulito lungo il quale camminare sino a raggiungere la postazione voluta.

Tutto serve: in “Raining Popcorn” del 2001 (per cui ad ogni ricostruzione bisogna sfornare chili e chili di popcorn fresco, ma solo per il pavimento) il popcorn dei muri e sui rami degli alberi è incollato a scovolini di pipa, oggetti che, a guardarli bene, avresti sempre detto che potevano anche essere un fuoco di braci…

La fatica del fare artistico di Sandy è vera e onesta: ci vogliono due o tre anni per arrivare al progetto definitivo di ogni opera e almeno un trimestre per costruire ogni singola installazione; nel frattempo, c’è la ricerca per la “migliore” patatina al formaggio (quella che si conserva meglio nei giorni di posa e della quale non posso certo dire la marca, altrimenti arriva veloce una querela…) in “The Cocktail Party” del 1992, per la “miglior” pasta d’hamburger in “Spirituality in the Flesh” del 1992 o del “miglior” bacon in “Body Limits” dello stesso anno.

E ancora, Sandy è un’artigiana: si occupa personalmente di meccanica, oreficeria, falegnameria, ebanisteria, soffiatura e modellatura a lume e taglio del vetro, carpenteria, selezione e conservazioni cibi e materiali organici, zootecnia e botanica, ceramografia, fusione a cera persa e battitura metalli, sartoria e acconciature, elettroidraulica e condizionamento ambienti, dipintura su qualsiasi supporto e materiale, produzione artigianale di carta e stampa (soprattutto xilografia, con matrici intagliate dall’artista). Si allena anche fisicamente per mantenere la forza necessaria a continuare nell’opera di costruzione delle sue architetture.

Sandy è un inesauribile contenitore di informazioni e immagini che, con un procedimento che Alfred definisce “creative gear” (congegno creativo), riutilizzerà anche dieci o dodici anni dopo averli trovati, ricoverati e catalogati.

Alfred, che di mestiere per la verità fa il “modificatore di strumenti musicali” (ogni strumento che attira la sua attenzione viene sezionato e analizzato e, poiché secondo lui dovrebbe produrre un suono diverso da quello originario, viene alterato nella meccanica e nei timbri con l’innesto arbitrario e sperimentale di ponti o legni all’interno delle casse armoniche, con l’installazione di corde di violino in violoncelli o chitarre, con la produzione di nuove altezze tonali per tastiere di fisarmoniche, ecc. sino a quando il liutaio non decide che il nuovo suono – che non intende produrre, perché lo “sente” già – è arrivato), racconta che a Soho c’è un gatto verde dell’installazione “Radioactive Cats” del 1980, uno scatto ormai irreperibile sul mercato. Scartato perché secondo Sandy era riuscito male e recuperato chissà dove, ha trovato asilo sul cornicione esterno della finestra di un palazzo. Marito e moglie rimangono tuttora sorpresi per la longevità del manufatto: acqua, sole e vento non hanno prodotto alcun danno dopo trent’anni, il verde inquietante della “radioattività” rimane inalterato.

Saranno anche fittizi, effimeri, ma i materiali resistono alle intemperie, e i mondi di Sandy sono destinati a non morire neanche dopo lo scatto che li ha nobilitati.

La conversazione è appassionante. Sandy Skoglund che, nel frattempo, non ha mai interrotto il lavoro, non sembra intenzionata a fermarsi per una pausa. I ragazzi sono esausti. Devo andarmene, non prima di avere osservato di sguincio il pacchetto ancora intonso degli squisiti “esse” di Gino: spero li assaggeranno, sono così magri entrambi… Mi hanno detto che in due, al ristorante, mangiano un piattino di spaghetti alle vongole (gustando vongole e spaghetti uno per uno e guardandoli con aria complice… magari ne vien fuori un’installazione) e uno ancora più esiguo di verdurine al vapore.

A me, invece, a vedere tutta questa dedizione e indifferenza al tempo che passa, è venuta fame.

Ho da scegliere, sulla via del ritorno, in Campo San Giacomo de l’Orio, fra la Zucca (Ponte del Megio, chiuso la domenica, tel. 041 5241570) bàcaro creativo con pietanze dai sapori orientali e buona carta dei vini o, a due passi, nel campielletto del Piovan dietro la chiesa di San Giacomo, uno degli angoli più incantevoli di Venezia, il Réfolo, ristorantino un poco più pretenzioso da frequentare con la bella stagione (chiuso lunedi e martedi mattina, tel. 041 5240016, aperto da aprile a ottobre), per un piatto unico preparato con attenzione e un’ottima scelta di birre alla spina.

Poiché per me va bene ogni opzione, lascerò decidere ai miei ospiti (dei quali mi sono quasi scordata). Noi, però, gli “esse” li mangeremo, alla fine del pranzo, con un bicchiere di dolce quanto raro Soandre. Un’altra ESSE…
(a Marinella, donna forte dell’arte)

Shimmering Madness, 1998.
installazione in occasione della mostra: Sandy Skoglund – The Artificial Mirrors

In questa e nelle prossime immagini: sale della mostra Sandy Skoglund – The Artificial Mirrors dal 5 giugno al 13 settembre 2009

 

ITINERIARIO N. 3
DA SAN STAE A DE ‘À DA L’AQUA IN STRADA NOVA
(ovvero: zioba/giovedì gnochi, venere/venerdì pesse, sabo/sabato tripa. E marti/martedì? Musei!)  


1)
Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna
Dove: Santa Croce, 2076 – 30125 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione 11 min.: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata S.Stae. Si scende dal vaporetto e si va a sinistra in fondo al Campo della Chiesa di S. Stae (pochi passi a piedi)
a. Ars Aevi Project – Museum of Contemporary Art Sarajevo: Braco Dimitrijevi ć Post Storia Futura.
b. BERNARDÍ ROIG – SHADOWS MUST DANCE
c. NON VOLTARTI ADESSO! – Artisti Italiani a Ca’ Pesaro
Orari: 5 giugno – 8 novembre 2009
Orario 10/17 (chiusura biglietteria alle ore 16, ATTENZIONE!), chiuso il lunedi
Biglietti: Ingresso con il biglietto del museo
Intero 5,50 euro
Ridotto 3,00 euro
Gratuito per residenti e nati nel Comune di Venezia; bambini 0/5 anni; portatori di handicap con accompagnatore; ecc.
PRENOTAZIONI e INFORMAZIONI
www.museiciviciveneziani.it

call center 0415209070
mkt.musei@comune.venezia.it

Tempo medio di visita secondo Arslife : Braco Dimitrijevi ć , 25 min. ca.; Bernardi Roig 50 min. ca. (se non ci si ferma nelle sale del Museo); Non voltarti adesso! 35 min. ca. 

2)
Padiglione della Svizzera (53a Biennale, delegazioni internazionali fuori Giardini e Arsenale)
Dove: Chiesa di San Stae, Campo San Stae, 30125 Venezia
Come arrivarci: Dalla Stazione 11 min.: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata S. Stae.
FABRICE GYGI
Orari: apertura continua dal mattino sino alle ore 18 ca.
Biglietti: Ingresso gratuito
Tempo medio di visita secondo Arslife : 10 min. 

3)
Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ D’Oro
Dove: Cannaregio 3932 (Strada Nova) – Venezia
Come arrivarci: Dalla Stazione 13 min.: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata Ca’ D’Oro.
L’ANIMA DELL’ACQUA – Contemporary Art (Bill Viola, Fabrizio Plessi e altri 15 artisti contemporanei)
Orari: dal 6 giugno fino al 22 novembre 2009; lunedi’ 8.15-14.00 (ultimo ingresso ore 13.30), martedi – domenica 8.15-19.15 (ultimo ingresso ore 18.45)
Biglietti: Mostra visitabile con il biglietto d’ingresso al museo
I
ntero:   € 12,00  (+ € 1,00 per il diritto di prenotazione) R idotto: € 8,00 (+ € 1,00 per il diritto di prenotazione)
Tempo medio di visita secondo Arslife : solo la mostra 45 min. ca.; ma conviene restare a visitare il Museo. 


Bernardi Roig, L’uomo della Luce, 2007
“Shadow Must Dance”, Ca’ Pesaro  

È martedi… Quasi tutto chiuso: Fortuny, Ca’ Foscari, Arsenale, più o meno tutti i Musei e le sedi espositive in Città (i Giardini rimangono aperti, però). Fortunatamente, c’è qualcuno che si salva e mi salva.  

Giornata dedicata alle mostre correlate alla Biennale con una particolarità: l’essere all’interno dei percorsi espositivi di Collezioni pubbliche. Ca’ Pesaro, Museo di arte moderna, e Ca’ D’Oro Galleria Giorgio Franchetti, di arte antica, con una breve digressione nel distaccamento del Padiglione Svizzero nella barocca Chiesa di San Stae, ovvero Sant’Eustachio. 

Ca’ Pesaro accoglie ben tre rassegne, tutte di buona qualità: un filo conduttore questo, insieme a una più evidente ricerca estetica tout-court che caratterizza buona parte di queste manifestazioni biennaliere 2009. 

A piano terreno un bravo Braco Dimitrijevi ć impegna tutto l’ampio spazio a disposizione con l’interessante opera “Sailing to Post History” costituita da tre grandi barche cariche di scarpe di abitanti di Sarajevo sulle quali sono enormi ritratti bifronti di artisti del XX secolo (Goncharova, Kafka, Marinetti, Tesla, Malevich, Magritte), vele psicopompe che accompagneranno le generazioni perdute di Sarajevo verso il loro destino, ma anche vascelli di speranza verso il rinnovamento della società artistica e culturale non soltanto della Bosnia-Herzegovina. L’artista insiste sul concetto del “buon” passato come bussola universale da seguire per il futuro; il suo lavoro fa parte di un esaltante progetto di ricostruzione (presentata durante la Biennale del 1993 e iniziata nel 1999 con la posa della prima pietra da parte di Renzo Piano e un numeroso stuolo di intellettuali di tutto il mondo) di un Museo di Arte Contemporanea a Sarajevo, la cui ideazione si deve all’Associazione Ars Aevi Project. Il Museo ha già una ricca collezione d’opere (bello e gratuito il catalogo) donate da molti enti culturali internazionali. Gli artisti bosniaci lavorano incessantemente alla promozione dell’Istituto, spinti dall’urgenza di trasmettere il verbo della pace e dell’uguaglianza sotto l’egida della cultura.

Benché io sia dell’idea che mai, a nessun prezzo e per nessun fine o redenzione un essere umano debba passare sotto certe forche caudine, mi trovo inevitabilmente – e senz’altro demagogicamente – a confrontare gli eroici destini di questi sfortunati uomini con le comode quanto bizzose vite dei nostri “provinciali” acclamati young artists, paghi di vendite facili (quando arrivano) e di una noterella del curatore da salotto buono. Non tutti, of course. C’è poco da dire: il risultato delle differenti pulsioni che muovono questi e quelli sono ben visibili qui e all’Arsenale (Padiglione Italia). Dixit. 

Al primo piano, all’interno del percorso costituito dalle acquisizioni del Comune di Venezia alle Biennali passate (ultimo direttore dell’Ufficio vendite e acquisti, Ettore Gianferrari), e annunciato dall’omone che trascina un fascio di luci al neon sulla scalinata, c’è un curioso Bernardi Roig che misura e contrappone con intelligenza i suoi personaggi sempre più affaticati dal peso della cultura (che distanza dal piano terreno!) con alcune delle opere storiche della Collezione civica. “Shadow Must Dance” è l’epopea dell’Uomo che si dissolve nel nulla o nella fuga sopraffatto dal troppo vedere, la condanna peggiore a cui fu sottoposto da un Dio cinico o da una Natura barbara e indifferente. E il vedere è il senso primo della cultura (dalla radice indoeuropea ƒid, poi gr. ε ĩ δον, e lt. video = formo un concetto attraverso l’osservazione, comprendo), questa intesa come un prodotto innaturale dell’attività umana e quindi nemica dell’alleanza originaria fra natura ed esseri viventi. Principio di matrice romantica e decadente e molto “occidentale”. Del resto, Roig si trova benissimo a dialogare d’aprés Ingres con Favretto, o in un icastico memento mori con Grubicy De Dragon; assai riuscito, poi, il connubio fra “Madame X” del 1896 di Medardo Rosso e “Mouthlight exercises” del 2004, dove una testa è costretta a trattenere nelle fauci una luce che non si spegne, inesprimibile condanna contro ciò che è forzata a vedere. E ancora, “Antónfrozen” è una statua/frigo che, al variare dell’umidità presente in sala, si imperla di gocce d’acqua: il poveruomo è obbligato, letteralmente “sudando freddo”, a colloquiare con il ritratto dello scultore Schreitmüller dipinto da Leibl nel 1872. Davanti a un paesaggio urbano di Sironi staziona invece il video “Chiuso nella propria testa” in cui un infelice è rinchiuso in una stanza alla ricerca di un’uscita che non c’è, mentre, sempre in video, una moderna Salomé prende a calci, traendo ispirazione dall’omonima opera di Klimt, una testa in argento destinata a subire ogni trattamento infamante. Ma il vessillo del progetto di Roig a Ca’ Pesaro è il gruppo plastico “Diana e Atteone” del 2005 in cui Atteone è colto nel momento della metamorfosi da uomo a cervo: la testa è già di animale. Egli ha veduto (e, con Roig, posseduto) il sacro, il divino e per questo è condannato a perdere sembianze umane: “L’occhio è la ferita più profonda del corpo”. Non altrettanto riuscito è invece l’abbinamento con Morandi, ma, in fondo, è una pecca da poco: neppure il Morandi è così strabiliante…

Attraverso le sale della Galleria, quasi senza accorgermi delle scodelle di Casorati, di un Perilli (“Viaggio nel cuore delle cose”) acquistato alla Biennale del 1958, di un Tancredi di prim’ordine, di un Santomaso bellissimo, dello Spazialismo veneziano… Ma, a poco a poco, anche gli uomini di Roig, sopraffatti dalla fatica di osservare=comprendere, lasciano sempre meno tracce di sé, si nascondono dietro alle opere, cercano di scappare da uscite laterali, si abbandonano negli angoli più nascosti, sino a perdersi e scomparire. Di loro rimangono solo suoni nel buio, l’eco di presenze che erano e che – forse – ci hanno tirato un brutto scherzo, abdicando alla loro positivistica umanità. 

Salgo al secondo piano, riaperto al pubblico da questo stesso giugno 2009, che un tempo era il magazzino di Ca’ Pesaro e dove oggi si visita, sempre a contatto con opere qui monumentali della Collezione civica (un bustone di Wildt, gli enormi pannelli di Giulio Aristide Sartorio…), la rassegna “Non voltarti adesso” che presenta una selezione di opere di dieci artisti italiani, a cento anni dalla prima riunione in queste stesse sale degli artisti capesarini. Non c’è un particolare filo conduttore fra Sergio Breviario (1974), Liliana Moro (1961), Anna Franceschini (1979) e Nico Vascellari (1976) nel video, Lorenza Boisi (1971) e Giulio Frigo (1984) nella pittura, Franco Guerzoni (1948), Flavio Favelli (1967), Paolo Gonzato (1975) e Luca Trevisani (1979) con installazioni ambientali.
Non è un gruppo unitario ma una serie di visioni molteplici. Proprio come nelle lontane secessioni capesarine, quando artisti diversi per stile e poetica ebbero la possibilità di esporre i propri lavori, sotto l’unico impulso del rinnovamento. Anche qui, inevitabile, parte il confronto: se considero le ottime prove di Nico Vascellari che inonda la prima sala di un’evanescente forma proiettata da un raggio giallo, Giulio Frigo (“Perfetto Sconosciuto” 2009), Lorenza Boisi e i suoi quadretti della memoria, la sempre perfetta Liliana Moro e la scelta del periodo migliore di Franco Guerzoni con i suoi muri intonacati da cui occhieggiano immagini fotografiche di case perdute e rammento il Padiglione Italia, preferisco non dire… 

Quasi per soffrire volontariamente salgo ancora, con un attimo appena di titubanza, sino al terzo piano dove giace (è il caso di dirlo) la ormai ex-straordinaria Collezione di arte estremo-orientale del Principe di Borbone conte di Bardi, raccolta in un viaggio durato un biennio nel 1887-9 e dalle vicende piuttosto avventurose. Quello che dovrebbe e potrebbe essere il più importante museo di arte giapponese (e dell’est asiatico) d’Italia e forse d’Europa – e di cui pochissimo si sa – è lasciato alle poche cure di una direzione sprovveduta che, negli anni, non promosse alcuna manifestazione di rilievo, non incentivò scambi culturali con musei “fratelli”, non cambiò di un grammo i già vetusti e improbabili allestimenti, alcuni dei quali – i migliori – recuperati da quelli del 1928 del Barbantini. Nelle stanze desmentegade resistono alla mancanza di cartellini didattici, di luce adeguata (in alcuni settori è proprio l’impianto a non funzionare e devi vagare quasi al buio) e di qualsiasi apparato documentale, pile e file di oggetti – forse importantissimi, forse meno, ma non lo sapremo mai – in un casuale display che farebbe felici ilari trovarobe, ma non il visitatore che se ne esce sconsolato e convinto che forse non valeva neppure la pena di salire le ripide scale per varcare quelle sale inospitali.

Non comprendo e non mi adeguo, quindi me ne vo.  

Emergo alla luce consolatoria del mattino veneziano e arrivo in Campo San Stae dove prenderò il battello per un’unica fermata in direzione San Marco sino alla Ca D’Oro.

Mi fermo, però, qualche minuto nella Chiesa di San Stae (praticamente aperta solo per ospitare manifestazioni della Biennale) dove si ammira, oltre a qualche pala di Tiepolo, Ricci, Pittoni, Piazzetta, Vecchia – giusto per fare qualche nome -, l’installazione che più svizzera di così si muore dell’artista Fabrice Gygi, “Economat”. È un’imponente scaffalatura in acciaio che insiste su due grandi aree simmetriche all’interno della chiesa. Rappresenta la necessità di catalogare, ordinare, ricoverare, sottoporre le idee a cernita per una futura ricostruzione di luoghi e tempi, ma anche di organizzare lo spazio in cui viviamo, affinché possiamo osservarlo da ogni angolatura. Non so esattamente se sia arte, ma mi piace e mi piace il senso di pulizia e essenzialità che il secondo rappresentante della delegazione svizzera alla 53a Biennale conferisce alla stessa chiesa, come per “ripulirla” e indirizzare il visitatore con rinnovata energia verso le opere più antiche. Una sorta di “opera strumentale”, se così si può dire.

Ma ora vado di là dall’acqua. 


Torso di epoca romana, copia di originale greco, in marmo bianco, I sec.d.C.
Collezione Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ D’Oro  


Fabrizio Plessi, L’Anima degli addii, mixed media, 2009
 
 

La Galleria Franchetti alla Ca’ D’Oro è un’istituzione di importanza primaria per Venezia, con una collezione di arte antica fra fiamminghi (vale la pena di fermarsi abbacinati dalla Crocefissione di Memmling o dalla Torre di Babele di Jan Van Scorel o dal ritratto di vecchia signora di Anthonis Mar) e artisti di terra d’Italia (soprattutto veneti, toscani e lombardi) con un excursus temporale che va dall’epoca romana imperiale sino al 1500 ca.

Devo ripetermi questo mentre pago il salatissimo biglietto (“razzista”, fra l’altro: più caro per i visitatori extra-UE, per cui le garrule famigliole Americane s’incupiscono subito dovendo sborsare l’equivalente di un pasto veloce per tutti, grandi e piccini). 

Ma sono qui per la mostra “L’Anima dell’Acqua”, attirata dal ricco parterre-de-roi offerto dai curatori, in primis dei mostri sacri Fabrizio Plessi e Bill Viola, ma comprendente anche nomi come Aikman, Andersen, Arrivabene, Buccella, Coltro, Costa, Damiani, Demetz, Ghibaudo, Gilardi, Inferrera, Papetti, Raffaelli, Robusti, Stoisa, quasi tutti italiani, quindi. Le opere, inserite all’interno di stanze semi-chiuse collocate al centro del percorso espositivo della collezione di arte antica o all’interno della stessa, seguono il tema – un poco superficiale – dell’acqua nelle sue infinite accezioni simboliche in mitologia e letteratura come emblema di maternità, viaggio e metamorfosi, morte e vita, oblio e purificazione, o antropologiche e sociali quale fonte di sostentamento e di squilibrio fra popoli ricchi e poveri. 

Gli interventi contemporanei sono “spiegati”, con un’insistenza per me controproducente, da pannelli scritti fittamente intorno a ogni singola accezione del prezioso liquido e con il supporto di citazioni di poeti e scrittori antichi e moderni (Talete, Eraclito, Tertulliano, San Francesco, brani dall’Antico e dal Nuovo Testamento, Mircea Eliade, Baudelaire, Saint-Exupéry, Emily Dickinson, Rondoni, Mussapi, Pontiggia, Giudici, Coppioli, Conte, Cerarosco…). Troppi scritti, troppe spiegazioni, troppe didascalie, troppa pesantezza per tenere insieme un percorso teorico che, si vede, è di per sé debole. Forse si doveva lasciare che le opere parlassero da sole.

Quindi passo a quelle. 

Al piano terreno, Plessi occupa tutto il vasto atrio quattrocentesco dai pavimenti cosmateschi inanellati come trine di pizzi di marmo: l’androne e la corte interna sono talmente straordinari che qualsiasi opera prenderà luce se collocata nel suo seno. E difatti, Plessi, che per noi è un pilastro della video-arte (ricordo ancora l’emozione, tanti anni fa a Palazzo Fortuny, dell’installazione di video catodici con il nuotatore che attraversava un mare immaginato al suono regolare delle bracciate e dei cerchi e dei brevi spruzzi nell’acqua) ritorna ad uno dei suoi temi preferiti, qui forse un poco più stanco che altrove, benché sempre d’impatto. Acqua e barche, omaggi a una Venezia che Plessi non da così tanto tempo ha pienamente riconquistato, e solo a frutto di lavoro durissimo e costante. Onore al merito. 

Al piano superiore parte la mostra con i contenitori di cui sopra. Bill Viola delude un poco perché, mentre le scrittone invadenti occupano tutte le pareti possibili delle costrette pareti effimere, i suoi video, solitamente di dimensioni generose, sono riprodotti in formati minimi. Talché si (s)perde la leggiadria e il rigore di “The Passing” o di “Moonblood” del 1977/79 che ricorda il tocco del miglior Ansel Adams, mentre “The Reflecting Pool”, con un salto congelato in aria e l’acqua della piscina che si frange quieta al disotto, riduce grana e definizione nel video piccolissimo. Viola è sempre potente, soprattutto in “Angel’s Gate” del 1989 dove le citazioni al repertorio manieristico di Spagna e Italia sono più evidenti, ma anche in questo caso, verrebbe voglia di vedere quella melagrana che cade dall’albero in un posto migliore. 

Gabriela Ilijesta, macedone,sembra riprendere antichi patterns di Plessi con il suo “Voda” del 2007, un cono in bronzo sul cui fondo un video racconta la storia della sete e il terribile rapporto di sudditanza dell’uomo all’elemento raro e fondamentale. Mi piace. Aaron Demetz ha raggiunto il suo scopo con la doppia partecipazione alla Biennale in questa sede e al Padiglione Italia, ma, qui come laggiù, non convince pienamente con il suo “Homo erectus (Petra)” del 2008; altrettanto dicasi per Davide Coltro e i suoi paesaggi sul Po (credo) effettuati con pittura digitale (ma non è un ossimoro? Forse sono troppo antica). Meglio si comporta Dario Ghibaudo offendo al visitatore un passo di pescetti (“Museo di Storia Innaturale, Sala XIII. Pesci e anfibi 550 pesci fuor d’acqua” del 2008) che si inserisce allegramente e con vivacità davanti all’esafora del primo piano nobile. Poi ancora pittura, abile e di certa scuola, ma priva per me di voglia di reale rinnovamento: esercitazioni colte mi sembrano infatti le Ofelie di Andersen, i capri antitetici di Arrivabene, il bastimento(fuori)/dirigibile(sotto) del mondo subacqueo di “Aqua 6” di Costa, e perfino il buon Gilardi è deboluccio con il suo quadrello di “Mare/Spiaggia” del 1983. 

 

 

 

 
Dario Ghibaudo, “Museo di Storia Innaturale, Sala XIII. Pesci e anfibi 550 pesci fuor d’acqua”.
M
ixed media, 2008


Giacomo Costa, “Aqua 6”, olio su tela, 2008 

Buono il “Narciso” di Luigi Stoisa che con sintesi efficace, anche se un po’ facile, attira l’attenzione sulla condizione umana; ma poco più in là non riesce la quasi omologa operazione di Luisa Raffaelli e i secchi pieni di volti.

Ultimi quadroni: Enrico Robusti con “Piove la goccia blu”, ingegnoso ma troppo macchinoso e un Papetti enorme che smentisce il titolo dell’opera (“Studi per salto”) nelle dimensioni impossibili da arrotolare per poi rimettere alla copia: un trittico del 2007 che tradisce la sottile arroganza del buon pittore e dell’omaggio colto al genere senza quel tocco di genio vero che ne avrebbe fatto un’opera straordinaria. Peccato. Quando si sa di essere troppo bravi (e troppo richiesti in lista d’attesa…).

Pur interessata alla mostra, mi rifaccio l’occhio con una vera perla della Collezione del Barone Franchetti: il Doppio ritratto di Tullio Lombardo (Venezia 1455-1532) che da solo merita incondizionata venerazione.

Devo tornare verso casa. Troppa acqua. Pioviggina, fra l’altro.

Prendo appuntamento per un desvìo prima di rientrare. Ci fermeremo a pranzo dai nostri amici al “Mocenigo” dove le ricette sono di una Venezia ottocentesca nobilissima pur casalinga (tel. 041 5231703 chiuso il lunedi), ma per arrivarci devo riattraversare l’acqua a ritroso sino a San Stae e infilare la calle davanti all’imbarcadero di pochi passi, giusto davanti al Museo di Storia del Tessuto e del Costume di Palazzo Mocenigo. Quando avanzo la proposta dei cestini di verdurine fritte e di un piatto di capelunghe, dall’altra parte dell’aere sento un coro entusiastico di assenso.

Fotografie di Cristiana Curti

ITINERARIO N. 4
DA CA’ VENIER DEI LEONI A SAN POLO
(ovvero: Guerra Fredda? No, grazie!)

1. Collezione Peggy Guggenheim, Palazzo Venier dei Leoni
Dove: Dorsoduro 701 (zona Accademia) – 30123 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata Accademia, 31 minuti; Vaporetto Linea 2 diretto (direz. San Marco, Lido), fermata Accademia, 20 minuti. Dal vaporetto ci si dirige a sinistra in direz. Chiesa della Salute (ca. 5 min. a piedi)
ROBERT RAUSCHENBERG – GLUTS
Apertura e Orari: 29 maggio – 20 settembre 2009
Orario: 10-18, chiuso martedi
Biglietti: intero € 12; ridotto €  10/7
PRENOTAZIONI E INFORMAZIONI
info@guggenheim-venice.it; www.guggenheim-venice.it
tel. +39 0412405411; fax +39 0415206885
Tempo medio di visita secondo ArsLife : 50 min.

 

2. Ca’ Rezzonico – Museo del Settecento veneziano
Dove: Dorsoduro 3136 – 30123 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata Ca’ Rezzonico, 29 minuti
THAT OBSCURE OBJECT OF ART – Arte contemporanea russa dalle collezioni della Stella Art Foundation
Apertura e Orari: 4 giugno – 5 ottobre 2009
Orario: 10/17 (biglietteria 10/16), chiuso martedì
Biglietti: i ngresso con il biglietto del museo; intero € 6,50, ridotto € 4,50
PRENOTAZIONI E INFORMAZIONI
www.museiciviciveneziani.it
call center 041 5209070
Tempo medio di visita secondo ArsLife : 1 h e più (perché non si può non fermarsi ad ammirare gli affreschi del Tiepolo della Sala dell’Allegoria Nuziale o i ritratti di Rosalba Carriera e Gaspare Diziani nella Sala dei Pastelli) 

3. Università  Ca’ Foscari – Ca’ Giustinian dei Vescovi
Dove:
Dorsoduro 3246 – 30123 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata Ca’ Rezzonico, 29 minuti.
All’uscita della calle che parte dall’imbarcadero si entra in Campo S. Barnaba, poi a destra per qualche minuto.
BRUCE NAUMAN – Topological Gardens
Apertura e Orari: 6 giugno – 18 ottobre 2009
Orario: 10-18, chiuso martedì
Biglietti: i ngresso gratuito
INFORMAZIONI
cafoscari.fr@unive.it; www.unive.it/cafoscari.fr
+39 0412346942 , +39 0412346941 (fax)
Tempo medio di visita secondo ArsLife : 30-40 min.

4. Padiglione dell’Ucraina (53a Biennale, delegazioni internazionali fuori Giardini e Arsenale)
Dove:
Palazzo Papadopoli, San Polo 1364 – 30125 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata S. Silvestro, 22 minuti. Dall’imbarcadero si arriva in Campo San Silvestro, da lì si imbocca una calle a sinistra del Campo e, sempre verso sinistra, si supera Campo San Aponal e si giunge a Palazzo Papadopoli in tutto ca. 5 minuti. Provenendo da Campo San Polo, invece, si procede in direz. Rialto, si supera il Ponte della Madoneta, pochi passi e si arriva al Padiglione.
ILLYA CHICHKAN, MIHARA YASUHIRO – Steppes of Dreamers
Apertura e Orari: 6 giugno – 22 novembre
Orario: 10-18 ca. (meglio non arrivare all’ultimo minuto, si rischia di trovare chiuso!), chiusura lunedi
Biglietti: i ngresso gratuito
INFORMAZIONI
www.ukrainianpavilion2009.org
Tel. 041 5228770
Tempo medio di visita secondo ArsLife : 20 min. 

 

Robert Rauschenberg, Sunset Glut, 1987, metallo assemblato e plastica, cm. 154,3x210x72,1
(© Estate of Robert Rauschenberg) 

Oggi individuo una direttrice tematica che mi porterà da Ca’ Venier dei Leoni, la residenza di Peggy Guggenheim (e Fondazione a lei intitolata), prima della Salute, mi condurrà in nobili palazzi veneziani, sino a giungere in Campo San Polo e poco oltre. In tutto, a piedi, per questo tragitto non ci vogliono più di 25 minuti. Molto di più occorre se si seguono i miei “desvii”. 

Le ben quattro tappe di questo itinerario conducono in una particolare stanza dell’arte che attraversa la storia recente di due grandi Paesi, U.R.S.S. e U.S.A., i cui rapporti reciproci hanno incendiato la seconda metà del ‘900, e che hanno sviluppato, negli anni fra la fine dell’era della Guerra Fredda e il periodo immediatamente posteriore, differenti esiti artistici. 

A Ca’ Venier dei Leoni (Fondazione Guggenheim), uno dei siti più belli e accoglienti di Venezia, amatissimo dai residenti, c’è una bella mostra intorno ad una poco nota produzione scultorea di Robert Rauschenberg, produzione che costituisce una vera svolta – anche in termini di sensibilità politica – nella carriera del Nostro, il quale acquisisce, con le serie dei “Gluts” una raffinatezza linguistica forse mai raggiunta prima. 


Robert Rauschenberg, Regilar Diary Glut
, 1986, Metallo e rivetti, 215,9 x 294,6 x 61 cm
(© Pace Wildenstein, New York) 

 

A un anno dalla morte di Rauschenberg e a dieci dalla maggiore retrospettiva del Museo Guggenheim a New York, il gioiello espositivo presentato in laguna emerge per l’accurata curatela. La scelta dei pezzi e la qualità del catalogo la dicono lunga su come sia evidente, oltre l’impeccabile livello scientifico, che l’affetto e l’ammirazione degli americani nei confronti di una loro icona abbiano giocato un ruolo maestro nella riuscita di questa manifestazione. 

Le opere mettono decisamente allegria, in ciò confortando l’intento dello stesso Rauschenberg di mettere in luce l’aspetto giocoso e ironico del fare artistico, uno spunto già presente sin dagli esordi della carriera, ma non ancora del tutto sviluppato prima di questa serie iniziata nel 1986. 

Mi aggiro allora con piacere nelle piccole stanze della Fondazione, che a ogni appuntamento si trasformano e si piegano alle necessità del momento. Inevitabile pensare all’occasione perduta con l’assegnazione degli spazi della Punta della Dogana a Pinault, il quale – a parte i differenti intenti culturali – ha alterato architettonicamente un sito che, in mano d’altri, avrebbe trovato infinite possibilità di riscatto, non solo una. Ma, tant’é… à la guerre comme à la guerre

Ritornando a Rauschenberg e ai suoi “eccessi” (una delle possibili traduzioni di gluts, fra le quali opto anche a favore di: “ridondanze”), emerge la qualità formale dei rottami. Nel processo creativo, acquistano una coscienza estetica formulata attraverso un preciso intento poetico mantenendo però intatto il potenziale evocativo di “rifiuto tecnologico”, di “scarto d’era post-industriale” che tanto aveva colpito l’Autore in occasione del suo viaggio nel 1986 in un Texas schiacciato dalla crisi petrolifera. Di fatto, insomma, c’è più misura che eccedenze in queste opere. 

Il fascino del combine, dell’installazione e assemblaggio di materiali formalmente differenti fra loro, che aveva fatto inneggiare i critici americani al superamento dell’Espressionismo Astratto in occasione della storica (e premiata) partecipazione di Rauschenberg alla Biennale del 1964, non ha mai abbandonato il Nostro né in lui modificato quel senso di infinità libertà che sentiva nell’elemento grezzo, ancora non collocato all’interno dell’opera conclusa. 

Rauschenberg rifiutò  la definizione di artista post-dada, pop, post-espressionista e così via. Non gli si fa onore quindi collocando queste straordinarie invenzioni composte da stendini, cartelli stradali, lamiere, putrelle, rotelle di ventilatori, mobili da giardino, frammenti di cancellate… entro un solco già sperimentato. Ma non è un caso se all’Occidente europeo il tocco di Rauschenberg – per i soggetti, invece, così “nord-americano” – sembrò così prossimo ai traguardi dei nostri Scarpitta (non proprio italico, lo so), Burri e Pascali. 

C’è però una cifra estetica più interiore che mi riporta, davanti alla meravigliosa ambiguità di levità e pesantezza di gluts come “Cathedral Late Summer Glut” del 1987 o “Nasthurtium Summer Glut” del 1988, alle ombre e alle luci avvolgenti e metafisiche di Zurbaràn o al colore netto e alle forme perfettamente definite della “Lezione di Musica” di Vermeer. Attraverso i Gluts sembra svelarsi la migliore natura morta del Manierismo europeo più raffinato. 

Mi rendo conto dell’azzardo, ma non intendo ricredermi. Mi infilo nel bookshop sperando di riuscire a portare con me un frammento di questa mostra rivelatoria, poi sosto in giardino per un po’ e mi siedo sui marmi in riva al Canal Grande di fronte alla lanternona in ineluttabile decadenza di Wim Delwoye, artista che, per quanto mi dica abbia un linguaggio un po’ forzato, non riesco a non apprezzare per la medesima ironia e l’attenta ricerca che vidi in Rauschenberg (di cui in effetti è un epigone). Timeo Delwoyem et sus ferentem, ma anch’io ci casco. 

Supero l’Accademia e, andando in direzione di Ca’ Foscari, mi fermo a Ca’ Rezzonico , sede del Museo del Settecento Veneziano e della straordinaria pinacoteca Egidio Martini (al terzo piano), di pittura veneziana dal XV al XX secolo, che da sola vale una visita attenta

Qui, all’interno del percorso museale delle stanze affrescate e impreziosite di arredi del miglior Barocco e Barocchetto, è collocata una rassegna geograficamente e poeticamente distantissima sia da ciò che ho appena visto che dal suo aulico contenitore. 

THAT OBSCURE OBJECT OF ART, Arte contemporanea russa dalle collezioni della Stella Art Foundation di Mosca. Per far capire di che parliamo, fuori Ca’ Rezzonico, in Canal Grande, davanti alla vicina Ca’ Bernardo, sosta appena fuor d’acqua un curioso mezzo da guerra, un sommergibile completamente trasformato dall’estro dell’ottimo Alexander Ponomarev, ex-marinaio, ora in diversa missione impegnato, che ha deciso autonomamente di invadere la Loira, Parigi, la Moscova, il Mare di Barens e il lago Bajkal, l’Oceano Atlantico e l’Antartide, e oggi Venezia, con il vessillo di un’arte verbo di pace là dove sino a pochi anni fa si contenevano i rapporti di forza fra grandi potenze. Mi piace il progetto (peraltro dedicato a Leonardo, l’inventore del sottomarino e qui a Venezia, con ulteriore omaggio all’arte italiana, denominato “SubTiziano”) e il modo di comunicarlo. 

È il felice incipit di una mostra interessante ma non del tutto appagante. Difficile infatti apprezzare in pieno l’arte ingenua e tecnicamente modesta di una Russia post Guerra Fredda alle prese con il Contemporaneo, già negato in Patria, che con furia vorace analizza le urgenze del suo difficile presente e le sviluppa tentando di mettere ordine nei diversi filoni sperimentali degli anni ’80. Un programma ambizioso che cade negli esiti, ma non nell’onestà dei tentativi.  

Caratteristico è  il tentativo di appropriarsi di patterns tecnici “occidentali” recepiti in modo superficiale e ancora non assimilati. Si dirà che è sin troppo facile accusare di naïveté l’arte russa dell’ultimo trentennio. Ma il fine di questa manifestazione è illustrare la molteplicità della ricerca e la complessa ricostruzione di un tessuto artistico nazionale che per ben 70 anni è mancato. E’ mostra didattica, non di capolavori.


Konstantin Zvezdochetov, Che Guevara
, 1990, olio su tela, 100
х 100 cm
(© Catalogo Ueberreuter Print, Korneuburg, 2009, Austria, a cura di Vladimir Levashov)
 

Ciò considerato, mostreremo più indulgenza dell’impietoso commento delle guardie di sala (“Sinceramente, g’ho visto de megio…”) obbligate a sostare nel Salone passante al I piano nobile davanti a un tappeto con cervo e materiali vari appeso a mo’ di arazzo dell’artista Larisa Rezun-Zvezdochetova.

Non convince il già-famoso-in-Patria-e-poi-passato-all’Occidente Vadim Kosmatschev con i suoi ridondanti Wall Aggregates dell’inizio degli anni ’90 che occupano tutto l’androne al piano terreno, soprattutto se li si compara con il Rauscehnberg di poco prima.

Al I piano nobile, buona l’opera razionalista di Vadim Zakharov (Bauhaus Thora, 2002), mentre deludono le diverse espressioni figurative di sapore troppo didascalico, almeno per noi disincantati europei, di V. Komar e A. Melamid e dei due Kabakov (benché, si vede, più esperti); piace, forse perché è riuscita la scelta del medium, la scritta “glasnost” al contrario eseguita con tubo al neon nel 1989 da Leonid Sokov. Ma, lo sentiamo, già datata nei concetti e nella forma, e non si capisce se la decrepitezza venga dall’aver abbinato quel concetto a quella forma o viceversa.

Al II piano nobile, nel Portego dei dipinti, sono collocate in teche da archivio, le ottime chine surrealiste – dal tratto ispirato alla rivista satirica d’inizio ‘900 – della serie di una decina d’anni fa dei “Palombari” di Leonid Tishkov. E questo è il miglior antipasto del buon Padiglione russo ai Giardini della Biennale. Ancor meglio sono le opere di Alexander Djikia che utilizza con bravura china e pennarelli su carta da lucido; in gesti febbrili e raffinati dispiega un nutrito repertorio di mostri e di quotidiana angoscia. Meno interessanti i tentativi di “insozzare la verità” di Vagrich Bakhchanyan, con i suoi collages di articoli della Pravda sui quali sovrappone immagini erotiche.

Mi dispongo alla prossima tappa, con il cervello che inizia a intorpidirsi.

Eccomi a Ca’ Foscari , sede storica della “mia” Università, recuperata a diversi allori tanto che oggi si può anche visitare con il lungo “Ca’ Foscari Tour” (info tel. 041 2348323, www.unive.it/visita), nella speranza che la compita caffetteria nella corte maggiore non venga devastata in pochi anni e che l’attenzione rimanga vigile sugli allestimenti severi che oggi guadagnano al pubblico la bellissima Aula Baratto di Scarpa e la meravigliosa corte interna trecentesca. Qui visito una delle mostre più pubblicizzate di questa Biennale e dintorni.

 


Bruce Nauman
. Fotografia scattata durante la produzione di Untitled, 1970-2009, Università Ca’ Foscari, Venezia, febbraio 2009.
Courtesy Philadelphia Museum of Art, Foto: Pasquale Barisano. 

Bruce Nauman è  l’ “asso-piglia-tutto” quest’anno: rappresenta gli Stati Uniti con la triplice esposizione in Biennale, allo IUAV e a Ca’ Foscari. Gli è stata tributata una laurea honoris causa in progettazione e produzione delle arti visive dalla Facoltà di Architettura (IUAV) di Venezia, mentre il Padiglione americano ai Giardini ha ricevuto il Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale. E, se non bastasse, una delle mostre più attese in Città (Spazio Pinault alla Punta della Dogana, “Mapping the Studio”) ha citato il titolo di una sua opera. Venezia ha portato fortuna al pluripremiato artista statunitense, ormai acclarato come il più influente dell’era post-warholiana. 

Del Nauman “triveneziano” preferisco proprio la rassegna cafoscarina. Ma, certo, l’impatto dell’Artista in laguna è potente e la città si scopre votata all’arte concettuale quale espressione (in questo contesto lo si può ben dire) del suo più intimo carattere. 

Non a caso, Venezia è il non-luogo che gioca perennemente con la metafora del corpo inserito nello spazio alle prese con il tempo. E il tema tanto caro a Nauman del loop quale emblema della circolarità, dell’infinito ripetersi dell’incidente fenomenico in un moto autistico, sembra perfetto per definire l’hortus conclusus del Centro Storico, un labirinto senza tempo quantificato dove si aggirano uomini e donne come unità di misura sensibili dell’area circostante. Un po’ come il mio andàr a dindòn, insomma, che trae significato dal continuo movimento in ogni direzione, per tracciare una mappatura – per l’appunto – del grande studio d’artista che è Venezia.


Bruce Nauman
, Untitled, 1970-2009. Still da video. Courtesy Philadelphia Museum of Art.
© Bruce Nauman 2009 / Artists Rights Society (ARS, New York).
Il tuo browser potrebbe non supportare la visualizzazione di questa immagine.
 

La mostra si apre con gli ambienti al piano terreno “Flayed Earth Flayed Self (Skin Sink)” del 1973 della Flick Collection e la “Double Steel Cage Piece” del 1974 (lo spazio inabitabile), giusto per inquadrare il percorso filosofico che si dipanerà con ordine nelle sale successive. 

Ed ecco i “marchi” naumaniani: le mani appese in cerchio che si stringono l’una con l’altra (“Untitled – Hand Circus-“, del 1996), gesto senza fine, i neon di “None Sing Neon Sign” del 1970 dalla Collezione Panza al Guggenheim di New York, ovvero il rapporto fra l’artista e la parola, anch’essa misura della qualità “biologica” dell’esistenza. 

Al primo piano, nel salone passante, è ospitata l’opera “Giorni” del 2009, la mia preferita soprattutto perché, allestita specificamente per questa sede, onora la partecipazione attiva dei veneziani alla poetica di Nauman (non sembrano peregrine le considerazioni fatte poco sopra sulla centralità della città lagunare). Voci si rincorrono dai monitors posti in tutto il salone, ripetendo con varie intonazioni i giorni della settimana. Il visitatore ha la sensazione di trovarsi in un luogo geografico estremamente definito PERCHÉ il luogo temporale non lo è. Egli stabilisce, attraverso il suo passaggio all’interno di uno spazio preciso, la sequenza del tempo, rassicurato dalla certezza che non avrà mai fine. Magnifico! 

Bellissimi anche i grandi “Smoke Rings” del 1979/80 che di aleatorio proprio non hanno alcunché. O il famoso neon “Human Sexual Experience” del 1985, dove anche l’atto sessuale semplificato dal gesto dell’indice entro un cerchio di dita è metro del movimento.

“Mapping the Studio” del 1970/2009 è il “logo” della partecipazione naumaniana a Venezia. Il video “Untitled” è stato prodotto in nuova edizione proprio per Ca’ Foscari.  

Ottima mostra, sintetica e esaustiva, come dicono i migliori, benissimo allestita e magnificamente curata da Enti americani e italiani in gran consonanza, ma poco assistita in loco: all’ingresso è uno spoglio tavolino presieduto da guardiasala indifferenti al pubblico e ignari delle mostre “sorelle”; anche la brochure, sufficiente per chi non voglia acquistare il ponderoso e costoso catalogo (che comunque lì non trovi), deve essere molto “voluta” dal visitatore.  

Il cervello, in questo turbinio di immagini contrastanti, comincia a dolere. Mi impongo l’ultima tappa, russa, sperando sia lieve. 

E, udite udite, non solo è lieve, ma così corroborante da rimettere in moto gli affaticati processi neuronali. Dopo Campo San Polo, verso Rialto, in Campiello dei Meloni imbocco la breve calle che porta all’ingresso del vetusto, tetro e affascinante Palazzo Papadopoli , che ospita la delegazione nazionale dell’Ucraina a questa 53a Biennale.  


Padiglione dell’Ucraina
– 53 Biennale d’Arte, Venezia – Palazzo Papadopoli (part. dell’androne)

Il vasto androne che dà sul Canal Grande è stato letteralmente riempito di sabbia finissima, tanto che par di zampettare nella frescura di una spiaggia baltica (via le scarpe!). Le dune sono costellate dai busti settecenteschi del portego in riva d’acqua, mentre gli stucchi e i marmorini emergono dalle pareti del locale come decori sommersi. Alcune macchine spara-fumo materializzano una nebbiolina nordica non appena un visitatore vi si avvicina. 

L’impressione, non saprei perché, è di prender parte a una festa di campagna durante una ricorrenza, magari di rito solstiziale, nella quale i locali della mostra saranno i nostri ospiti. Complice volontaria, la struttura abitativa di Palazzo Papadopoli conferisce l’aura del sogno a questa esperienza. 

Al piano superiore, le buie stanze, illuminate fiocamente dalle luci colorate dei grandi lampadari di Murano installate in sostituzione di quelle usuali, ospitano automi che vanno in moto al passaggio del pubblico davanti a fotocellule nascoste. 

 

Così, un pennello intriso di pittura rossa tenta di verniciare un vestito ottocentesco di ballerina che sfugge ruotando a tempo di musica. Uno snodato manichino di legno, acefalo e privo di braccia, spinge un monociclo lungo un binario all’interno di una sorta di teca. 

E ancora, la grande sala da ballo o la sala del camino sono attraversate da cori lontani di cosacchi dolenti o di paesani della campagna russa o da walzer di feste di nobiltà decaduta, mentre leggere nebbie ovattano rumori e stemperano i fiochi colori delle lampadine colorate. Un sogno di epoche perdute, ma anche un’atmosfera sospesa, mentre si avverte il rumore dei pattini a rotelle di una modella nel video posto nell’angolo della sala da ballo, entità che vola sopra le isole della storia e “confisca” i luoghi abbandonati. 

 

Al contrario di quanto esposto nella mostra a Ca’ Rezzonico, qui la lezione “occidentale” è stata non solo recepita, ma superata attraverso la sedimentazione dell’esperienza storica, l’urgenza di raccontare con materiali e progetti la fatica di questo periodo per l’arte (e per il popolo) dell’Est Europa già in contatto con le prospettive di decadenza del resto del Continente. La giocosità però è fresca, autentica.

Nulla di più  lontano dal desiderio di porsi antiteticamente al resto del mondo: sono abbandonate le posizioni estreme sia del periodo del Regime, sia dello spaesamento e delle cantonate del periodo post-sovietico. Piuttosto c’è una volontà più che convincente di riprendere un discorso, mai del tutto interrotto, con parole nuove e formule espressive originali.

Lo scampato pericolo di un nuovo conflitto (intellettuale) impone una pausa di riflessione prima del pomeriggio. Vorrei condividere le mie considerazioni estetiche con amici di rango che abitano in zona. Li invito a raggiungermi poco lontano dal Campiello dei Meloni alle “Antiche Carampane” (Calle delle Carampane, San Polo 1911, tel. 041 5240165), ovvero le donne di malaffare che ai tempi della Serenissima mostravano la propria “mercanzia” ai veroni di quest’area scònta di Venezia. In questo bàcaro delizioso, benché non sia più a servire in sala la straordinaria Signora Antonia, vorrei proprio ordinare un piatto da distensione globale, uno spaghettino al cassopìpa con molluschi e crostacei. Aldilà del fonema lievemente triviale, non c’è scampo: pace garantita.
 

Fotografie. Laddove non altrimenti specificato: Cristiana Curti

 

 ITINERARIO N. 5
GIARDINI – 53a BIENNALE D’ARTE 2009
(ovvero: Chi ha paura del Lupo Cattivo?)

53a BIENNALE D’ARTE CONTEMPORANEA 2009 – GIARDINI
Dove:
Giardini, Castello – 30122 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione: Vaporetto Linea 2 diretto (direz. San Marco, Lido), fermata GIARDINI, 34 minuti
FARE MONDI – MAKING WORLDS
Apertura e Orari:
6 giugno – 22 novembre 2009
Orario: 10-18 (chiusura biglietteria: 17,30) chiuso LUNEDI
Biglietti: intero € 18 (valido anche per l’Arsenale); ridotto (residenti, militari e ultra65enni) € 15. Previste altre riduzioni specifiche, singole o per gruppi; bambini sino a 6 anni, accompagnatori di invalidi, studenti di scuole primarie e secondarie coinvolti nei progetti educativi (cd. Educational): gratuito.
PRENOTAZIONI
Call center Hellovenezia 041-2424 (tutti i giorni 8,30-18.30), prevendita biglietti nei punti Hellovenezia a P.le Roma, Ferrovia, Lido, Fenice, Tronchetto.
INFORMAZIONI
www.labiennale.org
tel. +39 041 5218828; fax +39 0415218732
Tempo medio di visita secondo Arslife : 5/6 h (di più, vi sfido)

 

Ci siamo, è l’ora x.
Come ogni biennio mi preparo mentalmente al tragitto più motivato, all’appuntamento più atteso. Ancùo g’ho da andár in Bienàl… Alla fine, penso, siamo tutti dei Cappuccetti Rossi che vanno a trovare la nonna, sapendo – come tutti i Cappuccetti che si rispettino sanno – che nel bosco incontreranno il Lupo Cattivo. Fantastico!

Mentre così mi apparecchio, mi dimentico l’accessorio più importante di ogni nipotina delle fiabe: il cestino con i buoni viveri per la dolce vecchietta. Una dimenticanza che sconterò amaramente. 

Varcati i sacri cancelli dei Giardini di Castello , mi dipano festante nel labirinto di casette di questo mini borgo. Il rito esalta, malgrado ogni detrattore. Con me, un’amica che finge di essere irriverente e snob, ma poi sarà quella che tirerà più in lungo.  

Subito parte la prima lapidaria affermazione (delle molte che seguiranno, sport amatissimo in Biennale, disciplina: “tutti curatori”). Bene aver dislocato il Padiglione Italia in sito meno centrale e aver al suo posto installato in via esclusiva la mostra tematica, rinominando il vecchio casermone Palazzo delle Esposizioni, ma confinare l’Italia all’Arsenale, no! E’ un errore. In seguito mi dirò: meglio così, per questa volta.

Certo, che i padroni di casa si defilino è un po’ grossa. Ci vorrebbe, qui ai Giardini, una bella renzopianata. Come minimo. 

Basta là (in veneziano: mòighea). C’è tempo per chiosare. Percorro con giudizio il tragitto quasi obbligato delle stradine, lasciando intenzionalmente il “dolce in fondo”.

Voti: da 0 a 10. Come ci invita a fare anche il nostro Ministro dell’Istruzione. 

I Padiglioni Nazionali  

La Svizzera già mi piace. Sylvia Bächli procura i contenuti per ciò che il suo compagno di ventura (Fabrice Gygi, nella Chiesa di San Stae, ved. itinerario n. 3 qui su Arslife ) aveva ripartito nello spazio. Riempie i vuoti con leggerezza e attenzione, mantenendo misurate distanze. Le sue gouaches e le chine ricordano un gesto orientale, filtrato da una solida consapevolezza elvetica.

Voto: 6 +. 

Nel Padiglione del Venezuela c’è una presenza già annunciatami all’inizio di quest’estate a Milano (ved. mostra Steellife alla Triennale, su Arslife ). Magdalena Fernandez conquista il pubblico con la visione modernista di una foresta pluviale invasa dalle grida di plotoni di pappagalli (ara) i cui colori sono inseriti in campiture alla Mondrian: la Natura è piegata alla scansione matematica. Nel medesimo progetto e nel solco della più nobile matrice concettuale, colpiscono anche i lavori di Atonio Perez, Daniel Medina, ma la migliore forse qui è Bernardita Rakos (una ragazzona sportiva che continua a modificare la propria installazione, infischiandosene beatamente dei visitatori) che con Antonieta Sosa intimizza la ricerca artistica all’interno delle mura domestiche.

Voto al Padiglione: 6 +. Alla Rakos: 6 e ½.  


In Russia mi riallaccio al discorso aperto con alcune opere della mostra a Ca’ Rezzonico (ved. itinerario n. 4 su Arslife ), ma qui, nel padiglione nazionale, è sontuosamente sviluppato. C’è forse un poco di “gigioneria” per mezzi espressivi di grande effetto – così come accadde anche due anni fa -, ma il risultato è notevole. Sempre arte concettuale, of course. Tuttavia Pavel Pepperstein (presente anche al Padiglione delle Esposizioni) affascina perché riprende il tratto pittografico e satirico del surrealismo, un filone che i russi sentono in modo viscerale e che è la loro cifra stilistica (la migliore, direi).

Nel medesimo filone letterario si inserisce anche il lavoro di Gosha Ostretsov che appronta un itinerario degli orrori in una catapecchia, dimora di artista. Piace per la visione sarcasticamente disneiana, da parco dei divertimenti per folli. Altra citazione colta per il buon intervento, fra gli altri, di Andrei Molodkin, che vive a New York, due sculture di Nike in teca di plexiglass irrorate di liquido nero (petrolio) e rosso (sangue) sono proiettate su un’ampia parete. Sembra che respirino in gabbia, ma che nel contempo cerchino una positiva rinascita.

Voto al Padiglione: dal 6 al 7. 
 
Giungo a una delle proposte più chiacchierate della Biennale, quella di Paesi Nordici (troppo facile fare buone cose in questo spazio straordinario…) e Danimarca per la prima volta insieme in mostra. La premiata ditta Elmgreen e Dragset allestisce con tocco fashion e con l’aiuto di 24 artisti l’appartamento di un collezionista la cui vita e le cui (torbide?) passioni dovrebbero essere colte attraverso gli oggetti che lo contraddistinguono.  

Mentre attraversiamo gli spazi senza sorprese già fotografati in centinaia di riviste di arredo e design, il povero paròn de casa fluttua riverso nell’immancabile piscina; a fianco, una famiglia borghese decide di mettere in vendita la propria dimora, stanca della contiguità con lo scomodo vicino. Questo secondo padiglione è presentato da un agente immobiliare (che io non ho incontrato; chissà, forse parlava in danese e non lo sapevo…). La casa è distrutta da un vandalismo ignoto, o magari dai componenti della famiglia un po’ meno asciutti di quanto le apparenze mostrino, che contrasta con la perfetta armonia degli ambienti appena visitati. 

Qual è il messaggio? Nulla è come appare, ma quello che appare è sempre rivelatore. Un bell’esercizio di bravura in puro stile nordico. Furbetto e quindi di molto appeal. Qualche spunto buono, specie nella casa danese.

Voto al Padiglione Paesi Nordici: 5 ½

Voto al Padiglione Danimarca: 6 +

Voto al duo fashion: 6 ++ (per l’abilità nelle pubbliche relazioni, per l’idea di un progetto a più mani e per il tavolo da pranzo nel padiglione danese che avrei portato via incartato). 
 

Mi dico che in Giappone ritroverò la pace perduta. Qui, invece, aumenta l’ansia a dismisura con le gigantesse deformi di Miwa Yanagi, da sempre interessata al mito femminino (matrice del mondo) alle prese con l’ineluttabile decadimento fisico e con la morte che permea di sé ogni gesto delle solitarie eroine raccolte sotto il suo abbraccio/tenda. Buono il video (un po’ rock/dark/goth, molto jap), meno le immaginone delle orchesse. Un solco tradizionale rivisitato con poca convinzione.

Voto: 5  

Poco più in là, il Padiglione della repubblica di Corea presenta il lavoro di raffinata arte concettuale di Haegue Yang, quasi coetanea della collega nipponica, ma distante anni luce poeticamente. Un altro ambiente domestico, qui però ricostruito con l’attento calibro del segno grafico e delle linee rette. Veneziane (nel senso delle tende a listelli) definiscono lo spazio e fluttuano nell’aria artificiale di un “fan”  anch’esso automatico. Bello.

Voto: dal 6 al 7 


Ed eccomi ancora in un’altra casa: questo “fare mondi” riduce sempre più gli orizzonti. Si vede che la speranza è pochina, se il parametro del moto concettuale diventa centripeto anziché centrifugo (mi viene in mente Nauman, senz’altro più positivo). Sono nel Padiglione della Germania, che in passato mi stupì sempre piacevolmente. Quest’anno il lavoro di Liam Gillick (inglese, peraltro) è improntato allo spaesamento, alla delocalizzazione, alla confusione dei siti e degli stili. Criterio non originale, in cui si inserisce la presenza inquieta ma fedele del gatto muto, impronta del luogo, caratterista arcano.

Che dire? Noioso. Ad alcuni piacerà invece il linguaggio asciutto. Io trovo che la sintesi concettuale non deve prevaricare il fine dell’opera.

Voto: 3 ½  

Spero nel Canada. Mi si apre un padiglione sontuosamente approntato: grandi video, grandi formati, vetri fumé e poderoso bombardamento di immagini di vita urbana, ben confezionate, gentilmente esposte. Poca polemica è sollevata da Mark Lewis, molta attenzione al contenuto estetico del prodotto e all’equilibio formale. Esattamente per il motivo opposto per cui non riesco ad apprezzare la proposta teutonica, trovo che anche questi lavori stancano e non dicono granché. Esercitazioni di stile, già viste.

Voto: 4 + 

Come un’anima in pena, in attesa che la cortese guardasala mi permetta l’ingresso scandito da rigidi orari di proiezione, mi aggiro ai piedi della scalinata del Padiglione dell’Inghilterra. Quest’anno è di scena Steve McQueen, vecchio ghepardo. Si può entrare solo in 60 e il video Giardini dura 30 minuti. Attendiamo ancora, non molliamo il posto. 

Il video è un omaggio (in cui molti leggono un’aspra denuncia, che francamente non colgo) alla Venezia della Biennale fuori dal contesto del Festival. Il sonoro è di per sé un capolavoro. I frames si alternano in distinti ceppi narrativi su suoni e colori di una Città più reale che immaginata, benché levrieri la attraversino in gruppo come lari abbandonati da soldati in fuga. Le nebbie e le caligini che dipingono questa Venezia anglosassone lasciano un senso di dolente nostalgia, di inquietudine più sul futuro dell’arte che di quello della Città, dove sempre si avranno custodi (omosessuali irrequieti, pensionati tranquilli, cani randagi) pronti a prenderne il possesso. Struggente. E meno irritante di una certa parte del compiaciuto pradaiume che aveva spedito in Italia qualche anno fa facendoci credere che lui fosse QUELLO.

Voto: 7 + 


Sarà che, per motivi personali, sono attualmente in conflitto con alcuni francesi, per cui sono maldisposta nei loro confronti, ma il Padiglione della Francia mi delude in pieno. Pretenzioso e arrogante, con un tocco di puro narcisismo. Da grandeur trombona. La mia amica snob la pensa come me e anche peggio; mi sento confortata: non sono razzista. Claude Lévêque non fa nulla per alleviare la cupezza del suo gelido spazio argentato con bandiere nere: una gabbia senza scampo, senza ironia. E’ probabile che il progetto sia corretto, tecnicamente in linea con il maggior filone dell’arte contemporanea francese, ma non riesce a comunicare alcuna impressione, né suscitare una reazione al visitatore.

Voto: dal 4 al 5 (perché ho troppi sensi di colpa per assegnare un voto inferiore) 

Tutt’altra aria si respira nel successivo Padiglione delle Repubbliche Ceca e Slovacca. L’ottimo Roman Ondák riesce laddove Lévêque fallì, e pure usando il medesimo linguaggio del francese. Il Padiglione non esiste, passiamo attraverso le mura della rappresentanza come in un piccolo giardino incolto, che tutto è tranne che abbandonato. L’effetto è quello del dentro-fuori, spazio reale-spazio immaginato, percorso vero e percorso falso (qual è quello vero?). Il tema è noto, lo so; ma Ondák lo risolve magistralmente smaterializzando i confini semantici nel più semplice e naturale dei modi. Non a caso l’opera si chiama Loop. Geniale è il termine giusto.

Voto: 7 – –


Interessante, ma ingenuo e troppo affollato, il Padiglione dell’Australia, dove la videoarte impera in ogni sfaccettatura funzionale. Tutto è ridondante, benché un paio di idee siano esteticamente apprezzabili. Shaun Gladwell è ossessionato dalla ricerca intorno al movimento del corpo umano nell’ambiente (urbano ed extraurbano). Ad un occhio europeo, qui però mancano alcuni punti fermi della ricerca che, su questo tema, ha appassionato molti artisti sin dagli inizi del XX secolo, ossia la dimensione filosofica della ricerca stessa. Per Gladwell, mi pare, tutto si ferma alla superficie sensibile. Ben costruito.

Voto: 5 

Dal glamour passo al grido di disperazione dell‘Uruguay; diverso è, qui, il senso della terra (terra promessa, terra da lavorare, terra che sfama, terra negata). Ma, come in altri casi, l’arte non può sopperire alla denuncia, se non è presente un filtro poetico ben strutturato. Per questo il mio voto sarà basso.

Voto: 5 

In terra d’Israele, invece, l’esposizione è un atto di reverenza per un mito appena scomparso. Raffi Lavie fu il più grande critico, curatore, esperto di musica, artista post-moderno, traghettatore dell’arte ancorata alla tradizione del suo Paese verso una contemporaneità che anche nel passato recente (ved. la Biennale del 2003 con Michal Rovner) ha dato buoni frutti, mediatore filosofico, e chi più ne ha più ne metta. L’artista deve molto all’arte europea e statunitense, ma ha il tratto onesto e deciso dell’uomo di cultura e un quid poetico che sarà raccolto dalle generazioni a venire. Perché gli Israeliti sono ansiosi di ascoltare e apprendere. Un gruppo di ragazzi attenti, motivati, appassionati sono pronti ad accogliere il visitatore e a spiegare perché Lavie è stato così importante per la Patria. “It is not Jewish Art, but it is Inner Art”, raccolgo en-passant.

Voto: 6 ½ (solo perché Lavie, grande intellettuale, non è artista memorabile)

P.S. Segnalo con entusiasmo il sito del Padiglione (il migliore in assoluto): www.artisrael.org/event/2009-06/raffi-lavie-the-israel-pavillion-at-the-venice-biennale


PADIGLIONE ISRAELE, Raffi Lavie, Untitled, 2004, acrilico e matita su compensato 

Il Padiglione degli Stati Uniti d’America non è così ospitale: due ragazzotte trinariciute ci impediscono con malagrazia l’ingresso, limitato a un numero definito di visitatori (francamente non capisco il perché). Bruce Nauman è, anche qui, protagonista assoluto. Dall’esterno fa lampeggiare le virtù cardinali e i loro opposti, all’interno presenta le icone del proprio lavoro (“The True Artist is an Amazing Luminous Fountain”, 1968). Mani che formano simboli o lettere, neon che fiammeggiano l’incomunicabilità persistente dell’essere umano; installazioni con acqua, sabbie, materiali diversi che riconducono alla misurabilità dello spazio, a volti noti che non si (ri)conoscono fra loro… Ma qui l’omaggio – affollato, dispersivo, poco meditato – non è così ben riuscito come nel resto dei Topological Gardens dislocati in Città. E spicca troppo la distanza fra l’accoglienza di Israele, ansioso di far conoscere, e il distacco dell’America Leon-d’Oro che sa di avere già un posto in prima fila, non solo a Venezia.

Voto: 6 – – 

Intrigante, conturbante, emozionante, il progetto di Péter Forgács che rappresenta l’Ungheria. Il suo “Col tempo” analizza la mimica facciale con maestria attraverso secoli e congerie sociali. Da Giorgione alle schede morfologiche delle collazioni pseudo-scientifiche viennesi del 1939 sino alle moderne pratiche identificative della polizia, il volto è anamorfosi della Storia: si contrae e si modifica per rappresentare una memoria sempre uguale a se stessa, inciampata nella miserabilità della condizione umana. Ben articolato e ottimamente esposto. Con un tocco di benefica, compiacente teatralità.

Voto: 6 ++ 


Padiglione d’Ungheria
, Péter Forgács, Col Tempo. The W. Project”, installazione, 2009
 

Per completare il tour della “Prima Isola dei Padiglioni”, torno verso l’uscita ed entro nel Padiglione dell’Olanda, che ospita un “ritorno alle colonie” piuttosto stupefacente. L’artista Fiona Tan è nata in Indonesia e vive ad Amsterdam; porta con sé le memorie stratificate di una consuetudine con l’Estremo Oriente che il Mediterraneo non conosce. E’ affascinante l’uso del video come narrazione documentaristica che s’insinua nell’analisi antropologica. Ma l’artista riesce meglio nel racconto poeticissimo delle vite parallele di due donne, una giovane una più anziana.

Voto: 6 

Accanto a questo è il “cugino” Padiglione del Belgio, che presenta la collazione erboristica dell’artista Jef Geys, il quale chiede ad amici residenti in diverse città del mondo di raccogliere ciascuno 12 piante selvatiche, 12 erbacce che in realtà hanno proprietà medicamentose e altre utilità domestiche. Il buono anche nella fanga? Può darsi, ma non mi convince né il progetto né la presentazione: in genere i Belgi sanno essere più sottili e concisi. Come avrebbe detto la mia professoressa di Lettere: “involuto”.

Voto: 3 

Ultimo del giro delle casette è il Padiglione della Spagna, quest’anno rutilante dell’ottima rassegna (un altro tributo!) di Miguel Barceló. Torniamo quindi alla pittura. Però non posso fare a meno di notare che le opere migliori sono quelle meno recenti e che la mano, negli ultimi tempi ha congelato il gesto e l’ha confinato nella perizia tecnica. Diverso è il discorso per le ceramiche, che riprendono canoni estetici a noi italiani in particolare molto vicini per il settore. Comunque, l’effetto positivo è garantito in ogni sala.

Voto: 6 +  

Mi sposto aldilà del pontile che separa le isole della mostra e mi dirigo verso il Padiglione del Brasile, da sempre ricco di ottimi spunti. Ma quest’anno resto un poco delusa dai pannelloni, gradevolissimi in verità, come coperte/bandiera dai colori di un Paese sentito sotto pelle. Anche le fotografie, bellissime, mi paiono troppo oleografiche. I due artisti presentati (Luìz Braga e Delson Uchõa) sono come abbandonati a se stessi; hanno bisogno, almeno per me, di maggior introduzione, di più opere per essere compresi. Questo Padiglione lascia l’acquolina in bocca.

Voto: 5  

Tutt’altro si trova nel Padiglione dell’Austria, che a ogni Biennale cambia versante poetico, come a lasciar intendere una ricchezza espressiva che non tutti conoscono. Il tratto di scuola teutonica di Elke Krystufek, dalla grafia espressionistica, strappata, intervallata da pennellate di colori primari su campi nudi, con abbondante uso della scrittura, regala un palinsesto di immagini fortemente connotate. L’intento è dissacratorio (e si capisce bene), ma nei confronti della classicità del precedente gauguiniano. Mi piace il gesto, l’irriverenza, non il risultato.

Voto: 5 ++ 

In Serbia e Montenegro, la provocazione assomiglia a certi deliziosi happenings del passato. “Warmth/Toplina” è l’installazione proposta da Zoran Todorovic, composta da grandi pannelli quadrati di feltro scuro della dimensione di 1mq impilati su pancali. Sono curiosi e in vendita (costicchiano, però); ma subito ti geli quando capisci in un video poco oltre che sono composti di peli e capelli umani. Sulla medesima lunghezza d’onda, l’artista Katarina Zdjelar distrugge ogni sicurezza che possa mai provenire dalla prima distinzione dell’essere umano: la voce e l’emissione della stessa che comporta ridicole espressioni facciali. Il volto, nello sforzo della comunicazione resa difficoltosa da casuali contingenze, si contrae e perde ogni umanità.

Voto: 5 

Nel Padiglione dell’Egitto, mi stupisco ancora una volta per la capacità e la tenacia, tutta nord-africana, di aver coniato negli ultimi anni un convincente linguaggio artistico caratteristico di una cultura che avrebbe necessità di essere più conosciuta. Benché certi esiti siano ancora (ma non sempre) imperfetti, vedo un corso davvero interessante che non tradisce i legami con la tradizione, sviluppando una poetica originale e condivisibile.

Voto: 5 – – per i risultati, ma 6 per la ricerca. 


PADIGLIONE EGITTO, Ahmad Askalany
, Gli amanti, 2009, foglie di palma e ferro
 

Aspettavo da tempo di varcare la soglie del Padiglione Venezia, che indubitabilmente mi attrae con la sua mostra “…fa come natura face in foco…”. L’arte del vetro è magistralmente esposta con esempi di noti artisti contemporanei, ma c’è anche un doveroso tributo a un grande innovatore appena scomparso. Toni Zuccheri e il suo famoso bestiario fantastico dai colori inverosimili sono presentati un poco in sordina (allestimenti miserini) ma “bucano l’obiettivo” per la capacità evocativa e la somma bravura di questo Maestro dell’arte vetraria che ha lavorato con i più grandi nomi dell’industria muranese. Le ultime produzioni degli ottimi Cristiano Bianchin, Dale Chihuly, Alessandro e Laura Diaz de Santillana, Ritsue Mishima, Yoichi Ohira, Maria Grazia Rosin e Lino Tagliapietra – alcuni approdati a questa sponda formale dopo aver percorso altre parabole artistiche, altri formatisi con questo straordinario ed eclettico materiale – danno solo una vaga idea delle immense possibilità che il materiale può regalare all’espressione dell’arte contemporanea. E, fra tutti, l’installazione di Maria Grazia Rosin sembra dar ragione ad una ricerca che sta prendendo il corso giusto anche aldifuori del già difficile esercizio tecnico. 

La congerie in cui versa il mondo del vetro d’arte muranese è così tragica, con la perdita inesorabile non solo dei marchi e delle vererie storiche, ma anche degli uomini e delle tecniche, subordinati a diverse – e più ottuse – leggi di mercato, che c’è ormai solo da sperare di trovare ancora nuovi impulsi e nuove possibilità di espansione. Speriamo che questa mostra – progetto stabile all’interno della Biennale – aiuti a riprendere in mano le sorti di un mondo che è pericolosamente a rischio di estinzione.

Voto: (nessuno me ne voglia, gioco in casa) 7

Riprendo il corso dei padiglioni e mi imbatto in quello della Polonia. Con ancora negli occhi le meraviglie in vetro di pochi attimi prima, sono ben disposta verso questo giardino di delizie dai toni ombrosi e freschi. Ma, se osservo bene, Krzysztof Wodiczko ha solo utilizzato magistralmente il medium dall’effetto tranquillante. Il padiglione è vuoto e buio, lungo i muri perimetrali sono proiettate grandi arcate di un portico monumentale. A soffitto si apre un lucernario, dove, con lentezza ma inesorabilmente, si posano le ombre di foglie morte che cadono da un bosco immaginato. All’esterno di questo padiglione virtuale si avvicendano altre ombre intente a lavare vetri, a pulire i vialetti, senza nome, in silenzio. Noi siamo i privilegiati, loro gli esclusi dal banchetto della vita. Di straordinaria poesia e di grande equilibrio tecnico e espressivo.

Voto: 7 ½  

Più confuso, più itinerante, più complesso, meno lineare insomma, il Padiglione della Romania, con tre interventi diversi che, compressi in un’unica struttura che forza il percorso della visita, non sempre colloquiano fra loro in modo omogeneo. Uso del video poco convincente, così come poco convincente è l’idea del “luogo assoluto” di Andrea Faciu. Non riesco a farmi catturare da questo bombardamento di immagini e spazi labirintici.

Voto: 4 

Nel Padiglione della Grecia è allestita una rassegna monografica di Luca Samaras, di cui si mostrano opere che attraversano una quarantina d’anni di produzione. Il focus principale dell’artista greco è costituito dall’osservazione – tutta ellenica, oserei dire – del sé come riflesso dell’altrui coscienza e dell’altro osservato da noi stessi. L’ambivalenza dei risultati porta alla conoscenza o alla conclusione che nulla si può effettivamente conoscere? Non riesco ad avere un’idea precisa di questo progetto, perché, al momento della mia visita alcune opere non sono visitabili (sono saltati tutti i PC!), e mi manca uno dei poli del dualismo, ma, lo ammetto, la sfida concettuale mi tenta e sono obbligata a lasciare in sospeso il giudizio.

Voto: in attesa di perfezionamento 

Conclusioni:

Dai voti assegnati mi accorgo che non ci sono veri e propri flops, ma neanche dei picchi. Tuttavia non posso dire che la banalità abbia regnato sovrana, anzi. Caratteristiche principali di questa parte dell’esposizione mi sono sembrate principalmente due: l’accurata scelta delle rappresentanze, sempre di qualità benché con esiti diversi e il forte, a volte prepotente, richiamo alle tradizioni culturali nazionali, sentite come bagaglio imprescindibile per procedere nella costruzione di una corrente artistica concettualmente autonoma (e questo, credo, è il portato più originale di questa Biennale). Dalla Storia delle proprie origini, senza rimanervi inutilmente impigliati, un indirizzo verso la contemporaneità. 

E con ciò si è arrivati alla fine della prima parte di questa lunga gita. Sia io che la ma amica abbiamo una certa fame. Ma sappiamo già che le speranze di trovare uno snack, men che meno un piatto pronto, decenti in Biennale sono storicamente fievoli. Il che è incredibile nella Città dei più buoni cicchetti del mondo. Arraffiamo una desolante piadina (piadina?) fra quelle che hanno i colori ancora riconducibili alla natura (alcune hanno già virato verso la psichedelia) e ci appollaiamo all’aperto davanti al Padiglione degli Stati Uniti che sembra dirci: da noi avreste trovato dei meravigliosi hot-dogs infilati in pasta di bretzel! E delle paste che neanche a Vienna… 

 

IL PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI  

 

Per nulla ristorate, procediamo cercando il dulcis, dato che non c’è alcuna speranza di trovarlo nel baracchino improvvisato e lercio offerto dall’Ente e dai suoi sponsors.

A causa di tale smacco, e inferocita per non averci pensato prima (Cappuccetto, Cappuccetto…) non procederò all’analisi minuziosa di ogni opera del Palazzo delle Esposizioni, ma solo di quelle che mi hanno colpito maggiormente. 

Dall’esterno le palme di Baldessari occhieggiano complici del primo disassamento locale (siamo qui o dove? Esiste il palazzo?), ma all’interno subito percorriamo un breve labirinto di immagini “contemporanee” frutto del lavoro di due artisti newyorkesi, Guyton e Walzer, che stampano su allegri pannelli la riproduzione di pattern di merci e goods in generale: un procedimento tipico della Pop Art che trova ancora nuove espressioni non trite. 

A sinistra dell’ingresso c’è, in un locale dedicato, l’installazione di Bartolini, che si è messo al servizio della “didattica per bambini” della rassegna. Non so cosa potrà mai insegnare, Bartolini, che modifica gli elementi costitutivi di un ambiente per insinuare l’incomprensione dell’oggetto normale diventato anomalo. Non lo so, perché la sala dove è ospitata l’opera è chiusa al pubblico. In quel momento c’è proprio una squadra di bimbi indemoniati e felicissimi che saltano come palle con le molle. Risultato per i bimbi: eccellente; risultato per il pubblico: nullo. 

Siamo quindi sparate nella grande sala di Thomas Saraceno, che piace, non c’è che dire, per ciò che attira sempre in questi casi: la suddivisione dello spazio attraverso segmenti rettilinei che ne regolino l’andamento e disintegrino le condizioni originali. Un “compito in classe” affrontato da diversi artisti in questa edizione, e che Saraceno svolge al meglio. La spiegazione dell’installazione (tela di ragno e miracoli delle forze opposte, atomi che creano mondi, cartografie stellari…) è solo alibi: la ricerca soddisfa completamente il desiderio di razionalismo espresso attraverso una complessa ma armoniosa struttura architettonica. 



PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI, Fare Mondi/Making Worlds

Thomas Saraceno, Galaxies forming along filaments, like droplets along the strands of a spider’s web , 2008, installazione 

Poco più in là, trovo quella che, per me, è una delle prove migliori della mostra, sia per l’artista in sé sia in relazione al tema della rassegna. Rachel Khedoori è australiana che vive negli Stati Uniti; le sue lievi costruzioni, come circonvoluzioni cerebrali al negativo, individuano con efficacia un mondo di memorie sospeso nel tempo e nel giudizio e la perfezione dell’itinerario sospeso nel vuoto. Sia le memorie sia l’itinerario (un calco dei passaggi sotterranei di una caverna), ribaltati, così, in tutta evidenza, mostrano la fragilità della condizione umana e suggeriscono una cautela necessaria per la sopravvivenza.

Una curiosità: la gemella di Rachel, Toba Khedoori, è presente alla Biennale poche sale più in là con un segno interessante anche se non così incisivo, tutto impostato sulla leggerezza grafica e sull’evanescenza dei soggetti e dei supporti. 

Poi, l’incanto si spezza con il lavoro, peraltro premiato con menzione speciale, di Roberto Cuoghi nel giardino di Scarpa. Mei Gui è una canzone del cabaret cinese anni ’40, viene suonata (dopo essere stata rieditata con strumenti di recupero) all’interno dell’incantevole corte interna allestita con pannelli in betulla o in ciliegio (credo) e piccoli altoparlanti vicino a uno dei quali è anche una gabbietta per grilli-portafortuna di bimbi. L’operazione è molto ben confezionata, ma c’è qualcosa che non riesco a digerire per la sovrabbondanza di significati che in questo posto (non è inusuale sfruttare l’ “orografia locale”, anzi) cancella il senso primo dell’opera, la distruzione di un concetto dato per ottenere, attraverso la manipolazione dei fattori ottenuti, un senso differente dall’originario.  

Mi riprendo con l’ottimo John Baldessari che spennella la sua stanzetta inquadrato dall’alto, come un insetto alle prese con una scatola chiusa da cui non intende affatto uscire (il grillo della gabbietta di Cuoghi?). Il continuo riprendere e rifare e ricostruire assomma cultura classica del gesto infinito (che t’impone l’attesa senza fine) e uno dei contributi degli Stati Uniti all’arte contemporanea negli anni ’70: non c’è più l’attenzione verso la funzione dell’artista e dell’opera d’arte, ma verso quella, soverchiante, del corpo stesso dell’artista, delle sue braccia, dei suoi mezzi, che prendono il sopravvento su ogni altra valenza formale. Rimaniamo tutti per un po’  lì, in ipnotica assuefazione, con piacere. 

Continuo un circuito che ho già perso (miracoli del palazzone) e incontro una traccia gentile, ilare e significativa che mi seguirà per tutta la rassegna (per me l’intervento più geniale), le Barres de bois ronde eseguite fra il 1970 e il 1978 da André Cadere, una metafora del passaggio dell’artista nei luoghi della quotidianità, oltre che nelle gallerie deputate. Questi bastoni a vaghi colorati erano abbandonati da Cadere nei luoghi pubblici e, come giocose interferenze, nelle mostre di colleghi; con ciò “firmava” con segni riconoscibili lo spazio urbano, ormai pronto ad accogliere l’opera d’arte in modo involontario e casuale anche fuori dai luoghi istituzionali. Un concetto grandioso espresso con rara efficacia. 
 

Procedo, anche se qualche neurone comincia a resistere.

Le opere di Alessandro Pessoli sono note come la sua ricca carriera, la sua ricerca è rigorosa. Fa parte di una congerie di artisti italiani che non mi dispiace, ma qui, alla Biennale, ha portato opere discutibili, poco intense, dei “lavorini” senza nerbo, che, mi pare, non catturino l’attenzione di nessuno, anche se qualcosa di buono emerge sempre. Peccato. 

Migliore la prova di Rosa Barba. Ma mi comincio a chiedere (causa incipiente stanchezza mentale e fisica) dove è la riconoscibilità dell’artista, la sua cifra stilistica, di fronte a opere multimediali (proiettori, impianti sonori…) e modalità (proiezioni di frasi suddivise su pareti limitrofe che ricompongono il proprio senso solo se reiterate e intrecciate fra loro) che costituiscono la ricerca di molti del passato neanche più così recente, purtroppo. Questo pensiero ingenuo mi attraversa veloce il cervello e faccio di tutto per scacciarlo, non sembrare naïf e perdere il polso della situazione. Del resto, trattasi “solo” di scelte di mezzi di comunicazione artistica e non d’altro. 

Mi sembra più fresca la proposta dell’artista del Benin Georges Adéagbo, e le sue accumulazioni di oggetti quotidiani, nuovi o usati: a una prima lettura sono segni inoffensivi, ma lo sguardo viene immediatamente catturato da connessioni interne all’accatastamento che rimandano alla funzione sociale e politica dell’artista in Africa.  

Mi sotterro nell’antro di Nathalie Djurberg, premiata come miglior giovane artista, e m’infilo nella sua foresta intricata, sensuale e già corrotta. Come corrotti sono i personaggi dei suoi filmini animati con il pongo (una tecnica che piaceva a noi bimbi degli anni ’60 e ’70 e che inevitabilmente ci affascina ora che siamo i 40-50enni che frequentano, saputi, la Biennale). Il sentimento che s’insinua è, per l’appunto, timore e sgomento di fronte a violenza mimetizzata abilmente, malgrado la seduzione di una bellezza ipernaturale e la rassicurazione dei simboli religiosi. Mi piace molto per la maestria artigianale che sa di applicazione tenace e ossessiva. 


PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI, Fare Mondi/Making Worlds, Nathalie Djurberg, Experiment , 2009, installazione e video

Risalgo due piani e mi trovo nella stanzetta linda e cortese di Wolfgang Tillmans, con la sua lezione sui colori della natura. E’ più interessante osservare la disposizione delle componenti dell’installazione che verificarne la tesi (del resto, credo sia quello che Tillmans voglia da noi). L’artista è amato da molti, ma io penso che il suo cursus sia piuttosto discontinuo e non sempre eccellente. Qui è “classicissimo”, non convincente come in altre occasioni.  

Passo attraverso un tributo ad un antico ospite della Biennale, lo svedese Öyvind Fahlström, per dirigermi verso una sala singolare e bellissima, di sapore “didattico”. Birnbaum ci spiega dove l’arte concettuale ebbe i suoi più nobili prodromi. Il movimento Gutai, fondato in Giappone ad Ashiya (Osaka) nel 1954 comprende diversi artisti che prendono le mosse dalle comuni radici estetiche dell’arte giapponese (intrisa di accezioni filosofiche legate al buddismo, in particolare alle discipline Zen), osserva con attenzione l’arte informale dell’Occidente e rielabora originalmente la funzione dell’arte e dell’artista in Patria. Gutai insiste sul forte significato dato al gesto e – conseguentemente – alla performance ed ebbe come “ambasciatore” in Occidente Antoni Tapiés: l’impatto fu enorme. Da Mathieu all’Arte Povera, a Fluxus, il messaggio fu colto e declinato in miriadi di esperienze artistiche.

Per vedere come l’arte di Gutai abbia esemplarmente connotato le scelte dei collezionisti europei è necessario rimanere in Città e visitare l’intrigante e colta mostra “In-Finitum” a Palazzo Fortuny, di cui parlerò in un prossimo itinerario dindòn.

Con spirito lieve, osservo la proposta di Philippe Parreno, velata di lirismo, con la sua ricchezza di richiami culturali di molte epoche e molti Paesi. Forse, insieme ai bastoni di Cadere, l’opera che mi porterei volentieri a casa.
Da qui in poi una serie di artisti che rileggono i temi e i risultati della ricerca del XX secolo: il modernismo (Sherry Levine), l’installazione site-specific (Palermo, con un’opera già presentata in Biennale nel 1976), il neo-concretismo (Lygia Pape), il neo-dada (Richard Wentworth). 
Mi inalbero perché non vedrò l’opera di De Dominicis, che è stata tolta subito dopo l’inaugurazione e mi chiedo perché il padre dell’arte concettuale in Italia debba essere ricordato attraverso l’assenza (anche se, come vuole il mito, la faccenda gli avrebbe fatto gran piacere).
Ma non c’è tempo di arrabbiarsi, perché vengo catapultata nell’altro antro degli orrori di questa mostra (particolarmente parca di opere spaventevoli), quello allestito da Hans-Peter Feldmann, una tavola imbandita di giocatoli, chincaglieria, oggetti quotidiani che, ruotando su piccole piattaforme, proiettano la propria ombra complessa su un grande telo parallelo alla messa in scena. Meraviglia garantita.
Scivolo su Pavel Pepperstein, perché le opere che ha concesso al Padiglione della Russia sono migliori, scavalco un’inutile Rachel Harrison, secondo me acchiappata perché si doveva far vedere dove la ricerca americana di questo segmento dell’arte concettuale sia andata a parare, e approdo a Spencer Finch, ovvero colui che non puoi fare a meno di invitare (l’essenza stessa del concettuale, la redistribuzione dei significati di singoli accadimenti al di fuori del proprio originario contesto, galleria d’arte o ambiente naturale che sia), ma che non ti è molto simpatico. Più interessante è Simon Starling che mette in relazione l’attività umana (industriale) con il movimento involontario dell’opera finita (prodotto industriale) e sembra proporre un nuovo livello di connessioni fra i due elementi dell’installazione.

Gilbert & George, questa volta, non ci stupiscono più con gli effetti speciali, perché il tema della mostra è diverso (e non devono aspirare a nessun premio…). Lasciano una corretta e istruttiva traccia del proprio lavoro, ma niente di più.

Entro nella sala dedicata ad un altro alfiere della pittura. Per la verità, Pietro Roccasalva mette i puntini sulle i, definendo le sue opere composite (formate da video, tableaux vivant, fotografie, ecc.) “situazioni d’opera”, ovvero come dice egli stesso: «Il raggio d’azione di un quadro in quanto “artificio intelligente” o simulacro». Fatto sta che per Roccasalva, la pittura è punto di partenza e punto di arrivo. A me basta ciò che vedo (bidimensione) e son contenta, anche se la presenza inquietante di un grammofono m’incalza dal centro della sala. Il tratto è sapiente, con evidenti richiami non solo a Bacon, ma anche a De Dominicis e ai grandi del ‘600 europeo. E il fatto che il medium sia utilizzato come elemento di un progetto più ampio, pone in nuova luce anche il quadro. Basta che non si esageri con la didascalia. Questa sala riprende una performance milanese di cinque anni fa: l’ascensorista è una citazione dalla filmografia di Quentin Tarantino e da Amerika di Kafka. A Milano, era impersonato da un attore in posizione stante, il caronte del pubblico (un ascensorista, per l’appunto). Il migliore dei Nostri? 

Siamo alla fine (volutamente escludo dai commenti Yoko Ono). Acchiappo una trentina di cartoline di Aleksandra Mir (l’ultima delocalizzazione, l’ultimo inganno ) e penso che ci meritiamo un caffé al bar di Tobias Rehberger, fantastica idea (il caffé e il pregiatissimo bar). Non so se approvare l’andazzo degli ultimi anni di alcuni artisti che, abbandonata l’idea di un oggetto da creare inserito in un ambiente dato, spostano l’attenzione direttamente sull’ambiente dato e ricreano quello (ma non era land art?), però mi piace immensamente. Ancor più mi piace il bookshop di Rirkrit Tiravanija, forse perché qui c’è una piena identità fra l’opera e il suo creatore.

Conclusioni:

Nella rassegna del Direttore Birnbaum individuo un filo conduttore che non è stato abbandonato neanche a costo di inserire elementi poco stimolanti, ma necessari per la “completezza dell’informazione”. Un’onestà intellettuale che sconta un poco di lentezza nell’esposizione. Mi chiedo perfidamente se il fatto di essere un rettore d’accademia non abbia influenzato questa impostazione fortemente didattica, o piuttosto il fatto di essere un giovane curatore – quindi avere in teoria meno consuetudine all’organizzazione di rassegne internazionali rispetto a colleghi più anziani, esperti e “di mondo” – abbia frenato qualche consenso e fatto saltare qualche partecipazione più azzardata da una parte e qualche mostro sacro in più dall’altra. 

E in effetti, nessuno brilla, ma l’onestà dei progetti è visibile, laddove nel recente passato si poteva forse asserire il contrario (se andava bene). Cosa è meglio? Personalmente – perché sono un po’ all’antica in certe cose – preferisco il punto e a capo, la lettura comprensibile, il linguaggio piano, l’individuazione dei propositi, degli artisti e delle idee. Del resto, non sono addetta ai lavori e non devo sfoggiare nessuna opinione che stupisca l’auditorio. Né devo vendere alcunché.

Ai Giardini, però, è mancato il guizzo: un moto, un gesto catalizzatore che si presentasse come il vessillo di rottura, in positivo o in negativo, con le rassegne precedenti e desse maggior sapidità a questa. Insomma, dove è finito il Lupo Cattivo?

Vedremo all’Arsenale…

Intanto, furente per il pasto da emergenza, mi dico che è troppo presto o troppo tardi per la mia sosta gourmand (con grande scorno della mia amica che, benché magra, è buona forchetta). Avremmo voluto andare qui vicino al “Diporto” (Sant’Elena, Calle Cengio 25, tel. 0415285978, chiuso il lunedi, come la mostra), l’indirizzo migliore perché, dopo la Biennale, ti riconduce fra le sane e semplici virtù della Serenissima o al “Giorgione” dove mi sarei volentieri avventata sul pasticcio di pesce che conoscono solo i veneziani e i lagunari limitrofi (Castello, Via Garibaldi 1533, tel. 041 52287278 chiuso il mercoledi; ma qui è più divertente la sera, perché Lucio, che ha aperto un altro bàcaro più sciccosetto poco più avanti, il “Garanghélo”, si esprime al meglio e i suoi avventori sono tutti di Castello). Sarà per la prossima volta.
 

Fotografie: Cristiana Curti (tranne still da video di Steve McQueen Ó )

 

 

ITINERARIO N. 6

ARSENALE – 53a BIENNALE D’ARTE 2009 

(ovvero: Quest’anno la spunta Cappuccetto Rosso…)  

53a BIENNALE D’ARTE CONTEMPORANEA 2009 – GIARDINI
Dove: Arsenale, Castello – 30122 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione: Vaporetto Linea 1 (direz. San Marco, Lido), fermata ARSENALE, 43 minuti (più altri 5-6 a piedi)
FARE MONDI – MAKING WORLDS
Apertura e Orari:
6 giugno – 22 novembre 2009
Orario: 10-18 (chiusura biglietteria: 17,30) chiuso MARTEDI
Biglietti: intero € 18 (valido anche per i Giardini); ridotto (residenti, militari e ultra65enni) € 15. Previste altre riduzioni specifiche, singole o per gruppi; bambini sino a 6 anni, accompagnatori di invalidi, studenti di scuole primarie e secondarie coinvolti nei progetti educativi (cd. Educational): gratuito.
PRENOTAZIONI
Call center Hellovenezia 041-2424 (tutti i giorni 8,30-18.30), prevendita biglietti nei punti Hellovenezia a P.le Roma, Ferrovia, Lido, Fenice, Tronchetto.
INFORMAZIONI
www.labiennale.org
tel. +39 041 5218828; fax +39 0415218732
Tempo medio di visita secondo Arslife : 3 h ca. 

 

ARSENALE – Fare Mondi/Making Worlds


Cildo Meireles, Pling pling, 2009, installazione
 

 

Eccoci alla “seconda metà del cielo” di questa Biennale. Quest’anno resa ancora più vasta per l’accorpamento degli spazi all’Arsenale Novissimo (Thetis), utilizzati solo in rare occasioni. Sa di sudore, di olii combusti e lubrificanti, l’Arsenale, e forse per questo motivo accoglie con molta placidità la conversione al nuovo (basta lavorar: stemo calmi e vardémo…). E, infatti, guardiamo.
Gli spazi alle Corderie ospitano la seconda parte della rassegna ufficiale “Fare Mondi”, più avanti potrò visitare altri padiglioni nazionali che non trovarono posto ai Giardini, fra i quali l’attesissima (e già “battezzata” assai prima della vernice) rappresentanza italiana alle Tese. 
L’ingresso è già un bell’accogliere, devo dire. Per me, l’installazione della russa Anya Zholud che avvolge gli ambienti con una rete di fili, “arterie dell’arte”, ben rappresenta il messaggio e la poetica di più di un artista. I fili corrono sottotraccia lungo i muri ed escono di quando in quando imbrigliandosi in trecce vibranti, esprimendo l’energia e la vitalità – anche se nascosta, anche se da cercare – del fare arte: l’artista e l’opera come linfa vitale dell’esistenza umana.
Poi subito l’occhio è colpito dall’installazione, che giunge dai lontani studi sulla luce e sul vuoto, della costruttivista Lygia Pape (menzione speciale “Rifare Mondi”). La stanza che ospita l’opera è solcata da fasci di luce che corrono su fili dorati. Il tributo agli studi razionalisti è un valore costante dell’arte brasiliana degli anni ’70 e ’80, tanto che anche la critica di quel Paese è portata ad apprezzare gli artisti internazionali che seguono questa ricerca. Così è potuto accadere che una nostra straordinaria artista della luce, non molto nota da noi, Marinellia Pirelli, fosse ospitata con una grande mostra monografica nel 2003 al Museo d’arte Moderna di S. Paulo.

 

L’incanto dovrebbe essere moltiplicato nella sala plurifotografata (soprattutto durante la gustosa performance) di Michelangelo Pistoletto con i suoi specchioni che riflettono, frammentati, immagini infinite d’infiniti mondi. In sé non posso che plaudire l’idea, ma non riesco a trovarvi la stessa onestà dei lavori degli anni ’60 e ‘70. Il dilemma dell’artista: la ripetizione ossessiva di un concetto serve davvero a farlo comprendere, a renderlo più veridico e convincente? O piuttosto non ne impoverisce i contenuti? Qui, “…la seconda che hai detto…”
Più interessante è la proposta di Marjetica Potrc (più architetto che artista) che sembra direttamente suggerire una possibile fattibilità per i suoi progetti altrimenti impossibili all’anarchitetto Yona Friedman, il quale assembla una grande piattaforma volante, sorretta dalle colonne della sala. Su questa ciascuno può costruire un alloggio secondo le proprie esigenze usando materiali riciclati e di recupero e senza una particolare maestria in merito. L’architettura ambientale (utopistica?) al servizio dell’uomo ricostruisce gli spazi collettivi. 
Antitetico rispetto alle architetture (im)possibili dei suoi colleghi – per molti dei quali il tema della ricostruzione dell’ambiente vitale rappresenta davvero un’urgenza socio-politica oltre che artistica -, Simone Berti nega la possibilità di un rapporto “sano” fra uomo e ambiente con le sue immagini da erbario ottocentesco disegnate con abilità. Benché egli faccia abbondante uso di forme architettoniche, in commistione con forme botaniche più immaginarie che reali, non trova un legame fra loro se non giustapponendo cadenze estetiche. Non c’è dialogo fra i due livelli (il prodotto dell’uomo e il prodotto della natura).  
Interessante il progetto che si potrebbe chiamare di vita di Jan Håfström, una sorta di work-in-progress, di eterna rielaborazione di materiale collazionato durante viaggi negli Stati Uniti nel 1966. L’installazione si espande e si modifica acquistando una valenza di campionario d’immagini in evoluzione, da cui attingere per sempre nuove ispirazioni espressive.  
Un’originale visione da “villaggio globale” è nell’opera di Pascale Marthine Tayou del Camerun, che ricostruisce un intero villaggio africano così come i bimbi costruiscono i giochi con materiali d’uso comune. Ma alcuni video di vita quotidiana da tutto il mondo evocano la realtà dei legami fra culture distanti che ormai sono evidenti a tutti e dai quali non si può più prescindere.
Richard Wentworth appende bastoni da passeggio ai muri: utilizza forme consuete installandole in contesti inusuali e privi di riferimenti logici rispetto alle funzioni originarie degli oggetti. Ma l’installazione deve possedere solidi elementi estetici e realizzare un insieme dagli astratti contenuti formali.

La surrealista e metafisica Sara Ramo scopre con il video diverse interpretazioni di spazi abbandonati, “colpiti” da strani fenomeni di moto: fiocchi di polistirolo che cadono dai soffitti, una grande palla che attraversa solitaria stanze e corridoi… accadimenti apparentemente casuali che aprono la mente a nuove suggestioni visive.
 

Un viaggio e nello studio dei colori, come per ribadire i concetti espressi a proposito della connazionale Lygia Pape, offre Cildo Meireles, con la sua concezione fortemente simbolica e, per altro verso, immanente e fisica della contrapposizione di colori primi, nei quali ci si immerge per esperire un contatto diretto con il primo mezzo visuale in assoluto.
Il medesimo dialogo con gli elementi primi del fare artistico e della tradizione modernista si ritrova anche nell’opera dell’olandese Falke Pisano, che scompone le regole dettate da un Mondrian tridimensionalizzato quasi fossero elementi didattici da riscoprire.
 

Ha valore di denuncia sociale, dalle forti connotazioni estetiche, il progetto dell’indiana Sheila Gowda che esegue fantastici arazzi, reti e composizioni volanti prodotti con le trecce delle devote a Tirupathi nell’India meridionale. Un segno esplicito e poeticissimo delle divisioni di casta e sesso ancora prevalenti nella società del suo paese.

 

 

Denuncia più  marcata, di matrice strettamente politica, emerge dal progetto – simile al precedente, ma meno riuscito – di Anawana Haloba dallo Zambia, che presenta improbabili merci esposte in un innocuo e coloratissimo banchetto di presunti dolciumi. Si vende invece “Champagne moldavo” o “manodopera filippina”…
Fantastica è  invece la torsione della mega-autostrada di Thomas Bayrle, che approfondisce i dettami della Pop-art tedesca per evidenziare il complesso rapporto tra dimensione individuale e dimensione collettiva.

La straordinaria capacità  evocativa dei video di Grazia Toderi, non nuova alla Biennale, riprende uno dei temi portanti (la dimensione onirica) del “fare mondi” di quest’anno. La proiezione delle due città illuminate da infrarossi e attraversate da corpi luminescenti, extraterrestri ormai perfettamente inseriti in un contesto urbano, attrae e non inquieta, anzi tranquillizza lo spettatore, cullandolo nell’illusione di una calma apparente e innaturale. Molto buono.
Altrettanto illusorio è il mondo degli elettrodomestici “vivi” di Chu Yun che, con una trovata geniale, lascia a questi utensili quotidiani la luce pilota accesa in ambiente buio, creando così una galassia artificiale e surreale, ma non meno affascinante e pulsante.
L’elemento naturalistico, benché riletto in chiave metaforica, si ritrova nelle enormi mani di Buddha (frutto di un particolare cedro cinese) di Huang Yong Ping, che riprendono una scuola plastica di tradizione per la verità poco orientale. 
Ed ecco che si entra nei Padiglioni nazionali che non trovarono posto ai Giardini. Alle Artiglierie le sorprese non mancano.
A sottolineare la felice condizione delle “prove” sudamericane (un po’ tutte), il Padiglione dell’Istituto Italo-Latino Americano (che comprende opere di Bolivia, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Perù, Repubblica Dominicana) entusiasma per le lezioni d’arte regalate. Per la Colombia, le immaginifiche mappe murali di Luìs Roldán solcano lo spazio regalando sensazioni ottiche e tattili di grande emozione.

 

Sorprendente inventiva e delicato senso poetico mostra l’opera di Dario Escobar del Guatemala, che rappresenta la coda del mitico serpente piumato azteco (Quezalcoatl, in lingua Maya Kukulkán), origine del mondo e della Civiltà, ancora vivida presenza nell’immaginario collettivo delle genti centramericane. Coda costruita con materiali poveri, come povero, ma devoto, è il popolo del suo Paese.
Nel medesimo solco opera Raquel Paiewonsky della Repubblica Dominicana: attinge alla ricca eredità animistica della sua gente e dà vita a un “popolo” fatato di totem, di feticci, di esseri fabbricati secondo le tradizioni peculiari delle arti decorative della sua terra. E’ una genìa alternativa, magica, forse la sola che ha reale contatto con la terra e la Natura.
Le grandi porte di Iván Navarro (Cile) dai neon multicolori aperte verso il nulla (o magari verso un pozzo senza fondo poco distante) restituiscono allo spettatore la dimensione dell’opera come percorso filosofico: l’uso del colore per ricondurre alla materia prima, la porta quale metafora per eccellenza dell’obbligatorietà della decisione e delle molteplici (tutte vane) opportunità offerte all’Uomo dal Caso. 
Un’altra notevole sorpresa è data dalla rappresentanza degli Emirati Arabi, con la nutrita teoria di immagini fotografiche della giovanissima Lamya Gargash, il cui tocco è già sapiente. L’artista riprende interni di camere d’albergo del suo Paese, con ciò evidenziando il mutamento delle tradizioni e della vita quotidiana della propria società; ma, con l’inserimento in ogni scatto di un ritratto della propria famiglia, rende propria, attuale e intima la vicenda storica in cui vive (titolo dell’opera: “It’ not you, it’s me”). Il resto del padiglione è costellato di presentazioni ed elaborati rendering della famigerata Isola dei Musei ad Abu Dabi che è in procinto di essere realizzata – progetto assai discusso, ma indubbiamente una “firma” inequivocabile del senso di appropriazione degli Emirati nei confronti della Cultura Occidentale -, isola da cui l’Italia è, come si sa, esclusa (benché il Governatore della Toscana abbia pensato di recente di “esportare” una sede degli Uffizi a Saadiyat, ved. l’articolo su Arslife , “L’arte italiana negli Emirati Arabi” di Angela Maritato).
 

Di nuovo fuori dalle rappresentanze internazionali, si torna al circuito della mostra “Fare Mondi” nella sala di Pae White, che trae le sue radici formali dall’esperienza maturata nel campo della scenografia. L’installazione dedicata a questa Biennale è sorprendente, sia per il progetto in sé, di stampo dichiaratamente architettonico, sia per la commistione di elementi diversi fra loro, corde e oggetti vari e animali che s’inseriscono all’interno della complessa costruzione infondendole una vita inattesa. Per me, una delle opere migliori in mostra.
 

Finalmente vediamo la luce del sole dopo il lungo tunnel. Davanti al bacino della Darsena Grande, sulla banchina delle gru, Att Poomtangon ci offre acqua fresca da bere – se lo vogliamo – mettendo in moto noi stessi all’interno della sua struttura/monumento. E, in effetti, devo riprendere fiato per prepararci spiritualmente alla visita più attesa.
 

Nel Padiglione Italia mi si spegne ogni entusiasmo.

La sorprendente qualità  dei curatori si esprime nell’attenta scelta, fra tutte le possibili opzioni, delle opere peggiori della congerie di artisti già massacrati dalla critica ancor prima di essere visibili. Un’incapacità che lascia sbalorditi. 
Senza volermi unire al coro delle reprimende che annovera già firme autorevolissime e semplici spettatori, sottolineo soltanto il fatto che persino ottimi artisti come Bertozzi & Casoni sembrano collocati a caso (armadietti del Pronto Soccorso: che sapessero?), con una disinvolta indifferenza al risultato che non si addice all’altrimenti geniale duo; gli accidenti-ma-erano-buoni Daniele Galliano e Davide Nido riescono ad annoiare con esercitazioni tirate via e compitini da prima elementare (ma i bambini hanno più fantasia). Tutti gli artisti (tutti!) sono da non ricordare, da espungere, sia dal contesto della Biennale (meglio scordarsi delle singole opere presentate) sia dal milieu artistico (meglio scordarsi che presto saranno in qualche catalogone patinato e le orrende “cose” saranno riprodotte sugli almanacchi del mercato).

Il povero Silvio Wolf che non merita di essere inserito nel gregge – se non altro per un passato senza macchia -, sconta però il solo fatto di farvi parte, talché anche la sua opera è modesta.
 

Nessun commento per Chia, che dovrebbe appendere il pennello al chiodo lasciandoci qualche bel ricordo di sé e che fa pendant monumentale con l’inqualificabile omaggio a Cascella. Ma che omaggi sono? Ben diverso è assistere al tributo accordato ai propri grandi da Spagna, Stati Uniti, Israele… solo per citarne alcuni qui in mostra.

Forse i curatori stanno tentando la dignitosa e più remunerativa professione d’imbonitore per incanti estivi in qualche cittadina termale ad altra concentrazione di ultraottantenni (quelli che conosco io, però, si arrabbierebbero…); al grido di “sosteniamo i nostri artisti”, i novelli vendeurs allietano i villeggianti con l’esposizione della merce che andrà in asta la sera di San Lorenzo, dopo un festoso cocktail party a base di Gutturnio e parmigiano “mucche rosse”. Fra un’alzata di mano e una caduta di dentiera, le stelle (anch’esse cadenti) staranno a guardare…

E mentre mi chiedo perché dal red carpet di B&B siano stati esclusi nomi pur solidi come Xante Battaglia, Remo Squillantini, Gianrodolfo D’Accardi, Emanuele Cappello, Sergio Scatizzi, Franz Borghese, Salvatore Magazzini o il solare Pompilio Mandelli, e considero che, per completezza di catalogo – come ospite straniero – manca giusto qualche multiplo di Arman, esco urlando “vergogna” e mi pento subito del motto, perché oggi abusato. Ma qui, come forse non altrove, è l’unica parola che si addice. Sconsolante.
Non mi riprenderò, e, difatti, ne va della visita al Padiglione della Cina, che in altri momenti avrei accolto con interesse; l’unico a risollevarmi è l’ottimo Qiu Zhijie con il poetico e insieme sinistro domino ospitato nel Giardino delle Vergini. La Cina è più onesta di noi: ammette che non sa dove andare e lascia le cose (d’arte) al caso. Sarà Vero?

Bevo una birretta al piccolo bar, amministrato da una specie di orchessa che si rivelerà  poi gentile (è evidente che ha a che fare con i visitatori italiani inferociti…), e mi godo la pace di questo luogo fantastico. Poi riprendo il tour per vedere i nuovi spazi “dilà dall’acqua”, sull’altra riva della Darsena all’Arsenale Novissimo, cui si accede con un cortese trasporto su lancia, divertente e fuori da ogni criterio in merito a sicurezza in navigazione (grazie al cielo!).
In questi nuovi, magnifici, ambienti esterni e interni sono allestite alcune mostre correlate alla Biennale, fra cui la splendida rassegna dedicata a Jan Fabre, l’unico veramente spaventevole della compagnia (e infatti ne è fuori…). Da Bregenz, arrivano in laguna le cinque grandi installazioni di “From the Cellar to the Attic – From the Feet to the Brain” e muovono le sane inquietudini che questa Biennale un poco troppo composta non ha saputo far emergere a dovere. Tocca al Maestro il compito di stimolare l’eterna questione su quale sia la funzione dell’arte oggi, se possa anche essere terapeutica; se, attraverso l’organizzazione estetica del mito, attraverso la progressione misterica nella Natura, l’Uomo possa ritrovare le proprie radici e, magari, riderne, se non riesce a capirle.
 

Un ultimo sforzo è  necessario: si attraversi la teoria dei capannoni in fronte alla Darsena e si entri nel giardino delle meraviglie di Thetis, una passeggiata benefica fra sculture silenti e di grande suggestione, un’oasi incantata che avrebbe affascinato il De Chirico “sano”, quello dei Bagni Misteriosi… Fuori dall’ingresso all’Arsenale, in Campo della Tana, rimangono da visitare due brevi rassegne: Alessandro Verdi con la mostra presentata dalla Fondazione Mudima e curata (curata?) da Bonito Oliva “Navigare l’Incertezza”, non pessima, ma usuale e un po’ piaciona; e la buona rappresentanza di Hong Kong con “Making (Perfect) World: Harbour, Hong Kong, Alienated Cities, Dreams”, qui l’evidente messaggio ambientalista si sposa a un riuscito progetto estetico: laddove anche l’esigenza sociale può essere interpretata ad arte e con arte.  Troppo caldo, troppa fatica intellettuale. Il Lupo non s’è visto (anche se qualcosa nel bosco mi ha detto che c’era, qui più che ai Giardini), e Cappuccetto Rosso è arrivata sana e salva dalla petulante nonnina. L’unico refrigerio è sapere di essere vicini ad un ricovero. Oggi mi tratto bene, per riacquistare speranza nelle virtù italiche demolite dalla pessima prova dimostrata in Biennale. Ritorno quindi verso il Bacino di San Marco e supero, in direzione della Piazza marciana, l’imbarcadero per qualche decina di metri. Oltre il ponte della Ca’ di Dio, pochi passi ancora in Riva degli Schiavoni, entro nella Calle della Pescaria e subito arrivo al rinomatissimo – per i veneziani doc – Covo (Castello 3968, tel 041 5223812, chiuso mercoledì e giovedì), dove il talento è ancora passione unita a ineccepibili capacità tecniche, dove il pesce non è un’opinione vaga che cambia con le mode, dove non si gusta nulla se non è più che “contemporaneo” e dove vorrei tanto assaporarmi un bel piatto di gnocchi ai filetti di gò… e con ciò, definitivamente, mi riprendo.

 

Fotografie: Cristiana Curti e Alvise Aspesi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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