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Considerazioni sul Padiglione Italia della 54a Biennale di Arti Visive di Venezia

Venezia, 54 a Esposizione Internazionale d’Arte

ITALIA
Patria di Santi, Poeti, Navigatori (e Critici d’arte?)

 

Lo scorso 19 ottobre, Vittorio Sgarbi, curatore del Padiglione Italia alla LIV Biennale di Arti Visive (4 giugno-27 novembre 2011, vernice: 1, 2 e 3 giugno 2011), annuncia ciò che tanti immaginavano in buona misura, considerata la poca continenza verbale del Nostro.

Con l’occasione, peraltro condivisibile, di onorare il 150esimo dell’Unità d’Italia al progetto parteciperanno 27 città dello Stivale, 89 estere ove risieda un nostro Istituto di Cultura e circa 1.000 artisti “decentrati”, mentre altri 150 (ripartiti in otto sezioni, da Fotografia a Gastronomia) si divideranno ben 6000 mq del nostro Padiglione, raddoppiato nelle dimensioni. La scelta dei Venician Happy Manies è delegata a un centinaio di intellettuali di varia estrazione e a un pool di sostegno di critici e storici dell’arte e disciplinata da Silvia Evangelisti, senz’altro provvida, viste le buone performances di ArteFiera a Bologna. I risultati delle sezioni extra-moenia si ammireranno in video installati entro lo spazio alle Corderie. Prevista una nutrita serie di eventi coordinati dal deus-ex-machina fra i quali l’esposizione di alcuni capolavori del passato (Lotto, Mantegna, Tiziano) posti in relazione a opere del Novecento, mostre di Oliviero Toscani e Salvatore Settis, Enrico Ghezzi, le rassegne di firma sgarbiana sul Museo della Mafia e sul Museo della Follia, una su disegni inediti di Cucchi, una su artisti stranieri che in Italia hanno trovato patria elettiva e altro ancora.

Per ciò che si sa ad oggi i “nomi” contemporanei la cui partecipazione si deve espressamente alle scelte di Sgarbi sono il ceramista Federico Bonaldi e il pittore Luigi Serafini.

L’intento dichiarato è quello di garantire visibilità a artisti non corporati allo strapotere del mercato e dei critici engagés. A cui, come tutti sanno, Sgarbi è del tutto estraneo. Operazione che forse, almeno un poco, almeno un pochino, soffre di velata demagogia, ma si avvale dell’innegabile possibilità di a) affermare: “quello là non piace? E io che c’entro? L’ha scelto la galleria Zuccheri e Panini di Roboaldo di Sotto, oppure si deve all’opinabile gusto del noto scrittore Oscar Deglistruzzi…”; nonché b) azzerare in Patria le voci dissenzienti, perché a forza di coinvolgere “l’universo mondo”…

L’elevato costo della faraonica impresa richiederà – per bocca dello stesso patròn – oltre quanto disposto (e disponibile) da Ministero e sponsors assortiti anche l’intervento delle generose gallerie private che accompagneranno gli ancora per poco ignoti artisti in attesa di ‘sì onorevole ribalta. Il che ventila il sospetto di armeggi simoniaci e non collima esattamente con l’odio manifesto per il sistema del mercato dell’arte di cui poc’anzi si denunciava il marciume… ma, certo, non tutto si può avere se le casse statali languono e si vuol far bella figura; del resto, qui non si deraglia granché dai costumi delle passate edizioni. Per cui c’è poco da eccepire: lasciamo alle anime candide l’ònere di far scivolare un anacoluto in un più semplice enjambement. Si otterrà il benefico risultato di sostenere nuovi operatori del settore, dato che gli altri sembran già tutti “impegnati” nelle loro losche trame. Fioriranno inedite alleanze. Qualcosa di nuovo si muoverà. Sarà interessante…

Invero, fa piacere pensare che fra pochi mesi gli Italiani (e i loro ospiti stranieri) godranno di questa “sagra dell’arte italiota” che si giova dello sforzo congiunto di molti rinomati intelletti e di preparati professionisti del settore e coinvolge realtà storiche, territoriali e culturali raramente coese da un progetto comune. Già questo sembra un risultato eccezionale e di buon auspicio. All’interno del “calderone” di sicuro saranno poi gradite sorprese (come insegnava il Conte Panza: su mille che ne prendo, vorrai pure che almen quattro siano buoni – solo che, con lui, erano anche più di quattro…) di cui, se me ne si darà facoltà, sarò felice di rendere conto. Sempre che riesca a individuarli, nell’elenco da pagine bianche di paesino del cuneese.

Lo straordinario festival proposto da Sgarbi ha il sapore di un sincero omaggio alla cultura artistica nostrana nel 150esimo dell’Italia Unita; un evento cui è giusto dare e pretendere massima visibilità. Visto così, è più che plausibile che per ottenere un esito positivo dall’impresa fosse opportuno investirne un personaggio (nazional-)popolare anche al di fuori del mondo dell’arte; vetta che Achille Bonito Oliva, solo per fare l’esempio dell’ultimo nostro vero critico d’arte contemporanea riconosciuto all’estero, non raggiunse mai, neppure ai tempi della gustosa copertina di Frigidaire, rivista comunque di non capillare diffusione fra le casalinghe di Voghera.

La popolarità raccoglie vasti consensi e aiuta a unire le forze. E questo, per l’arte, è bene.

Ma la Biennale di Venezia non può essere il palcoscenico di una manifestazione di tal genere.

Già nella scorsa edizione nel Padiglione Italia latitava il primo requisito del pubblico biennaliero: il disegno critico assertivo, la scelta di opere (scelta! non illogico ammasso) che illustrino vividamente l’idea del curatore incaricato, anche nell’ottica del giudizio fuori dai nostri confini, della positività del quale abbiamo estremo bisogno.

Il “Padiglione di Sgarbi” sarà assai adeguato per il circuito mediatico italiano, illuminato (con un’attenzione maggiore che in passato) da reti televisive pubbliche e private della Penisola. Considerato, poi, il ruolo attivo delle Regioni, anche le minori tivù locali faranno a gara per avere una fettina di visibilità. Ciò è ancora un bene, infine. Anche per Sgarbi, che entrerà – finalmente solo per parlar d’arte – nelle case italiane come neanche Telemarket o il Costanzo Show poterono garantire. Ed è perfetto per l’Italia, che fa dipendere dalle curve indicali dello share il valore assoluto di ogni espressione dell’umano ingegno.

Ma sarà poco comprensibile (e forse poco interessante) per la platea internazionale.

La caratteristica peculiarmente selettiva della kermesse veneziana pretenderebbe che i curatori (critici, magari! Basta con i “curatori/P.R./organizzatori”, basta con i pensieri deboli della storia dell’arte!) per questa sola volta siano i protagonisti e scelgano una precisa linea teorica, individuino alcuni artisti che a essa si attaglino senza cedimenti, e propongano una visione dell’arte personale limpidamente intellegibile. Se il supporto speculativo sarà convincente, l’artista ne risulterà premiato ed emergerà ben più del suo critico; se sarà confuso, non ci sarà premio per nessuno.

In Biennale non si va per allestire uno “spettacolo diverso dall’edizione di due anni fa”. Questo può essere il dictat di un palinsesto di prima serata, non di un importante appuntamento culturale (forse il più importante) che la critica di tutto il mondo osserva per scegliere gli emblemi dell’arte dei nostri tempi. E, purtroppo per Sgarbi che non concorda con questo assunto, è la critica internazionale (di cui anche gli studiosi italiani – se valessero – potrebbero far parte) che determina la fama e la circolazione delle opere e la loro richiesta non solo nelle aste e nel tanto esecrato mercato (che pure è fondamentale, accidenti!), ma anche e soprattutto nei Musei, nelle Fondazioni e nei luoghi espositivi pubblici e privati del globo.

Qualcuno dovrà pur riflettere sul fatto che nelle maggiori collezioni private italiane d’arte contemporanea formatesi negli ultimi vent’anni il ruolo preminente è riservato allo “straniero”!

Ciò non vuol dire che il curatore del Padiglione Italia debba essere condizionato dal dover compiacere il gusto altrui: significa, al contrario, che abbiamo bisogno di un progetto filosofico autoriale colto, potente e fortemente identitario in grado di competere con Nazioni che hanno o più freschezza e libertà d’impostazione o maggior tradizione e peso culturale nel contemporaneo. Id est, fare un lavoro esattamente opposto a quello di un “segnalatore/delegante”, come Sgarbi stesso si definisce. Il teatro dell’agóne non è il pur magnifico Complesso di Santo Spirito in Sassia a Roma o l’affascinante e prestigioso Palazzo Riso a Palermo. Il teatro, alla Biennale di Venezia, non è davvero “casa nostra”: è il mondo; con il vantaggio che, per una volta, in quell’occasione, il mondo si precipita a casa nostra.

Facciamo, allora, questo gioco. Irreale per tre motivi che invito il lettore a rintracciare come negli appassionanti quiz (appropriato potrebbe essere Quesito con la Susi) della Settimana Enigmistica.

Io (Cristiana Curti – passante qualsiasi, entusiasta d’arte – nelle fattezze e nelle facoltà di ma non con la testa di), Vittorio Sgarbi, sono un personaggio le cui competenze professionali spaziano dall’ambito dell’intrattenimento televisivo, a quello della politica attiva, degli studi d’arte e del suo mercato, sino alla créme del mondo di vips variamente assortiti fra cortigiani di prima, seconda e – se continua così – anche terza Repubblica, capitani d’industria, starlette e starlone, aristocratici di ultima nomina o di antico blasone, imprenditori della bassa e aspiranti della alta. Il mio potere seduttivo è irresistibile anche fra infermiere ed elettricisti. Gli unici da cui non riesco proprio a farmi apprezzare pienamente sono gli omosessuali, ma questo accade perché non mi è concesso dissipare parte del mio – più redditizio – fascino etero. Ho facoltà comunicazionali pressoché uniche nel mio Paese: il mio istrionismo conquista anche chi mi disprezza.

Ho un compito affidatomi dal Governo in carica: ideare il Padiglione Italia per la 54a Biennale d’Arte di Venezia che cade nel 150esimo anno dall’Unità del mio Paese. C’è bisogno di un gesto eclatante che faccia di me l’eroe del momento e anche del dopo-sbornia, se possibile.

Ecco, io, Vittorio Sgarbi, detto “Asso-piglia-tutto”, approfitto dell’irripetibile coincidenza astrale e, con l’irrefrenata facondia e i super-poteri conferitimi dalla Soprintendenza al polo museale veneziano e da quel par de’ martiri in Parlamento che stanno sempre meco sicut angeli custodi, incanto la Fondazione lagunare, restituisco al mittente il metroquadrame alle Corderie e mi riprendo la “mia” sede con il sublime giardino di Carlo Scarpa come un diamante in mezzo al cuore, ora Palazzo delle Esposizioni. La ribatezzo “Padiglione Italia” (blindandone autoritariamente la destinazione d’uso anche per gli anni a venire) e magari la sottotitolo “Nel Centocinquantesimo Dell’Unità Della Patria” e invito chi scelgo io (e io solo, acciocché si comprenda quanto valgo come esperto di contemporaneità), ma non più di due/quattro, a esporre secondo una mia chiara impronta critica e un tema da me imposto che più inattaccabile non si può: “Italia e Italiani”.

Se, proprio proprio, mi avanzasse un pochino di spazio (ma non è detto…), concederò graziosamente che colà si abbozzino le linee guida della mostra curatoriale della Biennale, la quale potrà espandersi quanto più vorrà all’Arsenale, plaga ammaliante, preludio a ulteriori clamorosi sviluppi espositivi (che potrei, già che ci sono, pure promuovere) che ne faranno uno dei siti più affascinanti al mondo per l’arte contemporanea.

Indi, siccome risulterò vittorioso da questa prova (perché sconfitta, a me, non si dà), onusto d’acclamati allori che, durante i fasti romani di ritorno dalla pugna, mi verranno tributati anche da quei rognosetti saputelli che sempre mi furono invidamente avversi, pretenderò e otterrò di amministrare nella Capitale (e sedi distaccate come da progetto) l’imponente summenzionato omaggio alla cultura, anche inedita, dell’Italia Unita che farà felici i miei connazionali in Patria e all’Estero per degnamente onorare Mazzini, Garibaldi e Cavour, Tommaseo e Cattaneo (forse più graditi ad alcuni) e financo Gioberti e Rosmini (forse più vicini alle mie corde).

Allora? Credete davvero che qualcuno si opporrà al mio travolgente furore creativo?

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