Andy è un brianzolo anomalo.E’ nato e vive a Monza in una sorta di “Factory” degna del nome che Andrea Fumagalli usa come pseudonimo da quando era un adolescente. Ex Bluvertigo. Oggi leader dei Fluon, pittore, dj, taoista e molto altro. Abbiamo incontrato questo artista nel suo “capannone” magico. Un pozzo di creatività, arte e musica. Un’intervista che ci svela molti segreti dello stesso Fumagalli e i retroscena del mondo dell’arte e della musica. Senza esclusione di colpi.
Nasce all’età di quattordici anni per anglofilia. Mi son sempre piaciuti i nomi stranieri e negli anni ’80 tanti miei amici inventavano degli pseudonimi. Quindi da Andrea mi sembrava il più comodo. Il personaggio poi nel tempo si è evoluto anche a livello esistenziale. L’artefazione avviene anche nel lavoro e nella vita. C’è un Andrea Guido Fumagalli che applicato a tutto quello che gli piace fare diventa Andy. Uno ha la radice brianzola l’altro è lo scemo del villaggio, che si diverte e impara a vivere secondo uno schema opposto a quello che sono le sue radici.
Nasco contemporaneamente come disegnatore illustratore all’Istituto d’Arte e nel contempo comincio a suonare con l’ex cantante dei Bluvertigo, grazie al quale mi avvicino alla musica a livello pratico. Ho iniziato facendo il ballerino di breakdance in un suo vecchio gruppo e dopo poco tempo mi sono ritrovato ad essere membro del primissimo trio, gli Smoking Cocks. Nel frattempo disegnavo, stavo studiando, ho fatto l’Accademia delle Arti Applicate. In realtà sono un grafico illustratore, come musicista sono autodidatta. Tutti e due i mestieri si sono sempre intrecciati però. Oggi siamo al massimo della sinergia tra le due attività.
Io ho basato tutto il mio percorso secondo una teoria di Bruno Munari, personaggio che amo molto, che insegna quali possono essere le tappe di un percorso creativo nello svolgimento di un qualcosa. Io cerco sempre di fare quello che mi piace, non ho vie di mezzo. Infatti quando poi ho finito un’opera o un brano esso non mi appartiene più. Per questo produco tanta musica e tanti quadri. Il fermento creativo è uguale da tutte e due le parti.
Perché sono un “tamarro” e poi perché tanti anni fa ho trovato questo codice, questo bordo Uni posca che tende ad isolare ogni dettaglio in isole cromatiche. Una mia insegnate in accademia mi aiutò molto, perché mi disse che il tratto di linea era proprio un mio segno di riconoscimento e mi consigliò di insistere su questo. Sono sempre stato malato del colore fluorescente..
Mah, credo sia una cosa alla Stendhal. Per la chimica che ci sta attorno e il fascino di come il cervello possa percepire i colori. Sono i colori in assoluto più evidenti. Da piccolo ero molto attratto dai cartelli “affittasi” o “vendesi”, con quei colori così accesi. Oppure dal fondale dei poster di Moira Orfei, che però dopo un po’ scaricavano stando all’esterno. Mi ha sempre colpito questo tipo di cromaticità.
Proietto foto. Le ingrandisco e faccio la prima sintesi a matita. Poi faccio il primo giro di Uni posca nero. Stendo i colori e “ribordo” tutto con il nero. Sono immagini estratte da mie fotografie, ho smesso di fare copie dal vero. Ho sempre scattato tante foto, anche quando andavo in tourné. Mi piaceva ingrandirle tantissimo e un dettaglio, magari insignificante in piccolo, in grande diventava un protagonista. Sovvertire i ruoli di chi e di cosa c’è nella foto.
Forse il mio preferito in assoluto è Max Ernst. Sono amante del surrealismo bretoniano. La rappresentazione dell’onirico che è avvenuto nel primi vent’anni del ‘900. Anche l’Arcimboldo mi ha sempre affascinato tantissimo. Durer a livello tecnico secondo me è il migliore di tutti. E poi l’esplosione assoluta della fine degli anni ’70 americana. Il pop dei più famosi e meno famosi, tra cui anche Keith Haring, che è la punta dell’iceberg di quel tipo di esplosione. Anche il fermento della street art, quella vera però. Il numero uno in assoluto tra il rapporto pittura e persona è Salvador Dalì. Soprattutto per quello che ha scritto..
Di “Factory” ha ben poco. Sono altri tempi, c’è molta meno droga e soprattutto io non sono un gatto che guarda giocare i topolini farsi del male, perché non ho quello sguardo sadico come poteva averlo Warhol ai tempi. Però è un luogo di passaggio e di aggregazione fra artisti.
Sì, anche perché c’è spazio. Cercavo proprio un capannone così. Qui ospito anche amici che per esempio arrivano dall’estero. Il mio progetto precedente si chiamava Reset House, lo condividevo con Roberto Bottazzi, un genio del design del gioiello, che ora vive in Spagna. Un personaggio fantastico, con cui ho sviluppato strane fotografie, costumi, design. Era un progetto senza un soldo (come sempre) ma abbiamo passato almeno nove anni di profonda creatività. Giorno e notte. Era una casa cantiere. Come dei “punkabbestia”. Sommersi di roba, un po’ come adesso..
Alle elementari quando facevo il chierichetto. (ndr, risponde con fermezza ancora prima di finire di porgli la domanda) Perché sono sempre stato un esibizionista. Quando facevo qualcosa lo sfoggiavo. Ho avuto una mamma molto rigida, ferma, lucida, con uno stile di vita che non fa una piega. Invece io di pieghe ne faccio tantissime. Sono l’ultimo di tre fratelli. Siamo tutti molto diversi e siamo cresciuti in un ambiente alquanto schematico. I miei genitori all’inizio sono stati molto zen, mi hanno guardato sbagliare. Che è una cosa orientale che nessun occidentale fa. Questa struttura molto rigida io l’ho lavorata, sarà per questo che mi piace Dalì. La teoria della materia molle. Contro corrente ma non per forza distruttivo.
Come Francis Bacon, che adoro. Lui con le sue opere comunica un disagio interiore molto forte..
Non si coglie no, perché il disagio, i miei periodi di catacomba me li tengo per me come momenti preziosi di morte interiore e rinascita. Ma nella pittura è sempre una “fiesta”! Una festa cromatica, della mia passione per la bellezza e la sensualità.
Io non voglio trasmettere niente. Io faccio quello che mi sento e mi sento bene quando mi metto in esposizione. Non voglio minimamente far venir fuori le mie catacombe, quelle sono materia di studio che restano con me (ndr, ride). La “fiesta” non ha esigenza comunicativa. Mi fa piacere quando arriva come grande entusiasmo nei confronti della vita. Io sono felicissimo di essere vivo, l’ho capito a quarant’anni, fresco di Cambogia.
No, per niente. Non è una questione di soldi, né di obiettivi di successo. Non me ne frega un cazzo, anzi, più mi sono avvicinato all’oriente, al taoismo, più ho perso la cecità che spesso si ha nei confronti di un obiettivo. Questo lato occidentale dove punti un segmento tra te e un punto di arrivo, non ce l’ho assolutamente più. Vivo a spirale.
Prima era un treno in corso verso il successo con i Bluvertigo. Infatti eravamo ciechi nei confronti della verità interiore di un progetto. Ci ho messo nove anni a mettere insieme qualcosa di credibile e i Fluon oggi (ndr il suo nuovo progetto musicale) sono quello che sognavo di avere. Tre personaggi completamente diversi uniti da buona energia, dove ognuno adesso è libero di fare quello che vuole. Qualsiasi cosa proposta viene presa in considerazione con credibilità e rispetto e la si porta in atto. Quante band ci sono separate in casa. Spesso la noia porta a sopprimere la musica. (http://www.fluon.it)
Compulsività sessuale e bellezza. Ricerca delle forme, dei visi e della comunicazione sensuale delle donne. Sono un eterosessuale abbastanza presente..Poi direi l’ironia. Rivisitare un bacco del Caravaggio mettendoci la Coca Cola come messaggio sterile di quanto sia pericoloso oggi il bere e mettersi alla guida. Una provocazione e lamento profondo di una legge assolutamente insulsa, che è una follia perché la mattina non fanno mai alcool test ed è pieno di gente che la mattina alle sette, per esempio, ha già bevuto chissà quanti bicchieri di vino, grappa e che magari è imbottita di psicofarmaci. Alcuni dei miei quadri li chiamo “Oltraggio ai maestri” dove prendo opere antiche e inserisco altri elementi.
Arredamento, manichini, strumenti musicali. Mi piace il concetto che dal quadro appeso l’immagine e il colore possano colare e diventare tridimensionali, avvolgendo tutto come fosse un virus. Il mio sogno è che tutti questi pezzi vadano a comporre un’istallazione che io ho in mente da un sacco di anni ma non ho avuto ancora i soldi per farla. Vorrei riuscire a far trovare lo spettatore dentro ad un mio quadro, come sotto l’effetto di un trip. Molte mie opere le sto vendendo, ma l’idea finale è questa.
Anche io sono in vendita. Tante donne si lamentano perché il gallerista ci prova ma io ho sempre sognato di trovare una vecchia mecenate che mi voglia portare a letto e che mi possa comprare venti opere. Tutti i quadri sono in vendita perché un a volta finiti non mi appartengono più. Quindi più ne faccio, più ne posso vendere. Sono tutti catalogati e sono tantissimi. Il meccanismo di vendita deve essere una cosa che rispetti la mia natura. Cioè, come dice Keith Richards: “Per diventare grandi bisogna cominciare dal basso.” Io non voglio diventare grande però comincio dal basso. Il curatore che parla di te o il numero di mostre che fai, fa scaturire che oggi il tuo prezzo al pubblico per esempio è di 3.600 euro per un quadro di un metro per un metro e il 50% va al gallerista. Mai mi verrebbe in mente di cedere a quel compromesso stupido per il quale un venditore di aria fritta ti dice “Ma costiamo tot perché magari un mecenate..” Non è più epoca per farlo. Il lancio di tanti artisti è avvenuto per “supercazzola”. Un artista può valere tot e un gallerista che poi ti manda all’asta ad un prezzo molto più alto alla fine ti ricompra, e piazza il tuo lavoro a dieci suoi collezionisti. Quei dieci, a distanza di dieci anni, oggi, se volessero rivendere un’opera non guadagnerebbero neanche un quinto di quello che hanno speso con i tempi che corrono e questo distrugge il mercato. Il collezionista a mio parere deve essere tutelato. E’ davvero affascinante parlare con loro, entrare nella loro ottica. Per esempio, se io dovessi andare a Miami, un gallerista mi direbbe che dobbiamo costare di più perché in America bisogna far così. Io non sono affatto d’accordo. Infatti a Miami ci sono andato, ho venduto dei pezzi, sono rientrato delle spese, non sono entrato nel grande business Usa ma ho mantenuto i miei prezzi, perché è il mio prezzo guadagnato gradino per gradino. Non posso prendere in giro un cliente, un potenziale collezionista che vorrebbe comprare una mia opera. Per esempio mi è stato detto che non posso andare a Dubai perché costo troppo poco. E per me vuol dire che ora non è il momento di andare a Dubai. Non ho la smania di diventare ricco. Mi piacerebbe perché farei un sacco di cose! Potrei produrre un sacco di miei amici musicisti, comprerei un capannone più grosso, farei dei viaggi, che alimentano la mia creatività. Non mi frega dei soldi, voglio svolgere un percorso artistico che per me è sano.
Certo, è quello che veniva detto a Keith Haring, quando gli dicevano: “Per favore smettila di fare le magliette, gli skateboard!”. Penso che siano discorsi di logiche di mercato completamente superate. Sono contro il supermercato ma nel mio caso limitare il numero sarebbe stupido perché ho talmente tanta voglia di fare che non vedo l’ora di fare tutto quello che ho in testa. Sono d’accordo con Jeff Koons che quando fa tre opere all’anno quei tre son quelli giusti. La sua ottica e orientamento nei confronti del mercato dell’arte è un codice che non c’entra con il mio. Anche se la mia non è arte usa e getta. E’ fatta a mano e sentita colore per colore e secondo me è prezioso ogni tratto.
Tutto potrebbe essere. Per adesso no, anzi, devo lavorare sulla longevità del fluo, che tende a morire e a scaricare. Bisogna puntare sulla sperimentazione dei pigmenti che possono mantenere la fluorescenza per un po’ più di tempo. Sto svolgendo un lavoro di ricerca iconografica. Sono affascinato dall’art nouveau e dalla rappresentazione della natura e la sua stilizzazione avvenuta negli anni ’20 circa. Mi è capitato di andare nei templi induisti in India e ho trovato degli ornamenti davvero simili. Anche in Laos e in Cambogia, Quindi sto facendo un mix tra questi paesi e Parigi -nel periodo storico che più amo- che saranno il fondo dei miei quadri, sui quali per esempio vorrei mettere Linda Evangelista che è una delle mie modelle preferite. Darò vita ad una sorta di liberty pop. Uno stile un po’ sottovalutato, come il barocco, presentato spesso solo come vezzo estetico, quando invece credo che sia stato una delle forme d’arte più rivoluzionarie della storia. In questo mio passaggio esistenziale non credo che lascerò grandi tracce e non me ne frega nulla. Voglio godere il momento che ho qui. Quindi se i miei quadri non saranno più fluo quando sarò morto, pazienza..tutto cambia, tutto è in continua evoluzione.
non ne esce alla grande Quaroni…